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diretto da Romano Luperini

il gattopardo

Il Gattopardo raccontato a mia figlia e l’arcipelago incantato delle grandi storie

 Doni e mappe

Ho iniziato la stesura de Il Gattopardo raccontato a mia figlia, in una casa silenziosa, apparentemente deserta, alle prime luci dell’alba, alcuni mesi prima che la mia bambina, ora quindicenne, compisse nove anni.  Desideravo farle un regalo di compleanno diverso. Una lettera che le svelasse quanto è importante leggere; e, soprattutto, quanto è importante immergersi in quelle opere-mondo chiamate Classici. Una lunga consuetudine di studi mi legavano alla figura sfuggente del Principe palermitano e alla sua opera. Gli avevo già dedicato anni di ricerche.

Eppure, il primo incontro con questo grande protagonista del Novecento, che risaliva agli anni ingrati dell’adolescenza, non era stato per nulla positivo. Come racconto nel libricino, frequentavo quella che allora si chiamava Scuola Media ed ero un’allieva particolarmente svogliata. Fu un lettore appassionato, il mio docente di Lettere, a consigliare alla classe quel romanzo e a leggerne per noi, con la sua voce sensibile, da cantastorie, le pagine iniziali. Naturalmente, poiché Il Gattopardo è un libro straordinario ma complesso, io non potei, allora, né apprezzarlo, né comprenderlo. L’appuntamento con una tra le opere più amate della letteratura italiana venne così rimandato a lungo. Solo sul finire degli studi universitari mi ritrovai infatti di nuovo tra le mani quel capolavoro e, vincendo l’antica diffidenza, presi a sfogliarlo. Fu una scoperta.

La sontuosa, sensuale e abbacinante bellezza della prosa lampedusiana mi travolse. Anche a libro ultimato, i suoi personaggi continuavano a chiedermi udienza.  Da allora, la magia si rinnova. Mi basta sfogliare le sue pagine per ritrovarmi al cospetto di un uomo-gattopardo pensoso e malinconico; per lasciarmi investire dalla risata sguaiata di Angelica la Bella; o perché giunga nitido, alle mie orecchie, il fruscio di sete e crinoline di vecchie e giovani dame d’alto lignaggio, che si muovono sui pavimenti di marmo pregiato, nelle stanze superbamente affrescate delle loro vetuste dimore regali, ignare del destino di rovina che le attende di lì a poco.

L’idea di trasformare l’avventura umana e letteraria del Principe in un racconto da donare alla mia bambina, scaturiva, dunque, da un doppio cortocircuito affettivo e aveva radici antiche. Memore dei miei trascorsi tristi di lettrice riottosa, desideravo consegnarle una sorta di piccola mappa, che le permettesse di raggiungere prima possibile l’isola del tesoro tomasiana. E che, da lì, le consentisse in seguito di procedere, sempre più spedita, verso l’arcipelago incantato delle grandi storie.

Ma, dietro la scelta di questo strambo dono, si affacciavano pure le preoccupazioni di un’adulta che ha il privilegio di svolgere da quasi cinque lustri il mestiere di docente.  E che si ritrova, a ogni nuovo ciclo, ad accogliere nelle classi, nella sua funzione di educatrice, un esercito sempre più folto di studenti refrattari all’oggetto-libro e dunque condannati a smarrire, senza misericordia, mano a mano che ci si inoltra nel bosco oscuro dell’età adulta, l’attitudine a una «lettura profonda». L’unica, come ci confermano le neuroscienze, in grado di assicurare la crescita cognitiva, intellettiva, affettivo-relazionale ed etica della grande scimmia nuda chiamata uomo (S. Dehaene, 2005; M. Wolf, 2009 e 2018).  

Le conseguenze di questa disaffezione al leggere sono sotto i nostri occhi. La desolante verità dei numeri legati all’indagine Istat e alle rilevazioni OCSE-Pisa 2018 è implacabile. Segnala, nel nostro Paese, sacche di analfabetismo funzionale sempre più ampie e resistenti, che coinvolgono il 47% della popolazione; e un giovane su sei. Tra gli studenti, uno su quattro non è più in grado di comprendere qual è l’argomento principale di un testo di media lunghezza; mentre solo uno su venti sa distinguere i fatti dalle opinioni.

Raccontare storie. Affidarsi a un cunto

Se davvero volevo sollecitare la curiosità di mia figlia e conquistarla alla lettura – non ho mai pensato alla fabula antirisorgimentale lampedusiana come un fine, quanto piuttosto come a un tramite –, la strada che dovevo percorrere era un’altra. Dovevo fare in modo che la mappa fosse parte integrante di un racconto vero e proprio. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Noi uomini siamo, infatti, l’unico «animale che racconta storie». (J. Gottschall, 2014; Y.N. Harari, 2019). Lo facciamo sin dall’ approdo sul Sasso azzurro.  La nostra stessa identità «personale si costruisce per la maggior parte sotto forma di configurazione narrativa.» (J.-M. Schaeffer, 2014 ). E persino i sogni che ci visitano a tradimento, nel sonno, altro non sono che le trame notturne di uno stesso, ininterrotto, desiderio di immaginare e raccontare.

La lettera di Giulia reclamava, pertanto, da subito, una cura che non avevo preventivato. Non avevo messo in conto di scrivere un nuovo libro. Né tantomeno, com’è stato definito «un saggio narrativo per giovani lettori». Tuttavia, se volevo catturare davvero la sua attenzione, il mio scritto doveva essere serio, rigoroso nei contenuti e nella struttura ma, nello stesso tempo, capace di replicare le cadenze distese, affabulatorie e ruffiane di un cunto, di un racconto orale. Mi toccava perciò provare ad intrecciare i mille fili sfuggenti di una quotidianità misteriosa, visto che, come ci ricorda uno dei suoi massimi biografi, poche vite di scrittori sono oscure quanto quella di Tomasi (A. Vitello, 2008). E tentare di attraversare, per intero, un’opera, che contrariamente a quanto si crede ancora, non si esaurisce solo con la costruzione di un unico, seppure celebre, libro.  

Ci rimane impresso solo quello che ci coinvolge intimamente. Ciò che sentiamo affine o, meglio ancora, familiare. È un principio didattico importante, che non va mai disatteso. La mia piccola, pigra lettrice avrebbe dovuto poter osservare Tomasi a tutto tondo e da angolazioni diverse: l’uomo, l’amico, il marito, il professore di letteratura, lo scrittore. Volevo che si avvicinasse il più possibile al Principe; che notasse quanta forza ma anche quanta quieta infelicità vi fosse nella sua vita di persona metodica, abitudinaria. Volevo persino che gli si affiancasse mentre, con passi lenti, zoppi, misurati, si recava, da giovane come da adulto, a metà mattina, dalla dimora di via Butera sino al bar Caflish, dove gli piaceva far colazione in silenzio, senza indugiare in inutili chiacchiere, chiuso a riccio nella sua scontentezza.

Dopo aver delineato il suo ritratto, avrei provato a dare volto e voce alle due donne che avevano rapito il suo cuore e se lo sarebbero conteso sino alla fine. La madre Beatrice Filangeri Tasca di Cutò, una delle donne più belle e raffinate della Sicilia del tempo dei Florio; e l’inflessibile Licy Wolff, la moglie straniera, una psicanalista poliglotta che ebbe un ruolo importante nella nascita del Gattopardo. Avrei ricostruito i legami familiari tra Tomasi e i cugini Piccolo di Calanovella, aristocratici bizzosi dalla cultura sconfinata.  E dato spazio alle cene sfarzose di Villa Vina, il buen retiro dei baroni, la cui eco si perpetua nelle pagine del suo capolavoro. Nelle stanze di quella dimora, visitata da refoli di mare e da transiti imprevedibili di fantasmi e venti, Tomasi immaginò – se non addirittura visse- momenti di sospesa serenità. Infine, poiché agli adolescenti piace molto ricostruire le genealogie affettive dei grandi personaggi (la loro stessa vita assomiglia a un pluzze male assemblato), le avrei raccontato pure della paternità tardiva di quest’uomo e dei rapporti col figlio acquisito, Gioacchino Lanza; e con quello perduto, Francesco Orlando.

Ma ciò che mi premeva più di tutto, naturalmente, era spronarla a immergersi nell’opera lampedusiana. Nella seconda parte della lettera-cunto le avrei dato alcuni suggerimenti. Narrato dell’altro Lampedusa, lo scrittore dei racconti, delle Lezioni, del romanzo solo abbozzato. Avrei quindi provato a svelarle parte dei misteri del capolavoro. Come nasce un personaggio corsaro come quello di Tancredi? Come un titolo, un’immagine, un episodio? La grandezza di autori come Tomasi si rivela nella cura maniacale che riservano ai dettagli. Scrivere è sempre un costruire mondi. Nulla può essere lasciato al caso. Gli esempi che Il Gattopardo mi offriva erano numerosi, ma quelli legati a Marianna e a Peppe Merda mi sembravano particolarmente calzanti – due personaggi così marginali, quasi avulsi dai movimenti tellurici dell’affresco gattopardiano.

Alla figura dimessa e mansueta della giovane prostituta sono affidate poche battute fugaci, eppure, come le avrei fatto notare, Marianna risulta centrale nell’economia del romanzo. Un’eguale importanza riveste il personaggio-fantasma di don Peppe, il suocero di don Calogero, a cui il Principe affibbia un soprannome ingiurioso. Le avrei fatto notare, infatti, che proprio dentro questa minuscola, irriverente spia linguistica, Tomasi ha celato la chiave d’accesso che ci consente di affacciarci sul cuore nero del coprotagonista del suo capolavoro. L’ «uomo nuovo» che ha le fattezze ripugnanti di una iena, destinato a succedere ai gattopardi al vertice della catena di comando e che emana un mortifero tanfo morale.

Nulla nasce come un fungo

In più di un passaggio delle sue Lezioni– gli appunti, le chiose, i lacerti di narrazioni di cui si serviva per insegnare letteratura inglese e francese ai suoi allievi-, Tomasi asserisce che ogni opera d’arte somiglia a un orologio. E sebbene solo l’artista possieda il dono di assemblarla al meglio, tutti -proprio tutti- possono provare a smontarla e lasciarsi incantare dalla seducente perfezione dei suoi meccanismi. In queste stesse pagine, sostiene pure che non esistono i miracoli letterari e che nessuna opera può nascere d’improvviso, come un fungo.

Mentre scrivevo la lettera a Giulia, ho ripensato spesso a queste osservazioni. Sino al 1954, anno in cui, vicino ormai al giro di boa dei suoi cinquantasei anni decide di scrivere il suo romanzo, quasi nulla lasciava presagire che la scrittura fosse parte integrante della vita di questo malinconico aristocratico siciliano. Eppure lo scrittore era stato sempre in agguato. Volevo che mia figlia se ne rendesse conto. Ovunque si trovasse, qualunque cosa stesse facendo, una parte di Tomasi rimaneva sintonizzata sui rumori intellegibili del suo mondo segreto.

Nel momento della stesura del capolavoro, avrebbe attinto a piene mani da un intenso passato di vicende familiari e recuperato episodi o persone che, nel succedersi delle diverse stagioni del suo vivere, lo avevano colpito. L’elemento di maggior rilievo era però un altro. Dentro l’opera, anzi dentro le opere, che avrebbe scritto nel corso di una breve ma assai intensa stagione creativa, sarebbero confluite anche le letture sterminate di una persona che poteva ben dire di sé «di aver letto tutti i libri». Al pari di ogni grande maestro, anche il Principe si nutriva delle opere altrui. La Letteratura è un dialogo incessante tra padri e figli letterari, che travalica le epoche, che non conosce l’angustia di perimetri territoriali. Bisogna tenerlo sempre a mente quando si sta per smontare un testo. 

C’era, infine, un’altra cosa che desideravo mettere in evidenza. La nascita del Gattopardo è preceduta da un lungo apprendistato. Tomasi legge, riflette, impara. Deve attendere molti lunghi lustri prima di trovare la sua personalissima voce. Nella società odierna, il «percorso del desiderio» e l’esperienza irrinunciabile dell’attesa, non sono più contemplate. Siamo abituati ad avere tutto e subito. Dietro ogni conquista importante, invece, il realizzarsi di un sogno più o meno grande – sin dalla giovinezza Tomasi desiderava scrivere –  vi sono caparbietà e fatica, delle rinunce. Credo che sia utile che i ragazzi, impegnati come sono nella costruzione della propria identità, ne prendano atto.

Leggere è pensare

Se piacere di leggere «non si può insegnare, si può però imparare» (G. Armellini 2008, p. 24. D. Pennac, 2010). E i ragazzi lo apprendono se leggiamo per loro e con loro, gli suggeriamo dei libri o ne discutiamo assieme. Se gli permettiamo di «lasciarsi alle spalle tutti i luoghi comuni con cui abbiamo trasformato la lettura in un’attività sana, educativa, virtuosa» (G. Marchetta, 2015). Leggere è sempre un atto di resistenza, un’eresia; non si ritorna mai indietro uguali, identici a come si era partiti, dal viaggio dentro un’opera.  Lo apprendono se li sosteniamo mentre procedono a tentoni, per tentativi ed errori, magari mescolando – in un’alchimia non per forza improbabile -, gli incubi onirici di Dylan Dog con quelli di Gregor Samsa. Ma, soprattutto, apprendono a leggere se gli stiamo vicini mentre esplorano i mondi possibili della Letteratura. Gli adulti hanno l’obbligo di «aiutare gli apprendisti lettori a concentrarsi su testi di valore».  (A. Chambers, 2015). Disponiamo, infatti, ormai di molte ricerche sul «cervello che legge» e sappiamo che esiste un rapporto di causa ed effetto tra «qualità della lettura e la qualità del pensiero» (M. Wolf, 2018). I Classici devono tornare a circolare nello spazio vitale delle loro esistenze.

Al pari dei laboratori o dei circoli di lettura o dei the letterari, a cui do ampio spazio in classe, la lettera-regalo era insomma un pretesto per tentare di riconciliare Giulia, esattamente come provo a fare con i miei allievi, «con la luminosa solitudine della lettura» (D. Pennac, 2015) e consegnarle una verità minuscola ma, secondo me, importante. La lettura dei libri non può mai essere intesa come «una pratica a sé stante, che finisce per essere solo ed esclusivamente in concorrenza con la vita; è invece uno di quei comportamenti attraverso i quali quotidianamente riusciamo a dare una forma, un sapore e uno stile alla nostra esistenza.» ( M. Macè, 2016). Basta fermarsi un attimo per rendersene pienamente conto. Nulla ci rende più umani di un buon libro.

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