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diretto da Romano Luperini

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Per una didattica storiografica reattiva all’arroganza: contronarrazioni dall’Etiopia a Guernica

 

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre. 

Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere (W. B.)

I guasti operati dalle “storiografie” revisioniste, egemoni al punto da non celare più l’obiettivo esplicito di assolvere o esaltare il fascismo e di condannare la resistenza, non si contano e si saldano alla volgarità razzista: sono un veleno iniettato nel corpo didattico e culturale italiano, dall’era di Berlusconi in poi, in un primo tempo con i criteri ‘stupidi’ e neoliberali della par condicio e poi in forme via via più arroganti.

Suggerisco quattro antidoti interdisciplinari, da usare in classe con intelligenza e pazienza e per contrastare l’arroganza: la ricerca di Angelo Dal Boca, studioso del colonialismo italiano, quella di Riccardo Bonavita, il libro di David Forgacs e la storicizzazione del dipinto di Picasso Guernica.

I crimini in Libia e in Etiopia

Italiani, brava gente? (2005) di Dal Boca narra i crimini coloniali italiani dalla repressione del brigantaggio nel meridione alle guerre in Libia ed Etiopia, dalla guerra d’occupazione nei Balcani al collaborazionismo della Repubblica sociale italiana nelle deportazioni. Il libro decostruisce un luogo comune radicatissimo e autoindulgente: il mito degli “italiani brava gente”, con i suoi correlativi familistici.  Tutt’altro che sprovveduti e incapaci di atrocità, gli italiani hanno anticipato e esportato alcune tecniche di distruzione di massa: i campi di concentramento, l’uso di armi chimiche, i bombardamenti aerei sulle città. La tecnologia bellica italiana degli anni Trenta, nel momento di massimo consenso al regime, era del resto avanzata e così l’industria della persuasione di massa.

In Libia il 20 giugno 1930, il governatore della Tripolitania e della Cirenaica, maresciallo Pietro Badoglio, per piegare la resistenza dispone l’evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica:

Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.

 

Vengono creati dei campi di concentramento tra le pendici del Gebel e la costa. Nel giugno 1930, le autorità militari italiane organizzano la deportazione dell’intera popolazione della Cirenaica: centomila persone sono costrette a una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto verso una serie di campi circondati di filo spinato costruiti nei pressi di Bengasi.

La guerra d’Etiopia fu un conflitto moderno e di dimensioni straordinarie per numero di uomini, per modernità di mezzi e per la propaganda utilizzata. In Etiopia sempre il maresciallo Badoglio, divenuto un emblema per i “moderati” dopo il 25 luglio ’43, per distruggere la guerriglia etiope nel dicembre del 1935 richiese a Mussolini l’autorizzazione a utilizzare le armi chimiche. I documenti dimostrano che Mussolini in persona autorizzò Badoglio all’uso dei gas: l’aviazione italiana sganciò anche su obiettivi civili duemila quintali di bombe, parte delle quali caricate con l’iprite, contravvenendo agli accordi di Ginevra che, dopo i massacri chimici della Prima guerra mondiale, vietavano l’uso di quest’arma.

L’immaginario razzista italiano

Il libro postumo del giovane Riccardo Bonavita, Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, a cura di Giuliana Benvenuti e Michele Nani (2010) analizza il romanzo commerciale d’epoca fascista, da Mario Carli a Salvator Gotta, da Giovanni Papini a Guido Milanesi e a Mario Appelius per indagare i dispositivi della cultura di massa tramite i quali il razzismo si è sedimentato in un accumulo di luoghi comuni che fanno apparire “naturali” le classificazioni discriminatorie su cui si fonda l’esclusione. Lo stereotipo dell’inferiore (l’africano) e quello dell’estraneo a ogni patria (l’ebreo) prima della legislazione coloniale fascista e delle leggi razziali del ’38, s’impongono insomma a partire dalla cultura dell’intrattenimento, da “bacini di credenza” apparentemente innocenti e di lunga durata, da un “serbatoio di dispositivi retorici” di tipo narrativo.

Misurare i margini

David Forgacs ha scritto un libro importante (Margini d’Italia, 2015) suddiviso in cinque capitoli (Periferie urbane, Colonie, Sud, Manicomi, Campi nomadi) sulla storia dell’esclusione sociale italiana: utile anche a scuola per lo studio dei dispositivi materiali e simbolici, non solo scritti ma soprattutto iconici, con cui si sono costruiti i margini e il «centro» della nostra identità nazionale. Il capitolo dedicato alle colonie italiane in Africa orientale mostra con chiarezza impressionante come le immagini contribuiscano potentemente all’emarginazione della popolazione indigena, soprattutto femminile.  Le fotografie sono scattate dai militari italiani presenti nel Corno d’Africa negli anni del fascismo: hanno per oggetto giovani prostitute ritratte a seno nudo con cui costruire il mito delle donne selvagge «sessualmente disponibili e libere dalle restrizioni operanti nell’Italia cattolica» (p. 66). Il possesso del corpo dei sudditi delle colonie è metafora del possesso territoriale: parallelamente vengono emanate le leggi razziali con il conseguente divieto di ogni relazione di natura coniugale tra italiani e “indigeni”, e le fonti orali e archivistiche rivelano il considerevole aumento degli stupri e delle molestie quotidiane da parte degli occupanti italiani ai danni delle donne native in un regime di vera e propria schiavitù sessuale.

Il bombardamento legionario su Guernica

Il celeberrimo dipinto, realizzato da Pablo Picasso nel 1937, trae il suo titolo dall’omonima città basca rasa al suolo quello stesso anno nel corso della guerra civile spagnola. Troppo spesso lo si lascia irrelato tra le immagini di repertorio del libro di storia, relegandolo a icona e usurandone la carica espressiva. Sulla vasta scena, in un interno, o sottoscala, pende un sole elettrico sotto il quale domina il corpo di un cavallo straziato, con la bocca spalancata e la lingua aguzza. Una donna si affaccia dalla scala, osservando stupita e pietosa la tragedia e illuminandola con una lampada a olio. A destra s’intravede un edificio rettangolare in fiamme abitato da una figura umana che leva le mani al cielo. A sinistra spiccano le teste di un toro e di una madre con il figlio in braccio, anch’essa a bocca spalancata verso il cielo. Sul terreno giace il corpo di un uomo morto, con una spada spezzata e un fiore tra le mani. 

L’attacco aereo su Guernica, che costituisce il tema del dipinto, non è stato attuato solo dagli aerei di Hitler ma anche dai bombardieri Savoia Marchetti e dai caccia Fiat italiani dell’Aviazione Legionaria. La Guerra di Spagna può essere considerata il “laboratorio” della successiva guerra mondiale: il colpo di stato del generale fascista Francisco Franco per rovesciare la Repubblica spagnola, democraticamente eletta, fu sostenuto dalla Germania di Hitler a dall’Italia di Mussolini. Guernica è la città più antica e popolare dei Paesi Baschi e l’attacco dal cielo sulla popolazione inerme fu compiuto per verificare in Europa l’efficacia di un bombardamento aereo nel piegare la resistenza dei civili secondo le tecniche sperimentate negli stessi anni Trenta nei territori coloniali italiani.

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