
Una precisazione e qualche riflessione intorno al mio intervento sulle telecamere
Qualche lettore ha inteso che il mio intervento sulle telecamere a scuola prendesse posizione a loro favore. Io, in verità, scrivevo contro di esse. Una proposta del genere mi terrorizza.
La mia intenzione era mimare le ragioni opposte alla mia, provare a esprimere, radicalizzandolo e rendendolo quasi caricaturale, un punto di vista che non mi piace. Ma il succo di questa nota non è questa precisazione. Credo infatti che sia assai istruttivo riflettere sui motivi di questo fraintendimento.
Avevo – e avevamo, come redazione – messo in conto l’equivoco. Lo stile stesso del pezzo vi si prestava. Qualche cattiva interpretazione sarà forse nata da letture frettolose ormai di prassi in rete. Ma credo che anche lettori competenti possano essere stati tratti in inganno. Invece di stabilire quanto io sia stato capace o meno di spiegarmi o quanto i lettori siano stati capaci o meno di capirmi, preferisco prenderla più alla larga.
Ho preso le mosse da una sensazione, forse da un’ossessione: la proposta di introdurre telecamere nelle scuole non è affatto folle, nel senso che non possiamo limitarci a respingerla a priori come inconcepibile e inaccettabile. È stata concepita. E se diventerà legge la accetteremo con una naturalezza che stupirà ogni nostro senso critico. La ultimamente tanto decantata qualità della resilienza è una caratteristica umana con un terribile lato oscuro: possiamo abituarci a tutto. Basta leggere Primo Levi per capire che gli uomini possono abituarsi persino all’inimmaginabile. Figurarsi a una telecamera.
Dopo aver letto il mio pezzo, la mia ragazza mi ha raccontato che sua sorella, che vive a Londra, ha una app sul cellulare con la quale può collegarsi alla telecamera della classe inglese della figlia e controllare in prima persona quello che lì succede. Quello di cui stiamo parlando, perciò, già capita, è già reale.
Io parto sempre dal presupposto che la realtà abbia sempre ragione. Ma devo spiegare cosa intenda dire: la realtà non ha ragione nel senso che sia sempre giusta o morale. La realtà ha ragione nel senso brutale del termine, nel senso che alla parola “realtà” hanno dato Machiavelli e Guicciardini: la realtà si impone a noi anche quando è, da un punto di vista morale e politico, sbagliata. Però gli esseri umani sono quella specie animale stramba che si oppone a questo dato di fatto e proclama che non ci sta.
Ecco la ragione del mio “esercizio di immedesimazione”. Volevo provare a prendere sul serio la proposta delle telecamere in classe e sforzarmi di capire perché potesse avere immediata accoglienza. Ho creduto di trovare il nodo del problema nella paura che un’asimmetria di potere e di status libera di esplicarsi nell’ombra, nell’opacità, nella mancanza di visibilità, possa produrre violenza e sopraffazione. Questa asimmetria non solo ci fa legittimamente paura, ma è tutto quello contro cui lottiamo dal 14 luglio del 1789. Noi pretendiamo – giustamente – che l’eguaglianza proclamata nelle dichiarazioni dei diritti e nelle costituzioni sia finalmente sostanziale. Anche un solo episodio di violenza, cioè di diseguaglianza e asimmetria, è inaccettabile. Specie se quella violenza ci riguarda direttamente.
Ecco il nucleo “democratico, progressista, di sinistra” (si notino però le virgolette) della richiesta di avere delle telecamere. Ecco perché le telecamere non sono solo lo strumento di uno stato di polizia alla Orwell.
Tutto questo è comprensibile, è reale. Eppure è totalmente sbagliato.
La quintessenza della morale consiste nell’assunzione di responsabilità verso se stessi e gli altri. Per essere più precisi: la quintessenza della morale moderna consiste nella responsabilità personale delle proprie azioni (che implica anche che per le proprie mancanze si dovrà pagare). Avere un occhio elettronico alle proprie spalle significa tornare all’idea che ci si debba comportare secondo morale solo perché un ente superiore e punitivo vede quel che fai. Tanto varrebbe ripristinare l’idea del Dio terribile e vendicativo e la confessione davanti ai suoi funzionari ecclesiastici in terra. Almeno Dio è infallibile. Sulla società, i suoi individui e i suoi dispositivi tecnici avrei invece qualche dubbio.
Non si possono poi tacere le conseguenze del controllo elettronico su uno dei principali presupposti sociali, la fiducia reciproca. L’essere umano è biologicamente e socialmente congegnato per fidarsi di default dei suoi simili: solo se sospettiamo che la nostra fiducia sia mal riposta mettiamo una telecamera per cogliere l’altro, fedifrago, in flagrante. Invertire l’ordine dei fattori può avere conseguenze sociali ad oggi incalcolabili: non mi fido di te, ecco perché voglio l’app per controllare cosa stai facendo a mio figlio, o anche soltanto cosa stai facendo con mio figlio. Un misto di ossessione da controllo – io sono l’unico depositario di cosa sia il meglio per me e per i miei, io voglio sapere – e di conflitto perenne tra individui – mi basta che tu sia una minaccia anche solo potenziale, e per me sarai una minaccia, da cui devo preliminarmente tutelarmi.
Il tono da progressista invasato del mio pezzo, il mantra del “ripetiamo insieme che lo facciamo per il bene dell’umanità” non sono, ripeto, affatto folli. Non è assurdo che la legge sulle telecamere passi anche al Senato dopo essere stata votata da una maggioranza bipartisan alla Camera. Ciò che mina alla radice alcuni presupposti della convivenza collettiva sta accadendo e il futuro che ora ci appare distopico sarà domani un presente accomodato a quella che quel fragile sentimento che si chiama buon senso ci sussurra essere una disumana pazzia.
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