«Non si fa politica in classe»
Alcune settimane fa nel corso di una manifestazione antifascista a Padova un’insegnante viene fermata dalle forze dell’ordine. Nei giorni successivi, sui quotidiani cittadini vengono pubblicate foto, nome e cognome, particolari della vita privata, mestiere; si insinua che fra professione docente e attività politica dovrebbe esserci incompatibilità. Entrano nel dibattito l’assessore regionale all’istruzione, Elena Donazzan, e il ministro dell’interno Salvini, chiedendo il licenziamento.
Pubblichiamo oggi, 25 aprile, la lettera di sostegno che un gruppo di docenti ha scritto (e che si può sottoscrivere qui), preceduta da alcune considerazioni: un invito a riflettere sui delicati rapporti fra docenza, politica, vita privata.
«Non si fa politica in classe». Il monito, in diverse possibili varianti, risuona dentro e fuori le aule italiane, rivolto tanto agli studenti quanto ai professori. Negli ultimi anni, viene impiegato con frequenza sempre maggiore per stigmatizzare l’assunzione di una responsabilità civile e politica da parte dei singoli docenti: gli attacchi, concentrici, provengono da posizioni diverse, tanto da destra quanto da giornali di orientamento neoliberale: il caso della professoressa, pretesto a queste considerazioni, è innescato da un articolo pubblicato sul Mattino di Padova, diramazione locale di Repubblica. È necessario fare chiarezza.
Il principio per cui in classe non si deve fare politica è generico, e in quanto tale si presta a fraintendimenti. È entrato stabilmente a far parte di un arsenale retorico spesso impiegato per tratteggiare il quadretto, un po’ triste e patetico, di un docente appartenente a una sinistra moralista fuori tempo massimo, naturalmente statale quindi un po’ approfittatore, pigro, vecchio – almeno nelle proprie posizioni. Legato al passato e alle sue dinamiche, insensibile e sordo alle contraddizioni dell’oggi. Ancora si fa politica a scuola?
Evitare le imposizioni
In senso proprio, in effetti, non si deve far politica in classe: la politicizzazione dell’insegnamento in questi termini è una delle basi, ad esempio, dello stato fascista. La relazione pedagogica che il docente istituisce con gli studenti è estremamente delicata: opera sulla base di un’autorità (non di un autoritarismo) all’ombra della quale strategie e limiti devono essere gestiti, con equilibrio e pacatezza, dall’insegnante. Ci sono domande che chiunque si sia seduto dietro una cattedra si è posto: fin dove spingermi con le mie opinioni? Fino a che punto argomentare il mio pensiero? Conscio della disparità della relazione, l’insegnante deve far fede a un’etica professionale: non imporre la propria idea, ma guidare lo studente nella formazione (problematica, difficile) di una posizione in dialogo e conflitto con la piccola comunità-classe in cui è inserito. Lo studio della letteratura e l’interpretazione forgiata col dibattito hanno in tutto ciò una funzione insostituibile.
La scuola rispecchia il mondo?
In senso lato, però, non si può ridurre questa a una questione scontata, alla norma dell’insegnamento: da sempre, infatti, le istituzioni scolastiche tendono a riprodurre e a proporre come naturali le forme sociali dalle quali sono prodotte e nelle quali si sviluppano. Queste tendenze sono oggi attive: si pensi, ad esempio, al proliferare di forme di pseudo-lavoro, all’interno del percorso di formazione, omologhe allo sviluppo di rapporti lavorativi non garantiti nella società; o alla standardizzazione della didattica in competenze, in relazione alla cosiddetta strategia di Lisbona, dunque alle linee di sviluppo economico europee. Un’etica docente improntata al pensiero critico e alla problematizzazione di ogni posizione, comprese quelle dominanti – alla formazione, dunque, da parte dello studente, di un proprio ragionamento, indipendente dalle posizioni del docente ma anche dal governo in carica – entra nella scuola italiana proprio sulla spinta dell’antifascismo, nella fase storico politica post-resistenziale, precisata poi con le lotte degli anni Sessanta-Settanta.
«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»: il significato dell’articolo 33 della Costituzione antifascista è quello di scongiurare una scuola che riproduca immediatamente, attraverso un rispecchiamento, la società della quale è espressione e i suoi valori; garantendo quindi uno spazio di critica. Per quanto ridotto, ridicolizzato, di difficile agibilità, nell’istituzione continua ad essere previsto. La contraddizione, per cui un’istituzione pubblica (e pubblicamente finanziata!) deve conservare una quota di dissenso rispetto al sistema ideologico che la esprime e sostenta, è incomprensibile agli occhi del governo: autoritario, in questo come in altre situazioni.
Proprio qui si concentrano le forme di repressione, che – come nel caso della professoressa padovana – danno un avvertimento: ben attenti a quel che dite professori; abbassate la voce; cos’è tutta questa confusione? Altrimenti tocca far intervenire la stampa, pronta a dare l’assist ai provveditori, come è successo in questo caso.
La parte del più forte
C’è un’altra precisazione da fare. Ogni nostro atto, ciascuna nostra affermazione sono, in senso generale, politici, in quanto portano con sé e mostrano una certa idea del mondo: di qui l’attenzione che un docente deve concentrare sulla propria stessa postura, sull’insieme dei rapporti che stringe con la propria classe, sulle scelte didattiche che compie, sul canone che tacitamente accetta o sovverte. Troppo spesso, invece, a chi farebbe «politica in classe» si vorrebbe imporre la neutralità. Questa posizione, caso per caso colpevolmente ingenua o liberista per scelta, non considera come essere neutrali significhi accogliere il senso comune, quella sorta di filosofia sedimentata – contro cui mettono in guardia, tra gli altri, Manzoni e Gramsci – che tende a riprodurre dunque a confermare i rapporti di forza esistenti. Essere neutrali significa cioè, qui come altrove, scegliere la parte del più forte. Si torna al problema, che è solo in apparenza contraddittorio, di garantire agli studenti della scuola italiana la possibilità di avere una formazione politica, non con una politicizzazione ma favorendo un confronto coraggioso, sincero, razionale, dal quale nulla resti escluso.
Quindi?
La questione non si risolve così; ha però il merito di porre, a partire da un caso, un problema di ordine generale, in questi termini: a chi interessa che la scuola aiuti gli studenti a porre a verifica il senso comune, cioè l’ideologia dominante? Né ai nuovi nazionalismi, né ai vecchi partiti neoliberisti. Interessa forse a noi: ognuno attribuisca al pronome il valore che può. Si ricominci, in questo senso, a fare politica, non a scuola ma fuori, rivendicando – come fanno i docenti che firmano la lettera – «il dovere di rispettare l’etica prevista dalla nostra professione e il diritto di usare la nostra vita privata per fare politica. Le due cose non entrano in contraddizione. Non c’è alcuna doppia vita».
Insegnanti e antifascismo: lettera aperta a Il Mattino di Padova
All’attenzione della redazione de Il Mattino di Padova,
del giornalista Enrico Ferro e di tutti i cittadini e le cittadine
In qualità di insegnanti ci sentiamo in dovere di esprimere la nostra solidarietà alla prof.ssa M. G., in seguito alla campagna mediatica violenta e diffamatoria messa in atto nei suoi confronti.
Di fronte alla pessima ricostruzione dei fatti fornita dal vostro giornale, si impone la necessità di riassumerli in breve. Venerdì sera a Padova il partito dichiaratamente fascista Forza Nuova, guidato dal suo leader Roberto Fiore, ex militante dell’organizzazione terroristica della peggior destra eversiva Terza Posizione, ha indetto una manifestazione contro la legge 194. Il questore ha concesso ai fascisti antiabortisti di sfilare per le vie cittadine.
In risposta, un arco variegato di gruppi e privati cittadini e cittadine si è mobilitato per esprimere il proprio dissenso. Tuttavia, la possibilità di manifestare è stata negata dal questore. Dopo un presidio, le persone hanno deciso di sfilare pacificamente per le piazze della città, fino a incontrare uno schieramento di forze dell’ordine, che ha caricato violentemente i e le manifestanti a mani alzate. Tre di loro sono state portate in ospedale e due fermate.
Nei giorni successivi, una di queste è stata oggetto di una condanna sommaria da parte del vostro giornale in quanto insegnante che ha deciso di essere presente alla manifestazione. Si allude esplicitamente all’incompatibilità fra professione docente e impegno politico antifascista. Vorremmo ricordare alla redazione e al signor Enrico Ferro che, tra i cosiddetti no global (ancora coi no global?) c’erano molte e molti insegnanti. La questione, però, va al di là della manifestazione di venerdì e del caso della prof.ssa M. G.: è un problema di democrazia. Ci preme sottolineare che:
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L’insegnante esercita le sue funzioni nel rispetto di un’etica professionale. Ai fini dell’esercizio della funzione docente è garantita – dalla Costituzione – la libertà di insegnamento e di scelta del metodo. Tale libertà serve lo scopo di formare gli studenti e le studentesse in quanto cittadini e cittadine della Repubblica Italiana. Fondamentale a tale processo è la costruzione del pensiero critico. All’insegnante interessa che lo studente e la studentessa abbiano gli strumenti per costruirsi autonomamente le proprie idee, non cosa pensano.
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Non c’è contraddizione fra il rispetto di questa etica professionale e l’assunzione di posizioni politiche chiare, in particolare nel momento in cui ciò avviene fuori dalle aule scolastiche. Da contratto, il lavoratore non vende se stesso, ma le sole attività indicate nel contratto e nell’orario previsto: resta irrilevante la sua vita extralavorativa.
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Questa distinzione marca la distanza dalla scuola fascista, in cui era richiesto il giuramento di fedeltà al regime.
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Il fatto che un’insegnante sia dichiaratamente antifascista e che agisca di conseguenza non dovrebbe apparire strano. L’antifascismo è uno dei pilastri dello Stato democratico in cui viviamo. Si dovrebbe anzi dire che un’insegnante ha il dovere di essere antifascista, come tutti i funzionari dello Stato, compresi questore, prefetto e forze dell’ordine.
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La teoria degli opposti estremismi, l’equazione fra fascismo e antifascismo, che alcuni giornalisti continuano a propugnare, inquinando l’opinione pubblica, è anticostituzionale oltre che oscena e nociva. In questo caso contribuisce, attraverso la criminalizzazione di un singolo, all’intimidazione di un’intera categoria, i cui membri – al pari di ogni altro cittadino e cittadina – devono sentirsi liberi di svolgere attività politica fuori dal posto di lavoro. L’attività politica è espressione dei più alti valori di cittadinanza.
Come insegnanti, quindi, rivendichiamo il dovere di rispettare l’etica prevista dalla nostra professione e il diritto di usare la nostra vita privata per fare politica. Le due cose non entrano in contraddizione. Non c’è alcuna doppia vita.
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