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diretto da Romano Luperini

Lattimo fuggente

La critica letteraria come dono e discorso

 Pubblichiamo qui un intervento di Demetrio Paolin sul problema dei premi letterari e del giudizio di qualità. Si tratta di uno scritto ricco di idee e di provocazioni, che ha suscitato anche all’interno della redazione un ricco dibattito. Ridotto all’osso il problema potrebbe essere sintetizzato così: ha senso, o addirittura è ancora possibile, cercare la qualità letteraria in una produzione segnata dall’inizio alla fine dalle esigenze della produzione commerciale? Insomma: si può ancora perseguire e valutare la qualità letteraria? Sarebbe bello, e utile soprattutto, se questo dibattito si allargasse anche all’esterno. Chiunque può dunque intervenire. La prossima settimana usciranno intanto gli interventi di Morena Marsilio e di Romano Luperini e poi una replica di Paolin.

***

Ognuno di noi ben ricorda una delle scene iniziali dell’Attimo fuggente, il film di Peter Weir, in cui il professore (Robin Williams) inizia la sua lezione, facendo leggere a uno degli alunni l’introduzione del libro di testo sulla poesia inglese. E mentre l’alunno legge, il professore anticipa le parole del libro disegnando sulla lavagna gli assi cartesiani, esemplificando come si possa in qualche modo misurare la capacità poetica di un autore. La scena si conclude con l’invito perentorio del professore a strappare quelle pagine come inutili e deleterie.

Ora a prescindere dal film, chi scrive trova quella pellicola molto discutibile, il problema posto in quella scena è centrale. Esiste una possibilità di “quantificare” la letteratura, di produrre un parametro per definirla e se sì in che modo questo può essere un dato oggettivo.

L’episodio de L’Attimo fuggente mi è tornato alla mente, quando mi è arrivata la richiesta di partecipazione alle nuove classifiche di qualità che Vanni Santoni e la rivista L’Indiscreto hanno lanciato. Ovviamente avrei potuto dire sì e dare i miei voti, oppure negarmi, adducendo la mancanza di tempo etc etc, ma il vero problema è che quell’invito mi ha portato a interrogarmi sul concetto e sulla parola qualità. È possibile stabilire una presunta qualità letteraria di un testo? È questo il compito della critica letteraria contemporanea?

In primo luogo il termine qualità mi convince poco, perché indica una serie di dati oggettivi e per nulla confutabili che ognuno può conoscere, misurare e utilizzare. Penso al controllo della qualità dei prodotti, alla misurazione della qualità dell’aria o dell’acqua, e potrei continuare. È possibile trovare un’unità di misura comune tra me e gli altri 100 e più votanti?

Inoltre questa idea di quantificare, perché la qualità non è altro che una quantificazione mascherata, cosa sottintende rispetto allo stato di salute della nostra letteratura?

Se sentiamo l’esigenza di parlare di qualità della letteratura, significa che possiamo finalmente dirci una verità per molto tempo taciuta: la letteratura è una merce, così come il cibo, le lavatrici, gli abiti, le scarpe e le automobili. Se crediamo che possa essere in qualche modo descritta in tali termini significa che il processo di degradazione baudelairiana dell’aura è arrivata al suo compimento.

Posto che sia così, allora mi chiedo quali possano essere i criteri oggettivi per assegnare i punti di qualità: tema, lingua, linguaggio, trama, editore indipendente vs editore di monopolio etc etc etc.  Più ci penso, più mi nascono nuovi dubbi e domande.

Può un critico letterario essere visto come una sorta di misuratore, di agrimensore del campo/spazio letterario? È questo il compito della critica? Siamo sicuri che il compito del critico letterario sia stilare classifiche? Produrre qualcosa come lo scudetto dei narratori? La Champions League dei Poeti? La Europa League dei Saggisti?

Le classifiche della qualità, che riprendono quelle stilate alcuni anni fa per iniziativa di Pordenonelegge, sono nate come corollario all’inchiesta sullo stato della critica letteraria, che sempre Vanni Santoni e la rivista L’indiscreto hanno portato avanti nei mesi scorsi. Le istanze contenute in quella riflessione hanno prodotto le classifiche di qualità (o almeno così io collego di due eventi anche dal punto di vista strettamente temporale); l’inchiesta rivelava come il leit motiv delle diverse risposte la marginalità del ruolo critico letterario e, paradossalmente, si è stabilito che spetti al critico stabilire ciò che è qualità da ciò che non lo è.

Ad un primo sguardo sembra un compito importante, ma in realtà è il segnale di una accresciuta marginalità. La critica letteraria, almeno come la intendo io, è essenzialmente studio del testo, riflessione sulla lingua e sulle strutture sintattiche e, infine, restituzione dello stesso testo sotto forma di discorso.

La critica non stabilisce cosa è buono e cosa no, la critica non stabilisce neppure cosa è letteratura o cosa non lo è, la critica si occupa essenzialmente dei testi che sono costituiti “da una serie più o meno lunga di enunciati verbali più o meno provvisti di significato” (Genette, Soglie. I dintorni del testo). Essa, immergendosi in questi enunciati, cerca di raccontare qualcosa, tenta di mettere in chiaro, di rendere nitido, ciò che il testo produce. Non è la qualità la preoccupazione principale del critico letterario. Sembra un paradosso: ciò che conta per il critico non è qualità, ma come il testo entra in comunicazione con chi legge, la produzione di stupore, di bellezza, di fatica; il modo con cui un testo influenza la sua epoca, come se ne fa carico e destino. Compito della critica letteraria non è mettere i voti, porre sufficienze o insufficienze, ma riflettere su qualcosa di più profondo che potremmo chiamare discorso sull’umano: “Ma in ogni caso ciò che noi in un’opera comprendiamo e amiamo è l’esistenza di un uomo, una possibilità di noi stessi” (Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo)

La crisi della critica letteraria, o il suo rilievo sempre più scarso nel panorama della pubblica discussione sullo stato della nostra letteratura, ha come segno questa scelta di sussidiarietà al mercato, che si esemplifica nel dire: ci sono libri di qualità e libri no; la qualità la stabiliscono gli addetti ai lavori, quasi fosse un bollino di pubblicità, come se fosse una certificazione di un prodotto biologico.

Ora questa concezione della letteratura sta producendo strani fenomeni, che sarebbero da approfondire; io ne accenno ad uno perché mi pare esemplificativo. Quest’anno, 2019, i libri candidati al Premio Strega sono stati 57. Evito inutili polemiche, credo che la Fondazione Bellonci abbia fatto bene a liberalizzare l’accesso, perché proprio questo gesto ha evidenziato uno strano evento che io vedo intimamente legato al discorso sulle classifiche di qualità.

Cerco di spiegarmi.

Lo Strega, a prescindere da ciò che si possa pensare, è il premio, o è tra i premi letterari più prestigiosi. L’idea che ci fossero 57 libri degni di essere candidati ci dovrebbe far esultare per lo stato assolutamente in salute della nostra letteratura. Però a guardare bene c’era qualcosa di stonato: come era possibile che alcune case editrici, anche piccole, avessero ben 3 autori all’interno dei 57? Perché soprattutto le case editrici minori hanno subito pubblicato sui loro profili fb e social queste candidature come fossero una vittoria? Perché hanno stampato la fascetta con scritto “Candidato al Premio Strega”, usando la inconfondibile grafica?

Non è, forse, anche questo un mero tentativo di prendere un bollino di qualità? La candidatura allo Strega con nuovo regolamento arriva con il semplice parere positivo di un solo amico della Domenica. Ha questo valore di qualità assoluta? È possibile che una stessa casa editrice abbia 3 libri tutti potenzialmente candidabili? È ipotizzabile che l’industria editoriale abbia visto la possibilità di usare tale accesso facilitato come uno spunto per farsi pubblicità a poco prezzo? Che lo abbia fatto usando il marchio e la storia del premio, mettendo la fascetta e provando così a essere più visibile in libreria? Non è questo un modo lampante di screditare il lavoro del proprio autore tramite mezzi da marketing di basso livello?

È chiaro che tutte queste domande sono retoriche. È certo, almeno per me, come le case editrici – soprattutto le più piccole – abbiano usato questa fase di selezione per farsi la pubblicità, per dire al lettore “forte” (anche sul lettore forte ce ne sarebbero cose da dire): “Guarda che io sono una casa editrice di qualità, perché in un solo anno sono riuscita a pubblicare ben x libri che possono fregiarsi del titolo di candidato”.

La scelta del Premio Strega avrebbe un suo senso, se questa opzione avesse avuto una ricaduta di ripensamento e di riflessione sui testi presentati. Cosa che non è accaduta. L’occasione a mio avviso è stata completamente sprecata: si è preferita la scelta di comodo e si è usata questa liberalità per farsi pubblicità a basso costo significa.

Ritorno, quindi, al termine discorso. Ciò che manca, e di cui la critica dovrebbe farsi carico, è proprio il discorso al campo letterario: mostrare agli addetti ai lavori (più che ai lettori) i meccanismi che stanno scegliendo e che i disastri che producono. Il problema non è tanto che non si producono e si pubblicano buoni libri, ma che idea di mercato, di comunicazione, di riflessione sul libro hanno le case editrici, i giornali e i social. Il compito del critico in questo momento non è tanto di indicare quale libro sia meglio leggere, ma è di smontare questo meccanismo, mostrarne le strutture e le manchevolezze. È necessario far vedere la riduzione a mero oggetto della narrazione, spiegare che non basta opporre il concetto di qualità a quello di story telling per sancire ciò che è buono da ciò che è no, che il problema sta nell’idea di mondo che gli intellettuali, le case editrici, i suoi funzionari e i suoi autori hanno.

L’impressione è che tutto sia un prodotto misurabile, quantificabile e qualificabile, perché solo così può essere comunicato, commercializzato e venduto. Il critico letterario deve opporre a tutto questo l’estetica del dono. Per spiegare cosa intendo mi rifaccio a un breve apologo di David Foster Wallace dal titolo Il diavolo è un tipo impegnato, in cui si racconta di un uomo che per liberarsi di ciò che non usava più metteva un annuncio sul giornale per regalarlo. Paradossalmente se l’oggetto era “gratis” nessuno veniva a prenderselo, ma se lo stesso oggetto veniva messo in vendita a pochi dollari la gente immediatamente chiamava per venirlo a ritirare, perché lo vedeva come un affare.

La letteratura è simile a quell’oggetto donato che nessuno vuole, perché non ha valore, perché non è quantificabile, perché non è misurabile in termini economici, e la critica letteraria ha il compito di togliere il testo dalla logica del mercato, che permea in maniera consapevole ogni aspetto della vita, e farlo diventare nuovamente dono e gesto seme per ognuno di noi.

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