Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo di Daniela Brogi
Il recente saggio di Daniela Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci, 2018) prende avvio da una domanda tanto diretta quanto di difficile risposta, e che probabilmente tutti noi docenti di lingua e letteratura italiana ci siamo posti nell’apprestarci a insegnare il capolavoro manzoniano ai nostri studenti, dalla secondaria di primo grado fino all’università: perché I promessi sposi è “una delle più grandi e più belle narrazioni prodotte dal realismo occidentale”? (p. 3) Il quesito ci viene spesso proposto dagli stessi alunni, di solito associato a una velata allusione – se non proprio a un’aperta ironia – rispetto alla necessità di aggiornare le programmazioni. In diverse occasioni ci siamo chiesti come ribattere in modo convincente, e portare così dalla nostra parte i lettori riluttanti delle nostre aule scolastiche. Questo importante lavoro interpretativo articola una risposta convincente equiparando lo sguardo dello scrittore a quello di un artista, per la sua unica capacità di cogliere di ogni scena l’aspetto visuale e incorporarlo nella linea narrativa. La scrittura di Manzoni vive dunque “di uno scambio continuo fra parole e immagini” (p. 13). Attraverso un costante paragone con l’opera di uno dei più importanti pittori della modernità, Caravaggio, si possono comprendere più a fondo alcuni aspetti significativi de I promessi sposi, da cui scaturisce una bellezza che non è solo della lingua, ma anche della capacità di forgiare con essa immagini vivide, che colpiscono l’immaginazione proprio per l’esattezza del dettaglio, come si riscontra nelle tele seicentesche citate dall’Autrice.
Uno degli interrogativi senza dubbio più importanti che si pone Brogi riguarda il senso in cui I promessi sposi è un romanzo storico, aspetto che non solo tentiamo di spiegare agli studenti, ma su cui si sofferma anche un ampio contesto critico-letterario quando, ad esempio, affronta il romanzo storico contemporaneo stabilendo rapporti di contiguità o di distanza con il grande modello. La questione è emersa quando nel 1958 uscì postumo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, o in modo ancora più forte nel 1990 quando apparve La chimera di Sebastiano Vassalli. La ridefinizione del genere è stata inoltre centrale quando si è trattato di incasellare un’opera abnorme come Il nome della rosa di Eco. Tutti questi sono propriamente romanzi storici, sì, ma in quale modo e in che senso sono romanzi storici? E soprattutto, quanto incide il modello manzoniano?
La tesi sviluppata da Brogi è che l’autore de I promessi sposi si comporta da storico, nel senso che “grazie alla storia il romanzo si riqualifica, conquista una sua morale […] nello stesso momento in cui ‘schiera di nuovo in battaglia’, ovvero riconcettualizza gli eventi e i destini del passato rimossi dalla memoria storica ufficiale”. Manzoni non è dunque solo uno storico che recupera fatti dimenticati per rielaborare il rimosso, per riportare a galla elementi della storia che hanno formato nel tempo l’identità e la coscienza di un popolo. Non è neppure solo un romanziere che “attraverso la retorica narrativa, organizza una nuova prospettiva su questi eventi; è anche, nel medesimo tempo – e secondo un cortocircuito tipico della coscienza storica del XIX secolo (White 1973) – un filosofo della storia” (p. 57). Questo suo essere filosofo della storia fa di Manzoni un intellettuale che seleziona le vicende che si ripropone di narrare sulla base del potenziale in esse contenuto, per ampliare lo sguardo dal caso individuale alla condizione umana in generale, come accade nella mirabile costruzione del personaggio di Gertrude.
Brogi paragona la prima apparizione di Gertrude attraverso le grate del parlatorio al quadro di Antonio Campi Santa Caterina d’Alessandria riceve in carcere la visita dell’imperatrice Faustina. In un brano esemplare per la forza della sua analisi, Brogi identifica il meccanismo attraverso cui viene fabbricata l’identità di Gertrude, a cui l’Autrice associa il corredo delle “belle illustrazioni della ‘Quarantana’ preparate da Gonin sotto la vigile attenzione di Manzoni” (p. 93). La costruzione identitaria della bambina avviene attraverso il gioco di sguardi vigili che la contengono, le silenziose ingiunzioni e le terribili reprimende. In nessun momento della sua infanzia, alla bambina è permesso esternare istanze che divergano dal destino che è stato stabilito per lei. La sua vita non le appartiene nel modo più assoluto, il suo pensiero è regolato da indicazioni a cui non si può sottrarre, e che si esplicano in ogni momento della sua quotidianità, attraverso il gioco, ad esempio, su cui si sofferma Manzoni, citando le bambole vestite da suore. Una gabbia identitaria da cui non c’è scampo. “Gertrude, sin da piccola, passa la vita a scrutare come è guardata, ad accertarsi di non essere malvista. Assieme a una dinamica affettiva opera un sistema sociale. La paura è il dispositivo esistenziale, ma anche strutturale e narrativo della storia: il narratore non riassume, non descrive, ma mima in presa diretta le strategie di accerchiamento sadico del personaggio, con un effetto massimo di avvicinamento e di identificazione tra chi è all’interno della storia e chi la legge” (p. 87) L’efficace analisi dei rapporti di forza che segnano l’educazione della piccola Gertrude ci porta a comprendere le implicazioni emotive della sua vicenda personale, da cui emerge un vissuto drammatico. Gertrude diviene figura del desidero di riconoscimento, oggettiva cancrena dell’identità femminile quando essa è determinata dall’assenza di uno sguardo materno che accolga e dal predominio di quello del padre che inquadra. Gertrude diventa quindi simbolo universale dell’incapacità di superare quell’imprigionamento dato dal congelamento del desiderio. Come sostiene Brogi, nella rappresentazione manzoniana “il tempo della sventura e il tempo del desiderio si blindano reciprocamente” (p. 94), dando vita a una Gertrude impossibilitata ad agire diversamente da come la fa agire Manzoni: risponde solo se interpellata al padre come a Egidio, non è in grado di farsi soggetto, non regge le fila del proprio destino. Questo la rende un personaggio indimenticabile e uno dei più riusciti di tutta la storia letteraria nazionale.
In che senso poi, tornando al titolo e venendo al cuore del saggio di Daniela Brogi, I promessi sposi è un romanzo per gli occhi? L’Autrice analizza la modalità narrativa attraverso cui le figure emergono dalle parole dei protagonisti, ne vengono preannunciate, come un raggio di luce che illumina una scena in un quadro di Caravaggio. Ad esempio, “Lucia è una parola che si infila (gettata a traverso) nelle zone cieche delle fantasie omicide di Renzo per portarvi luce”, o ancora: “don Rodrigo esce dall’ombra delle parole indefinite dei bravi, e come un fulmine entra nella paura di don Abbondio” (p. 75). Don Rodrigo è anche “un baleno che esce dalla tenebra e illumina, per paradosso chiaroscurale, la notte dello spavento indistinto” (p. 76). Il tema della paura predomina nel romanzo, lo spavento è ciò che determina il ritmo narrativo fin dalla prima panoramica che si stringe nel viottolo in cui Abbondio incontra i bravi. La paura, sostiene l’Autrice, “non pronuncia mai domande chiare, ma esprime visioni oscure”; come in certe tele di Caravaggio, “dove le figure sono rappresentate in assenza di sfondo, don Rodrigo emerge dalle tenebre della percezione soggettiva di don Abbondio” (p. 76).
Questo balenare caravaggesco dallo sfondo nero caratterizza l’emergere di alcune fra le figure più importanti della vicenda. Il rapporto fra l’opera di Manzoni e la biografia di Caravaggio è forse di tutto il saggio la rivelazione più innovativa. Nel quarto capitolo l’Autrice si misura con il realismo di Manzoni e Caravaggio avendo stabilito precedentemente il rapporto fra i due, che passa dal titolo della prima stesura (Fermo e Lucia erano i nomi dei genitori di Michelangelo Merisi), alle linee dinastiche che interessano sia la vita del pittore sia quella del romanziere, entrambi in rapporti stretti con varie figure storiche in diversa misura presenti nel romanzo. Quello de I promessi sposi è “un ambiente continuamente abituato a comunicare attraverso esperienze visive; al tempo stesso, fa entrare in scena la figura che più contribuì, all’epoca dei fatti raccontati, a rafforzare il legame tra le immagini e la cultura popolare, e che costruisce l’occasione più forte di intersezione e implicazione tra l’opera di Caravaggio e quella di Manzoni, vale a dire Federigo Borromeo” (p. 101). Al centro dell’indagine sui rapporti fra i personaggi del romanzo e la realtà storica c’è la vicenda della Canestra di frutta di Caravaggio, quadro appartenuto a Federigo Borromeo, fatto che consente di stabilire un legame fra il testo e l’identità storica del personaggio manzoniano.
Riprendendo il titolo del saggio, l’intento di creare un romanzo per gli occhi, di rendere visibile un’idea, è espresso ne I promessi sposi al capitolo XXXI, in quel punto della vicenda in cui si dice che per convincere la popolazione dell’esistenza della peste sia stata necessaria una prova manifesta, “che parlasse agli occhi” (p. 105). Il paragone stabilito da Brogi è con la tela Incredulità di San Tommaso in cui il pittore rende evidente il supplizio del Cristo ritraendo il dito del santo che la mano di Gesù infila nella ferita sul costato. La realtà narrata nei Vangeli viene resa visibile a chi non vuole credere, così come la realtà della pestilenza si concretizza nell’immagine dei cadaveri dell’intera famiglia morta di peste, nudi e caricati sul carro perché gli increduli potessero vedere con i propri occhi ciò che stava accadendo. “L’opera di Caravaggio e quella di Manzoni fissano alcuni dei risultati più alti di questo progetto di rendere evidente l’accidentale, redimendolo allo sguardo, ma lasciandolo esprimere – proprio questa è la sua potenza – dalle scene buie dell’esistenza oscura e pronta a scomparire” (p. 114).
Secondo l’Autrice, l’intero corpus de I promessi sposi può essere definito come una storia culturale dello sguardo, che si concentra in un microcosmo lombardo della prima metà del Seicento. Si tratta per Brogi di leggere I promessi sposi considerando i giochi di luce ombra come parte dell’intento, riuscitissimo, di Manzoni di fare uso di “un sistema culturale complessivo” (p. 129). In un’epoca in cui è sempre più difficile fare leva sull’importanza dell’educazione alla capacità interpretativa degli eventi, siano essi storici, economici o sociali, un’opera che si misura con la complessità semantica custodita dalla storia culturale non può che emergere nel panorama critico attuale. Non è forse irrilevante notare, inoltre, che le migliori prove saggistiche in questo tempo così incline a confondere i piani provengono da interessanti voci femminili.
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