Lettura di un capitolo di Danubio (Mauthausen, sezione III, capitolo 6)
Il libro
Che libro è Danubio di Claudio Magris? Nel 1987 ha ottenuto il Premio Strega, riservato (com’è noto) alle opere narrative, ma credo che nessuno penserebbe di definirlo romanzo: manca infatti un intreccio, non c’è un personaggio a dare unitarietà agli eventi (che infatti sono per lo più indipendenti l’uno dall’altro), il tempo si riavvolge continuamente su sé stesso senza che sia tuttavia possibile stabilire un prima e un dopo tra i diversi episodi narrati, e in quale rapporto questi stiano tra loro. Non è nemmeno un racconto di viaggi, perché le sequenze descrittive sono nel complesso limitate, e non rappresentano il proprium del libro, e anche la cronologia da taccuino di viaggio è piuttosto sfilacciata: i riferimenti ai singoli luoghi presentati, dalle fonti alla foce del Danubio, non necessariamente si devono immaginare disposti secondo uno sviluppo cronologico lineare. Due elementi danno unità al testo, la voce d’autore e il percorso del fiume, che è il vero protagonista e motore del libro: il Danubio offre alla voce d’autore lo spunto per digressioni, recensioni, descrizioni, brevi narrazioni che si collocano in luoghi ben precisi e non potrebbero stare altrove. Una precisazione, necessaria per la comprensione del testo: la voce d’autore offre uno sguardo dall’alto e quasi mai si incarna in un personaggio che nel testo dica io, assumendo direttamente su di sé la responsabilità di quanto affermato. L’io narrante presente nel libro non è un io autobiografico, ma piuttosto una funzione narrativa che serve a raccordare i diversi snodi, laddove il tragitto sinuoso del fiume non sia sufficiente a far progredire il testo.
La lettura che propongo del capitolo Mauthausen (sezione III, capitolo 6) ha, sullo sfondo lontano, la discussione sulla definizione delle tipologie testuali sollevata dalla recente riforma dell’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di scuola secondaria: che cos’è un testo letterario, che cos’è un testo argomentativo, quali differenze ci sono tra i due, e Danubio come va considerato? (Ricordo, tra parentesi, che gli esami di Stato 2012/13 per l’analisi del testo letterario proponevano una pagina dello stesso Magris tratta da Infinito viaggiare, opera che a sua volta sfugge ad una definizione testuale univoca.) Non sono in grado di dare una risposta certa, dico solo che, dal mio punto di vista, Danubio è sicuramente un testo letterario, le cui tesi sono formulate e sostenute in forme stringenti dalla voce d’autore con argomenti propri della prosa romanzesca (racconti, descrizioni, digressioni autodiegetiche): un po’ come certe poesie di Leopardi o di Montale, che si avvalgono degli strumenti della poesia (dalla partizione strofica alla sonorità del verso, dalle figure di ripetizione all’ordine delle parole) per dare voce a idee e prese di posizione ben definite sulla vita del singolo e sulla storia dell’uomo.
Incipit e finale di capitolo
Riporto la prima e l’ultima frase del capitolo dedicato al campo di sterminio di Mauthausen:
In questo Lager, non dei peggiori, sono morte più di centodiecimila persone.
[…]
Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita.
Frasi brevi, come si vede, e di sicuro impatto, accomunate dal fatto di presentare due dati numerici: centodiecimila persone, dodici anni. Queste cifre non sono asettiche e neutralmente referenziali, caricano piuttosto il testo di domande aperte: quanti sono i centodiecimila morti di Mauthausen, rispetto al milione e duecentomila morti (stimati) di Auschwitz? rispetto ai centodiecimila morti, cosa significa che Mauthausen non è stato tra i Lager peggiori? che rapporto c’è tra la resistenza ai viaggi e alle intemperie della vecchia giacca a vento, che nel testo viene a rappresentare la vita dell’individuo Magris, e gli anni 1933-1945, che fanno invece riferimento alla storia mondiale? Una delle specole di osservazione di Danubio riguarda proprio la necessaria coesistenza del micro e del macro, l’identificazione del micro soggettivo e spesso autobiografico nel macro del divenire storico che si presenta con tratti incontrollabili e spersonalizzati. Si noti, a questo punto, che le due cifre sono strettamente collegate tra loro, perché è evidente che se il Terzo Reich fosse durato di più o di meno di quei dodici anni, anche la cifra indicata in apertura sarebbe aumentata o diminuita. La compattezza di questo capitolo si ritrova pertanto non solo nell’unità di spazio e di argomento (Mauthausen): la violazione dell’unità di tempo (molto frequente in Danubio) viene infatti compendiata dalla voce d’autore, che attraversa il capitolo (come anche il libro) dominandolo dall’alto e saldandone i singoli snodi testuali.
Racconto, descrizione, riflessione
Partiamo con due brani, di carattere narrativo il primo (in cui la voce d’autore si presenta come io interno al testo), di carattere descrittivo il secondo:
Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali e impervi, il sole scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche avide di sacrifici umani, le piramidi di Teotihuacán e idoli aztechi, anche se dei più moderni e civili non hanno impedito ai torturatori di torturare;
Mentre sono ancora sulla scala, ho davanti agli occhi una fotografia, fra le tante viste poco prima nel Lager. È la fotografia di un uomo senza nome, probabilmente, dall’aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi, l’espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato nel cuore dell’inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita.
Nonostante le diverse pertinenze testuali, entrambi i brani aprono la strada ad una digressione di carattere introspettivo (evidenziata con il corsivo nelle due citazioni), che arriva imprevista e senza mediazione, e sposta il discorso su un livello diverso, mutando le coordinate tanto temporali quanto geografiche: il passaggio dalla Scala della Morte alle piramidi di Teotihuacán non è di ordine logico, come anche il passaggio dalla descrizione degli indumenti indossati dal prigioniero (osservati nella fotografia qui descritta) alle uniformi delle SS (che la voce d’autore paragona a costumi di carnevale miserabili e straccioni) alla vecchia giacca a vento buona per le gite viene semplicemente espresso, senza il sostegno di alcuna argomentazione. In Danubio la voce dell’autore spesso dice e basta, pronuncia affermazioni che non hanno bisogno di essere spiegate, perché gli argomenti sono tutti interni ai temi trattati: l’accostamento tra la Scala del campo di sterminio e le scale delle piramidi azteche (e le stragi di cui entrambe sono macchiate) genera un cortocircuito, tale che il procedere solitamente raziocinante del testo lascia lo spazio all’illuminazione istantanea e figlia dell’empatia.
I due brani sopra riportati sono distanziati e inframmezzati da sequenze di altro argomento: a dare unità a questi due brani come all’intero capitolo è lo spazio fisico in cui la voce d’autore colloca le proprie riflessioni, cioè la Scala della Morte, che è il filo conduttore della seconda parte del capitolo:
Su questa scala di Mauthausen si sente, fisicamente, la superfluità dell’individuo, il suo annichilimento, la sua sparizione; come se egli fosse un dinosauro o un okapi, un animale estinto o in via di estinzione;
Su questi scalini, il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente dà segni di squilibrio mentale, uno di quei numeri di matricola che l’ufficio competente del Lager incideva sul braccio dei detenuti. Ma su questi gradini l’individuo ha saputo anche rendersi unico e incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia;
Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea di questa abiezione. Mentre sono ancora sulla Scala ho davanti agli occhi una fotografia…
e il brano si ricollega al passo descrittivo sopra riportato: si noti che anche in queste sequenze il passaggio dal momento descrittivo al momento introspettivo è immediato, e il capitolo sicuramente più atroce della storia del Novecento sfocia nella storia antica o nell’epica. Vale la pena sottolineare che, quando Mauthausen e la Shoah in generale vengono accostati ad altri eventi della storia mondiale, l’orizzonte si amplia e quei precisi momenti storici vengono in qualche misura ridimensionati: Mauthausen e i dodici anni del Terzo Reich rappresentano il livello macro rispetto alla vecchia giacca a vento evocata dalla voce d’autore, ma stanno sullo stesso livello di altri episodi storici ugualmente atroci (si veda, a questo proposito, la quarta tesi riportata nel paragrafo successivo) e vengono riassorbiti in un divenire storico unitario.
Lo stile argomentativo
Diverso è il caso in cui Magris propone delle tesi che poi argomenta. In questo capitolo se ne possono individuare cinque, e le prime quattro sono collegate tra loro dal tema trattato: la letteratura dei campi di sterminio (anche nella variante della letteratura dopo i campi di sterminio). Ecco le prime tre tesi con i relativi argomenti:
1ª tesi: La letteratura e la poesia non sono mai riuscite a rappresentare adeguatamente quest’orrore; anche la pagine più alte sbiadiscono di fronte al nudo documento di questa realtà, che sovrasta ogni immaginazione.
Argomento 1: Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche e le camere a gas.
Argomento 2: Soltanto chi è stato a Mauthausen o ad Auschwitz può cercare di dire quell’orrore radicale; Thomas Mann o Brecht sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una storia di Auschwitz le loro pagine sarebbero state letteratura d’appendice rispetto a Se questo è un uomo.
2ª tesi: Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure le vittime, bensì i carnefici, Eichmann o Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, –
Argomento 1: probabilmente perché, per dire cos’era veramente quell’inferno, lo si può soltanto citare alla lettera, senza commenti e senza umanità.
Argomento 2: Un uomo che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore lo shock di quella mostruosità.
3ª tesi: Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a morte e l’impiccagione, Rudolf Höss.
Argomento 1: La sua autobiografia, Comandante ad Auschwitz, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la stessa possibilità di raccontarle.
Argomento 2: La penna registra imperturbabile ciò che accade, l’ignominia e la viltà, gli episodi di bassezza e di eroismo fra le vittime, le dimensioni immani del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea per un attimo, sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati.
Argomento 3: Il libro di Höss è terribile – terribilmente istruttivo – perché la sua epica concatenazione dei fatti mostra come nella meccanica ruota delle cose si possa giungere, un passo dopo l’altro, a diventare non solo vigili urbani o cuochi dell’esercito del Terzo Reich, comparse dell’orrore, ma anche primattori e registi dello sterminio, comandanti ad Auschwitz.
I tre esempi mostrano le strategie argomentative di Magris, che (per lo meno in questo capitolo) tanto per le tesi quanto per gli argomenti procedono dal generale allo specifico: i racconti dei testimoni sono più adeguati dei testi letterari a raccontare l’orrore dei Lager, da cui discende che tra i racconti dei testimoni sono più significativi quelli dei carnefici, da cui discende che tra i racconti dei carnefici «il più grande libro sui Lager» è Capitano ad Auschwitz di Rudolf Höss.
La quarta tesi è in realtà un’antitesi, perché Magris riferisce un pensiero di Adorno da cui dissente: la procedura argomentativa è analoga a quella presentata per le prime tre tesi, ma in questo caso gli argomenti servono per confutare la tesi di altra persona:
4ª tesi: Adorno ha detto che dopo i campi di sterminio è impossibile scrivere poesia.
Argomento 1: Quella sentenza è falsa – e infatti è stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse scrivere «dopo Maidanek», altro terribile Lager, che ma che ha scritto «dopo Maidanek»;
Argomento 2: è falsa anche perché non c’è stato soltanto il nazionalsocialismo, e pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, i gulag o Hiroshima la rima fiore-amore era – è – altrettanto problematica.
La quinta tesi propone un argomento diverso, e sembra avere la funzione di dare coesione rispetto alla prima parte del capitolo, avviando alla conclusione:
5ª tesi: su questi gradini l’individuo ha saputo anche rendersi unico e incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia.
Argomento 1: Quella giovane donna che, sulla soglia della camera a gas di Auschwitz, si volta verso Höss, e gli dice, sprezzante – com’egli racconta – che non ha voluto farsi selezionare, come avrebbe potuto, per seguire i bambini che le erano affidati, e poi entra sicura con loro nella morte, è la prova dell’incredibile resistenza che l’individuo può opporre a ciò che minaccia di annientare la sua dignità, il suo significato.
Argomento 2: Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea dell’abiezione.
Il primo argomento è un argomento di autorità: la giovane sconosciuta che entra nella camera a gas assieme ai bambini che le sono stati affidati è testimone autentica e autorevole della Shoah come Primo Levi e Umberto Saba citati nelle sequenze precedenti, e più dello stesso Höss che nel suo memoriale la consegna, senza nome, alla storia. Il secondo argomento sposta il primo su un livello di comprensione più alto, sotteso a Danubio considerato nella sua interezza: anche in un contesto concentrazionario e di regime totalitario c’è lo spazio per l’agire libero del singolo individuo, la storia dell’uomo che, appena al di sotto dei nomi noti a tutti (Hitler, Höss, Eichmann…), diventa forza anonima e inarrestabile non annulla la storia degli individui, a loro volta anonimi (la donna che pur potendo non rifiuta la morte nella camera a gas, i trecento delle Termopili…) ma sottratti al progredire indifferenziato degli eventi della storia mondiale. Di questa compenetrazione tra il macro, che spesso è ineffabile, e il micro, che invece è dicibile, è figura il fiume Danubio, che conserva i propri tratti identitari (come avviene ai protagonisti dei romanzi) dalla grondaie di Berg da cui nasce al delta sul Mar Nero, antica patria dei lipoveni.
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