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diretto da Romano Luperini

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Racconti di intolleranza nei temi degli studenti delle medie

 

Un semplice quesito di «cittadinanza e Costituzione»

C’è una classe. È la terza media di una scuola in una città o un paesone (fate voi) della provincia di Roma. Con qualche differenza potrebbe essere una qualsiasi altra provincia italiana. Ci sono ragazzini di tredici, quattordici anni, che scrivono. Hanno una consegna per il compito, è una parte del compito di storia: raccontare un episodio di cui sono venuti a conoscenza, o del quale sono stati testimoni, che possa esprimere a diverso titolo una violazione dell’articolo tre della Costituzione. Hanno appena finito di ripassare la Rivoluzione francese e hanno parlato del principio di uguaglianza. Tutti lavorano, ognuno ha un fatto da raccontare.

C’è l’insegnante che ha dato il compito. Si aspetta di sapere, più o meno, cosa ne verrà fuori. Si tratta forse non solo di un compito, ma di una sorta di verifica rispetto a una semplice domanda: quanto davvero incide la comunicazione massmediatica e dei social-network sull’elaborazione dei pensieri, sulla costruzione delle idee e, di conseguenza, sui comportamenti rispetto a principi che dovrebbero essere patrimonio consolidato della nostra società. L’insegnate suppone che da quello che verrà fuori dal compito di storia sarà costretta a prendere in considerazione qualcosa che, a livello personale, da qualche tempo ha deciso di non considerare, e cioè tutta la ridda di trasmissioni, articoli, servizi, interviste, talk-show, post di facebook, commenti ai post, che abbiano come tema il razzismo o l’immigrazione. 

Così è.

L’articolo tre della Costituzione è «di pelle nera»

Un paio di giorni dopo l’insegnante inizia a correggere i compiti.

Uno: «Qualche settimana fa ho sentito al telegiornale che una persona di colore era stata uccisa perché era di pelle nera».

Due: «Sono rimasta colpita da un fatto che è successo ad una ragazza che cercava lavoro e che per la maggior parte delle volte veniva rifiutata perché era di colore».

Tre: «Secondo me Matteo Salvini che caccia gli immigrati africani dall’Italia non rispetta l’articolo tre della Costituzione».

Quattro: «Un po’ di tempo fa al telegiornale ho visto e sentito di una nave piena di immigrati che non li voleva nessuno. È giusto che questi migranti vengano in Europa perché si muoiono di fame, però non li possiamo prendere sempre noi».

Cinque: «Ho sentito vagamente parlare di un fatto, che una ragazza di colore voleva fare la ballerina però non la poteva fare perché dicevano che essendo di colore non poteva ballare e non è stata accettata all’Accademia».

Sei: «Era il periodo natalizio e io e la mia famiglia siamo soliti andare a Roma in quei giorni. Ad un certo punto, in una via vicino al centro, abbiamo sentito parole offensive verso una persona di colore, e poi quattro persone hanno accerchiato quest’uomo e gli hanno dato botte, ma tantissime botte».

Sette: «Una volta io e mia madre incontrammo un suo amico di colore e parlando un po’ di lui ci raccontò di quando è stato messo in prigione perché di colore».

Otto: «Un mio amico mi ha raccontato di essere stato discriminato per la sua origine, e spesso in televisione ho sentito di persone discriminate per la loro religione, origine o colore della pelle. Ogni giorno l’articolo tre della costituzione viene violato».

Nove: «Un mio amico mi ha raccontato che un suo amico qualche anno fa è stato bullizzato perché è di colore. È stato picchiato e insultato per quasi un’ora. Quando è tornato a casa la madre lo ha portato in ospedale perché si era rotto una gamba e dopo ha denunciato i genitori dei ragazzi che lo avevano bullizzato».

Dieci: «Un po’ di tempo fa ho assistito a una scena di discriminazione. Stavo con un mio amico davanti alla Cattedrale. Un gruppo di ragazzi, tutti sui quindici, sedici anni, ha insultato un ragazzo di colore più piccolo».

Undici: «Al telegiornale, pochi giorni fa, ho sentito che è stato ucciso un uomo di colore».

Dodici: «Un giorno mia cugina mi raccontò di una sua amica e compagna di classe, di colore. Per colpa della sua razza e della sua pelle tutti la discriminavano, la insultavano, la escludevano e gli sputavano. Quando stavano salendo sul pullman prima di andare in gita sono riusciti a farla piangere per via di alcune frasi, come ‘non ti voglio vicino a me’ o anche “ritornatene in Africa”».

Tredici: «Ho sentito alla tv e mi è stato anche raccontato da delle persone adulte o anche bambini, il fatto del “razzismo”. Le persone razziste sono quelle che pensano che le persone di colore non sono uguali ai bianchi o comunque che sono diverse. Il fatto che una persona è di razza diversa non significa che non ha un cuore o dei sentimenti».

Nella capanna dello zio Tom

Gli alunni che hanno svolto il compito sono ventitré. Ciò significa che coloro che hanno affrontato tematiche legate all’immigrazione o al razzismo sono il 56% del totale, lasciando in secondo piano tutta una serie di altre questioni, che certamente esistono ma che non risultano rilevanti. Il dato è imponente e implica intanto due considerazioni.

La prima è che i ragazzi hanno la testa piena di questa roba. Non importa se i loro ragionamenti a proposito siano accettabili o se al contrario siano delle aberrazioni (e spesso lo sono, anche laddove tentano di addurre motivazioni alle loro prese di posizione). Il fatto rilevante è che nel 2018, se si chiede loro di parlare di una qualche forma di discriminazione, la maggioranza tira fuori qualcosa che ha a che fare con il colore della pelle delle persone, o con l’immigrazione. Non è chiaramente un caso che in alcuni testi i temi risultino connessi, perché è proprio sulla discriminazione dell’immigrato veicolata a mezzo stampa in tutte le possibili forme che si è costruito lo scivolamento verso il grandino successivo: la discriminazione su base palesemente razziale. Siamo già oltre, non serve più nemmeno lo straccio di una motivazione (pseudo-sociale) inventata, che so: gli immigrati ci tolgono il lavoro.

Siamo nella capanna dello zio Tom.

La seconda considerazione dell’insegnante è che, fermo restando che la maggior parte degli alunni ha riportato episodi di cui ha sentito parlare in televisione, alcuni hanno riferito fatti a cui hanno assistito direttamente, o provenienti dal loro quotidiano più o meno vicino, e si tratta di fatti inquietanti.

Rispetto al primo punto l’insegnante ritiene che l’esito del compito sia attribuibile alla sovraesposizione mediatica e alla colpevole superficialità con cui il tema è trattato nella comunicazione, con la cassa di risonanza dei social, dove tutti vanno a briglia sciolta. Soprattutto crede che l’esito del compito non sia un dato positivo. Se certo fa ben sperare il fatto che tutti i ragazzini si siano detti colpiti se non scioccati dai fatti che raccontavano, il compito di storia evidenzia una verità inquietante per un altro verso. I ragazzi ormai credono questo, che nel paese in cui vivono può succedere — e succedere di frequente — che una persona sia fatta oggetto di violenza verbale o fisica per il colore della sua pelle, fino al punto di essere uccisa. Questo poi può anche non accadere mai, ma i ragazzini credono di vivere in un mondo in cui questo sia possibile. Il singolo episodio di razzismo è grave tanto quanto la costruzione di una simile percezione, perché questa percezione depotenzia l’indignazione e la rabbia.

Il gioco della propaganda sta diventando realtà?

Ma il compito di storia solleva inevitabili domande. L’insegnante si chiede se ormai il sistema simbolico che si è costruito e consolidato nell’opinione pubblica italiana non sia arrivato al punto di rappresentare veramente un paese in cui il razzismo non si limita a qualche episodio che c’è sempre stato, ma in cui sta diventando un fenomeno diffuso, nei pensieri e nel sentire, come dimostrano proprio i casi di pestaggi riferiti dai ragazzi. In altre parole: viviamo davvero nel paese che percepiscono i ragazzini? Può davvero succedere che qualcuno venga ucciso sostanzialmente per il colore della pelle? Ciò che era nato come gioco propagandistico a fini elettorali e che per mesi, anni, è stato il gingillo della stampa a tutti i livelli (complimenti, sempre), è diventato oggi la reale realtà?

E cosa fare a scuola? Parlarne, e contribuire a dare esistenza e consistenza a questo delirio di bestialità, oppure disinnescare il cortocircuito, avere la forza di tacere, con il rischio però che certe percezioni mettano radici?

L’insegnante sente su di sé un peso enorme, ma non sa come venirne a capo. Principalmente considera umiliante il fatto stesso di dover veramente confrontarsi con un simile stato delle cose. Non vorrebbe dargli spazio, non si rassegna. Non vorrebbe sentire discorsi, parole, non vorrebbe farne, non come qualcosa che riguardi il nostro tempo, oggi. Può parlare di Jessie Owen e Rosa Parks, dell’abolizionismo e dell’apartheid, del Ku Klux Klan, ma non del razzismo in Italia. Si chiede come sia possibile essere arrivati a questo punto, al punto cioè che si ponga un’istanza del genere.

Eppure questa istanza esiste, e una speranza va trovata. Non come pensiero inerte. Va trovata nella pratica, dentro quella classe. Dentro tutte le nostre classi e i nostri micro-mondi di socialità, si dice infine l’insegnante.

C’era una volta…

Due uomini di quasi quarant’anni raccontano: ai tempi dei mondiali di Italia Novanta, due fratelli di circa dieci anni giocano a calcio in cortile. Con gli amici hanno organizzato una partita. Le squadre sono due e loro fanno parte della nazionale italiana. Arriva la sera della partita. Tutto è pronto per la gara, e tutti i ragazzini dell’Italia hanno le maglie originali dei Mondiali. Tutti tranne due, i due fratelli. Quando li vedono presentarsi in cortile gli altri ragazzini non credono ai loro occhi. Si danno gomitate, cenni d’intesa, si lanciano occhiate. Iniziano a parlottare, poi si agitano, cominciano a discutere animatamente. Alla fine scoppia apertamente il caso: senza la maglia originale non si gioca.

Ora, può darsi che quei due ragazzini, oggi quarantenni, volessero la maglia, o può darsi che la loro famiglia li avesse tirati su facendo capire loro che no, i valori dello sport non sono quelli racchiusi in una maglia con marchio originale. Resta il fatto che hai dieci anni, non hai la maglietta e non ti fanno giocare. Questo può farti male oppure no. Sicuramente ti farà rabbia. Di certo ti attiva, in qualche modo ti mobilita.

E questo è. Questo era, un’epoca diversa, in cui l’esclusione e la discriminazione per un ragazzino agivano su piani altri da quelli che hanno in testa i ragazzini oggi.

Che tempo è, quindi, questo presente? Un tempo in cui forse sta capitando qualcosa di abnorme, che viene da lontano. Allora l’insegnante, mentre cerca le parole da dire, si rende conto che non le può trovare. E non le può trovare perché non bastano. Serve agire. Portare le storie dei temi su un piano di realtà, sottrarle al mondo chiuso della rappresentazione mediatica. Dargli la consistenza delle emozioni. Laddove possibile andare, andare a incontrare. Parlare in modo diverso. Con il ragazzino bullizzato, con l’uomo malmenato, con la ragazza insultata, con la ballerina esclusa…

Ecco, un compito di realtà. Un compito di umanità.  

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