Due romanzi sul tema del lavoro
Il tema è molto attuale: nel dibattito in corso nella redazione di Allegoria per uno studio materialistico della letteratura sono stati censiti almeno trenta titoli negli ultimi anni. Ne ho scelto due, tra quelli che mi (ci) sono sembrati più significativi.
Questa volta il mio collaudato metodo delle orecchie ha fallito (segno – piegando un angolo – la pagina che contiene qualcosa di interessante, alla fine della lettura – anche a occhio – posso sapere quanto mi è piaciuto il libro[1]). La mia copia del romanzo di Giorgio Falco (Ipotesi di una sconfitta, Einaudi, 2017) ha un numero elevato di pagine segnate (eccetto un capitolo specifico), ma non mi è piaciuto. A un certo punto mi sono accorto della contraddizione: segno le pagine più significative per qualche ragione e qui sono tante, ma il giudizio complessivo è negativo. Falco è un autore possiamo dire affermato: oggi ha 51 anni, ha esordito nel 2004; con il suo “La gemella H” (Einaudi, 2014) è stato finalista del Campiello (lo racconta nel libro), ha vinto il Super-Mondello e il Premio Volponi. Il romanzo in esame ha avuto molte recensioni positive, ma la lettura ha deluso le mie aspettative. Si tratta di un romanzo autobiografico senza schermi, diretto, in senso stretto neppure una auto-fiction – come è di moda dire oggi -, che narra l’intera parabola del protagonista dalla giovinezza all’età adulta, in particolare il rapporto con il padre, autista di autobus dell’ATM milanese, emigrato dal Sud nel dopoguerra, con il doppio lavoro di insegnante di scuola guida. Il protagonista è in perenne conflitto con se stesso adulto, che passa da un lavoro all’altro (ad ogni esperienza è dedicato un capitolo del romanzo) e “sempre più aggrappato/arreso alla letteratura” come ha scritto Giovanni Turi. La scrittura è l’approdo di una sconfitta esistenziale, cosa che rende conto del titolo, una sorta di ripiego rispetto all’esistere, “una resa” per niente agonista. Se ne ricava l’immagine di una generazione “cinica”, senza emozioni (da cui una scrittura abbastanza piatta): “Non credevano in niente, solo alla propria sconfitta, che arrivava ogni giorno ” (p. 305). Lo stesso libro è una resa fino alla frase che chiude il romanzo: “o forse dovevo solo arrendermi, scrivere il libro che avete appena letto” (p. 379). Nella materia non vi è neppure un accenno a una trasgressione sessuale (il sesso, ingrediente di ogni romanzo secondo Camilleri, è del tutto assente) o semplicemente a un’emozione amorosa (la dedicataria del libro “Sa” è una sorta di grigia “fidanzata coniugale”). Non vi è spinta libidica, nessun desiderio.
Il capitolo “senza orecchie” è il 3, che costituisce la spia semantica della contraddizione di cui dicevo: Falco racconta la sua esperienza lavorativa da studente in una fabbrichetta di spillette di cantanti, icone più o meno giovanili, il Che, Woytila ecc., insieme a due amici per mettere insieme i soldi per un viaggio, che poi non farà (è la prima sconfitta). Egli descrive una modalità lavorativa fordista, che ben conosco compreso lo stato ipnotico, che genera il lavoro ripetitivo e che diventerà esponenziale nel lavoro con le macchine elettroniche descritto nei capitoli successivi (pp. 251, 252, 298). Ecco queste pagine ho segnato con un’orecchia: appunto l’interesse è stato puramente sociologico, non letterario. Le pagine più belle sono quelle in cui Falco descrive il lavoro del padre, la sua dignità e il suo riscatto (i primi due capitoli e poi vari passaggi successivi). I vari lavori dell’autore non raggiungeranno mai quel livello, a cui lui aspirava quando da bambino per carnevale voleva la divisa di autista dell’ATM invece del costume di Zorro. Forse le due pagine migliori del romanzo sono la 287 e la 288, in cui ironicamente Falco si guarda nello specchio del “cesso aziendale” in “quel fetido edificio della periferia sud di Milano, Italia, Occidente declinante” e conclude: “forse ero diventato davvero uno scrittore”. Lui continua a lavorare per una ditta in subappalto di una multinazionale telefonica, ma ha già pubblicato un libro per Einaudi e i suoi colleghi lo prendono per il culo anche per questo. Dunque una sconfitta senza redenzione. Falco in questo suo pessimismo ha con tutta probabilità ragione: che redenzione può dare un lavoro alienato? Ma lo racconta con una presa diretta piatta e grigia (come è il suo mondo in cui l’unica adrenalina è l’azzardo on line, in cui è privo di senso anche essere finalista del Campiello al soldo degli industriali veneti). Non vi è nella sua scrittura alcun guizzo ironico, nessuna marca di distanziamento, e di materia linguistica ce ne sarebbe tanta (a cominciare dall’inglese dei linguaggi elettronici). Siamo mille miglia sotto gli autori, a cui secondo la quarta di copertina del libro si ricollega, quelli del dibattito degli anni Sessanta su “letteratura e industria” (Volponi, Ottieri, Bianciardi), anche loro tragicamente sconfitti a costo della malattia e della vita. Cito ancora: “Falco scrive un magnifico romanzo sul lavoro, che da narrazione epica diventa cronaca del fallimento”. Appunto in questa sconfitta non vi è nulla di magnifico, neppure la forma.
Il secondo libro preso in esame (Francesco Targhetta, Le vite potenziali, Mondadori, 2018) è il romanzo di esordio di un autore relativamente giovane (nato a Treviso nel 1980), noto sin qui come poeta (Fiaschi, Excogita, 2009) e in particolare per aver scritto un romanzo in versi (Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn, 2012), che è stato un piccolo caso letterario. Il suo essere poeta ha condizionato – a mio parere – il giudizio di “lirismo” attribuito al romanzo (Oriana Mascali su illibraio.it). È noto che da Croce in poi la poesia non può che essere lirica, cosa che ha fottuto persino “La ginestra” di Leopardi. Non ci ho trovato grande lirismo, anzi molti tratti sono fin troppo prosaici. In questo c’è una somiglianza con il libro di Falco. Il romanzo è arrivato secondo al Campiello 2018. Dal numero delle orecchie il libro mi è piaciuto, ma come nel caso di Falco mi rimane il dubbio che sia un interesse più sociologico che letterario. Sicuramente mi è piaciuto più questo perché c’è un elemento più emozionale, più patetico e meno cinico. Ciò è testimoniato da una presenza di personaggi femminili, presi di sbieco e come “di rimbalzo” rispetto ai tre personaggi maschili, in particolare Matilde con la sua decisione di tenersi il bambino, che gli ha appiccicato il fidanzato per poi fuggire a gambe levate davanti alla sua gravidanza. C’è anche qualche elemento sentimentale, erotico e sessuale trasgressivo, che sfugge all’impiegatizio e sconfitto Falco. La storia è ambientata in uno squallido nord-est post industriale, dell’hinterland di Marghera, di cui l’autore, nato a Treviso, deve essere esperto. È l’elemento realistico del romanzo, insieme a descrizioni un po’ turistiche di varie città europee in cui l’azione si svolge. La storia riguarda tre NERD trentenni e quindi le loro vite “potenziali”: lavorano insieme in un’impresa di informatica che si occupa di e-commerce, l’Albecom, dal nome del proprietario, il precisissimo Alberto, il quale si scontra con il suo tradimentoso e carrierista presales, cioè il procacciatore di clienti dell’azienda, Giorgio De Lazzari, detto significativamente in sigla GDL (come a dire “non è un essere umano”, è il personaggio più negativo). Sono due carrieristi, anche se con un profilo etico diverso. Alberto si rende conto di quanto il mondo reale, quello a cui “eravamo” abituati, sia remoto da quello virtuale di cui si occupa. “Alberto viveva nell’uno, dove aveva una moglie, una casa, un lavoro e una macchina e cercava di governare l’altro dove immergeva ogni cosa in un’immateriale frenesia continuamente vorticata, ma senza troppi pericoli, almeno fintantoché fosse riuscito a tenere e integrare tutto assieme” (pag. 187). GDL è totalmente prono alle logiche di mercato globale elettronificato. “Dopo aver scoperto quanta euforia desse l’abbondanza di opzioni del mondo multiforme, non aveva più saputo rinunciarvi” (sempre a pag. 187). Vi è un che di “tossicomanico”, fortemente alcolico, nella sua vita: insegue consumisticamente i clienti e tutte le sottane che incontra nei suoi giri, anche se poi quando viene sgamato nei suoi raggiri trova rifugio nel fondo schiena della sua fidanzata, Veronica. I due protagonisti trovano contrasto nel terzo, un antico compagno di scuola di Alberto, Luciano, un programmatore di grande talento, che continua a trent’anni ad essere un adolescente imbranato, cosa che lo protegge dal carrierismo a cui sono subalterni gli altri due. Si potrebbe pensare che il mondo virtuale descritto apra una prospettiva di tante vite potenzialmente disponibili come accenna la già citata Oriana Mascali. La mia opinione – soprattutto nel caso di Luciano, che vorrebbe dare una sponda alla gravidanza di Matilde, ma rimane al di qua di ogni prospettiva concreta – è che “le vite potenziali”, da cui il titolo al romanzo, sono quelle che avrebbero potuto essere e che non si realizzano mai. La condanna delle molteplici vite virtuali è che non se ne vive nemmeno una reale. È ovvio nell’esilio in cui siamo obbligati a vivere nel mondo elettronico globalizzato: non possiamo sfuggire, non ci sono alternative concrete, ma, per rimanere al paragone con il dibattito degli anni Cinquanta, nel pieno dell’ideologia della ricostruzione e della sua “fregatura”, su “industria e letteratura” di Ottieri, Volponi, Vittorini e soprattutto Bianciardi, a questo libro come ancora di più a quello di Falco manca una presa di distanza critica almeno nella forma linguistica: non vi è traccia dell’uso corrosivo e negativo dell’ironia e del sarcasmo, in cui eccelleva Bianciardi. Sul versante linguistico abbonda l’uso dell’inglese, ma senza distanziamento o presa di giro. Ho trovato in Le vite potenziali un solo neologismo a provare una residua capacità di innovare sperimentalmente la lingua: “cottonfioccare” (è così sperso il termine che non trovo più a quale pagina).
In conclusione, i due autori hanno il merito di prendere di petto il “nuovo” lavoro fondato sulle macchine elettroniche e non potrebbe essere diversamente (è l’elemento saliente dalla fase storica in cui viviamo), ma ne rimangono sovrastati, non riescono a prenderne criticamente le distanze. Sarebbe poco anche questo, ma almeno servirebbe a chiamarsi fuori, a significare il non voler essere corresponsabili dell’attuale ulteriore sconvolgimento dei fondamenti della vita umana.
[1] In proposito chi è interessato può consultare la pagina FB, che alimento settimanalmente, “Parliamo di letteratura”, dove ad oggi sono uscite 123 “note di lettura” (una roba meno pretenziosa di una recensione), comprese quelle relative ai due romanzi qui presi in considerazione.
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