Tra i numerosi e meritori volumi che, negli ultimi tempi, riflettono su Gramsci sotto il profilo pedagogico o propongono sillogi della sua costante elaborazione – personale e teorica, formale e informale – sui temi della scuola, dello studio e del sapere, il libro di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli “Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere”, recentemente pubblicato da L’asino d’oro edizioni, mi pare degno di particolare interesse. Dirò subito perché: in tempi così bui per la condivisione di un’idea umanistica dell’istruzione, che non si pieghi ai diktat del pensiero unico economicista che sta colonizzando, a livello globale, coscienze, comportamenti, processi, politiche di gestione, orientamenti didattici e scelte pedagogiche, producendo non solo una realtà ma anche un immaginario antropologico e sociale ormai dominato (e non solo egemonizzato) dal più bieco utilitarismo, tornare alle parole e ai pensieri di Gramsci produce il profondo sollievo di chi respira dopo una lunga apnea.
No, Gramsci non è consolatorio. Né induce laiche o teologiche stille di speranza. Il pensiero di Gramsci è drammaticamente lucido e razionale. Fortemente calato nel suo tempo ma capace di andare oltre la contingenza, quale solo un’indagine profonda e ‘molecolare’ di un presente storico ma, nel contempo, talmente potente da diventare metastorica, può esserlo. Leggere quanto Gramsci ha scritto sulla scuola, lo studio e il sapere ormai quasi cent’anni fa, fa comprendere meglio il suo tempo e il nostro. E, soprattutto, legittima l’idea di una battaglia, quella per un sapere – attenzione – non disinteressato, bensì profondamente interessato a comprendere meglio l’uomo e a liberarlo dalle sue catene materiali e morali. Una battaglia che fu la sua e che possiamo riprendere dove lui l’ha lasciata per cancellare il mortifero orizzonte normativo psicopolitico[1] in cui oggi tutti noi, docenti e studenti, siamo risucchiati.
Veniamo al libro. Benedetti, docente e saggista, Coccoli, giornalista e formatrice: quasi la rappresentazione plastica dei fondamentali interessi di Gramsci, intellettuale, politico, giornalista, promotore culturale, formatore, scrittore. I due autori esplorano minuziosamente le questioni fondamentali inerenti all’essere umano, alla concezione della cultura, ai processi di comprensione e di acquisizione del sapere, alla questione della lingua e della letteratura, al ruolo dell’intellettuale, alla funzione della scuola, così come Gramsci le ha sviluppate fin dalla sua personale esperienza di studente, poi rielaborate come padre nelle lettere alla moglie, alla cognata e ai figli ed infine come teorico della ‘scuola democratica’ e disinteressata, ovvero priva di un fine immediatamente pratico, “nella quale sia data al fanciullo la possibilità di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere”, “una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata”[2].
E già in queste poche parole, come non sentire e non condividere l’urgenza della battaglia per una scuola di base unica, che arrivi almeno fino al biennio delle superiori senza distinzioni classiste tra futuri studenti tecnici, liceali e professionali? Una scuola di base unica, democratica e umanistica nel senso etimologico del termine, in cui, per almeno dieci anni, tutti gli studenti studino l’italiano, la matematica, la storia, le scienze, il latino (col metodo storico, come auspicava Gramsci, “che slarga i cervelli e forma mentalità concrete”) senza distinzioni di programma tra chi, destinato alle professioni tecniche, avrebbe meno bisogno di cultura e chi, destinato al liceo, gode invece di questo privilegio. E’ passato un secolo, e siamo ancora a questo punto: ricche indicazioni nazionali per i programmi dei più fortunati liceali e sintetiche linee guida per gli studenti dei tecnici e dei professionali, destinati fin da piccoli a un prevalente apprendistato lavorativo, ad un’istruzione ‘operativa’ che bandisce cultura e pensiero speculativo, e che persevera, come ci ha insegnato Raul Mordenti esplorando l’antropologia gramsciana, “nell’infame sogno capitalistico del lavoratore come “gorilla ammaestrato”[3]. La scuola classista dei tempi di Gramsci, la scuola che riproduce le differenze economiche e sociali di partenza piuttosto che cancellarle, come invece vorrebbe oggi il dettato costituzionale, la scuola che mantiene subalterno chi nasce in condizioni di subalternità, quella dimensione di subalternità dei tanti contro cui Gramsci ha lottato spendendo l’intera sua vita, è ancora sotto i nostri occhi, drammaticamente uguale a se stessa, semmai aggravata dall’introduzione, con l’ultima riforma, la cosiddetta “Buona scuola”, del più efferato principio pedagogico capitalistico: l’alternanza scuola-lavoro come educazione alla subalternità.
Ma molte altre sono le suggestioni che questo libro (che, sebbene talora sia appesantito da un eccesso didascalico, contiene ad ogni pagina stralci delle opere di Gramsci, consentendo letture e riletture originali) tesse nella mente del lettore coinvolto, soprattutto del lettore insegnante che voglia comprendere l’evoluzione dei principi educativi che hanno informato la scuola italiana postunitaria e poi repubblicana. Il rapporto tra Stato ed educazione, tra religione ed educazione, la necessità di una scuola laica, non più gesuitica e non gentiliana, che tuttavia non rinunciasse alla lezione del rigore, anche fisico e coercitivo, degli studi; l’importanza di una politica scolastica alternativa a quella tradizionalmente cattolica, la continuità e contiguità tra insegnamento e giornalismo, tra scuola e società, tra filosofia della prassi e pedagogia: tutte questioni che i due autori riportano alla luce dopo un attento scavo nei testi giovanili e carcerari, senza mai rinunciare ad una dimensione diacronica dinamica, che procede dal prima al dopo ma che cerca, in tutto quanto venne faticosissimamente rielaborato dal Gramsci prigioniero, l’evoluzione di un pensiero che si riannoda sempre ai suoi fondamentali, tra cui il valore dell’istruzione come educazione; della pedagogia, dentro e fuori la scuola, come prassi, ovvero, marxianamente, come operazione trasformativa, culturale e politica, della persona in quanto essere umano e della collettività in quanto insieme di esseri umani, nella società e nella storia.
Sfogliando queste pagine e rileggendo Gramsci guidati dai due autori, viene da chiedersi: quanto è costato alla scuola e alla società italiana l’aver marginalizzato le idee pedagogiche di Gramsci? L’aver privilegiato nell’esegesi postuma il Gramsci teorico e organizzatore politico, fondatore o rifondatore del Partito Comunista, a scapito del Gramsci letterato, intellettuale, insegnante, esplorato attentamente solo negli anni Settanta da pochi studi fondamentali ma poi nuovamente abbandonato fino a pochi anni fa? Perché questa rimozione forzata (a dispetto di un interesse palese, disseminato in tutti i suoi scritti), testimoniata anche dalla totale assenza dei testi e della figura di Gramsci nella maggior parte della manualistica scolastica? Quanto ha nuociuto a generazioni di studenti l’inganno della scuola facile, radicalmente anti-gramsciana, che tanto ha affascinato i nostri decisori politici negli ultimi trent’anni, ritenendola a torto il necessario prezzo da pagare per una più ampia partecipazione di massa, auspicata da Gramsci ma senza la rinuncia al rigore degli studi, tanto più importante e necessario se si apparteneva alla classe dei ‘dominati’? Occorrerebbe capire.
Ed è proprio su questo che il libro di Benedetti e Coccoli ci offre una pista di riflessione tutta calata nel presente: l’ultimo capitolo del loro libro, intitolato “La resistenza di Gramsci” ci racconta quanto è accaduto durante e dopo il ’68 mentre noi studiavamo per poi diventare insegnanti, senza che nessuno dei nostri maestri ci chiedesse di leggerlo, senza che a noi venisse in mente di farlo. E ignorando così colpevolmente il valore del suo pensiero e della sua incessante riflessione sulla domanda fondamentale dell’esistenza: “Che cos’è l’uomo?”.
Possiamo farlo ora. Continuando a istruirci con paziente umiltà. Comprendendo la nostra subalternità al discorso dominante e spogliandocene attraverso le parole di Gramsci. E provando a riallacciare i fili di un discorso interrotto, per tentare ancora di rispondere alla sua domanda come uomini e donne, soggetti pensanti e senzienti.
[1] Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma 2016
[2] Antonio Gramsci, Uomini o macchine, Avanti!, 24 dicembre 1916
[3] Raul Mordenti, Homo faber: per un’antropologia filosofica gramsciana, in Centro Gramsci (a cura di), L’educazione gramsciana, Edizioni Nuova Cultura, Teramo 2008
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