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citta distrutte 2011

Storia della mia copertina/11 – Mio padre la rivoluzione, Città distrutte. Sei biografie infedeli di Davide Orecchio

 Ho sempre ammirato le copertine di certi grandi editori francesi e tedeschi: autore, titolo, editore su uno sfondo chiaro (avorio o bianco). Nessuna immagine. Questo lo dico per denunciare la mia incompetenza quando si tratta di scegliere una cover, passaggio delicatissimo e, come si sa, essenziale.

Ho avuto un ruolo nel “codecidere” la veste grafica di uno solo dei miei libri: Città distrutte nella sua prima edizione (fine 2011), che recava la sezione di una fotografia scattata a Berlino da me. Una mongolfiera, un grattacielo, e tanti saluti.

Da allora, i miei editori (Gaffi, il Saggiatore, minimum fax) hanno sempre deciso in completa e legittima autonomia, mi hanno proposto le loro scelte e io le ho accettate.

Dovremmo chiedere a Patrizio Marini e Agnese Pagliarini, i responsabili del progetto grafico minimum fax, la storia di Mio padre la rivoluzione.

mplr Ci racconterebbero – immagino – la fotografia antica di un soldato nella quale si sono imbattuti, e di come l’hanno “trattata”, volta al fumetto, colorata, resa grottesca, eppure preservata nella sua epica, resuscitata al nostro presente.

Io ne posso raccontare la storia dal mio punto vista. Ricordo il primo sguardo di sorpresa e approvazione quando in casa editrice me la mostrarono. Funziona, non si può dire che non funzioni, questa copertina. Ogni volta che la vedo mi racconta il libro che ho scritto. Nel soldato col fucile in spalla (fante della guerra civile, sentinella dell’Armata Rossa, guardia del Cremlino… chissà) ritrovo la rivoluzione, la potenza, la violenza, il freddo mortuario del passato nella neve che chiazza la pelliccia del guerriero.

Pare un passato che parla a noi, al presente, e ci minaccia, avverte, ammonisce.

Non è irrilevante – non è un dettaglio – quel naso rosso da clown, simmetrico rispetto alla stella rossa sul colbacco, poco sopra la barba aggressiva dell’uomo. L’orpello del pagliaccio è certo un’anima di Mio padre la rivoluzione. Dice il disordine, il tradimento delle promesse, la storia rovesciata e sottosopra, i genitori che si trasformano in streghe, l’amico fraterno al tuo fianco che diventa un vampiro. Un libro onirico, il cui esercizio è la storia, non poteva trovare copertina migliore.

Molti racconti del libro espongono guerre che da giuste diventano ingiuste, crociate che si contravvengono in eresia, liberazioni che finiscono con l’imprigionare. C’è sempre la battaglia, il milite, lo scontro. È un libro più bellico di quanto io stesso potevo immaginare. In fondo la sua cover non si limita a comunicare cosa c’è dentro, ma è già un racconto. Quel soldato è pure personaggio del libro, la sua immagine esce dal territorio grafico perché è storia essa stessa.

citta distrutte 2018Al nitore di un passato così esuberante dal rasentare l’alta definizione si potrebbe replicare, da un’angolazione opposta, con la sfocatura, suggerendo il tema delle vite che bruciano nell’impermanenza, che inceneriscono e si dissipano in un dialogo fragile tra presente e passato, biografie e morte, scrittura e tempo, transitorietà e memoria. È stata la scelta del Saggiatore per la nuova copertina di Città distrutte (nell’edizione 2018): una splendida immagine di Seung-Hwan Oh (Impermanence_Untitled_DavidHyun, 2013) che, credo, aiuta molto bene a farsi un’idea delle biografie infedeli nel loro sforzo inutile (il riportare alla carta, col racconto, surroga appena il portare alla vita).

È quasi un duello tra due concezioni. Da un lato (Mio padre la rivoluzione) la storia si presentifica nel volto del combattente, e cammina al tuo fianco. Dall’altro (Città distrutte) la creatura si corrode nel tempo e nello sguardo, perché nulla e nessuno che non siano qui e ora si possono davvero comprendere. Quale delle due soluzioni sia più convincente dipende dall’idea che abbiamo del rapporto tra presente e passato.

Quanto a me, credo che nonostante ogni sforzo massimo di ricostruzione, studio e memoria, le vite passate non si possano raccontare senza riempirne le emorragie col tradimento e l’invenzione, con una qualche dose di fantasia e sogno. Dunque ben vengano i nasi da clown e i volti sfigurati dal fuoco o dall’acido.

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