I margini attuali per una scuola di opposizione
Secondo Anna Angelucci, che ha letto appassionatamente il mio articolo sulla didattica della letteratura come atto di opposizione, “il contesto in cui compiere questo atto oppositivo, la scuola, è radicalmente compromesso e il terreno su cui piantare i semi di una coltivazione clandestina appare desertificato”. In Italia ciò avverrebbe in modo conclamato soprattutto dopo la legge 107 del 2015, divenuta pensiero egemone nella scuola odierna. Cerco di rispondere in breve alla difficile domanda che Anna Angelucci mi pone: “A quale critico-docente, Zinato, possiamo dunque rivolgere questa esortazione? (…) L’atto oppositivo presuppone un docente che non abbia abdicato al suo compito educativo, da realizzarsi a scuola attraverso i contenuti e i linguaggi della disciplina che insegna (…). Un docente che non accetta di essere relegato nella comoda e deresponsabilizzante condizione del tecnico (…). Ce ne sarà qualcuno?”
Rispondo: basta che ce ne sia uno. In circostanze molto più ostili delle nostre, infatti, un insegnante come Toni Giuriolo ha organizzato una brigata partigiana di studenti chiamata “piccoli maestri” nelle montagne dell’Altipiano dei sette comuni e fra i suoi allievi c’era Gigi Meneghello. Giuriolo scriveva sul suo diario il 19 settembre 1939, pochi giorni dopo l’attacco di Hitler alla Polonia: “Quando si è caduti in basso, quando il disgusto di noi stessi ci sale fino alla gola, allora ci aggrappiamo disperatamente a un programma di vita severa e feconda, di rinnovamento totale: ma è un fervore che sbolle ben presto; succede poi la vita normale, ritorna l’incoscienza o meglio l’indifferenza; e ben presto si arriva alla nuova caduta. […] Si giunge al punto di non credere più in niente, nemmeno a se stessi; quando, ed è il migliore dei casi, non si preferisce colmare il vuoto interno con le belle parole, a cui non si presta più fede, con l’ipocrisia, cioè, che diventando un’abitudine si serve delle belle esaltazioni morali di una volta come incentivo a commettere il male più raffinatamente”. (http://storiamestre.it/2016/11/il-maestro-di-s/ )
Negli anni fra “miracolo” e contestazione, Franco Fortini, insegnante negli istituti tecnici, nel suo diario in pubblico Un giorno o l’altro mette a fuoco le due contraddizioni tipiche di ogni istituzione scolastica: la
prima tra sempre più pressanti finalità professionali e l’impossibilità di rinunciare del tutto a un intento di Bildung complessiva, cioè di educazione “momentaneamente sottratta” alla produzione e al profitto; la seconda inerente la verifica del potere del docente, la questione della sua autorità e la necessità di “un gioco a carte scoperte che parta chiaramente dalla disuguaglianza delle posizioni invece che dalla ‘democratica’ menzogna della loro uguaglianza”.
Si dirà: “ma quelli erano altri tempi, era il periodo della Resistenza, o quello del ‘68”. Scrive ancora Fortini: “C’è una triste verità che si nasconde nel rapporto pedagogico-scolastico e non è difficile scorgere negli insegnanti migliori: essi sono divisi tra un atto di attese-speranza, di proiezione di un “domani migliore” e uno di scoramento per il sempre-uguale. (…) Ciò avviene perché il sempre-uguale è vissuto negativamente. E lo è perché né il docente né il discente lo vivono come riuso, come rituale ossia come legame fra le generazioni. (Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, 2006, p. 439).
In anni che a noi sembrano diversissimi e lontani dai nostri, Giuriolo e Fortini sono variamente consapevoli dell’opacità dell’istituzione scolastica: il primo rinuncia a insegnare nelle regie scuole perché si rifiuta di prendere la tessera del fascio, e decide di insegnare clandestinamente, il secondo dentro il ribollire della contestazione è invece già consapevole che l’intera «coscienza culturale» «tende ad essere deliberatamente prodotta». A esempio, nell’esperienza di don Milani (acriticamente colonizzata dal pedagogismo ‘inclusivo’ odierno) Fortini vede già il segno di un «ottimismo disperato». A Barbiana, per Fortini «non si vuol vedere che l’ ideologia dominante pervade tutto il linguaggio e non ne esenta il parlar comune». Don Milani per Fortini sembra prospettare insomma l’integrale rivoluzione della scuola senza mediazioni, senza mettere in conto cioè le dolorose trasformazioni dei rapporti reali indispensabili a un tale mutamento.
Giuriolo, insegnante senza cattedra perché senza tessera, faceva sua la rivoluzione pacifista di Capitini e di Calogero: il suo liberalsocialismo era radicale, prevedeva la socializzazione dei mezzi di produzione e un rigore morale e una tensione assoluta alla verità: tanto che la sua ultima parola è “riflettere”. Fortini era un marxista eretico: capace di riscrivere da zero il canto dei lavoratori in lotta per eccellenza, L’internazionale.
Non c’è pensiero didattico e critico, insomma, che non si ponga il problema di guardare alla menzogna interiore con la stessa severità con cui guarda ai rapporti di potere, di proprietà e alle ineguaglianze che, a livello planetario, mai sono state tanto odiosamente acute. Gli studenti più inquieti di oggi vedono con simpatia le destre fasciste e razziste perché sembrano sfuggire al linguaggio dominate, quello normativo e sedicente oggettivo della scuola-istituzione e della scuola-azienda, privo di verità e di futuro, che predica ipocritamente pari opportunità e diritti senza mai mettere in discussione i rapporti di proprietà e di dominio (la “dignità sociale” dell’articolo 3 della Costituzione).
L’interpretazione dei testi, tuttavia, che le griglie linguistiche dei manuali limitano spesso al solo “contenuto di fatto”, comporta sotto traccia un “contenuto di verità” e un “andirivieni” tra i testi e il mondo, che garantisce la passione e l’«energia interrogante» indispensabili all’esperienza letteraria (un’esperienza che per essere tale mette in gioco le domande ultime: il senso, il rapporto con la morte, con il dominio, le disparità di classe e di sesso).
La legge 107 del 2015 ha di certo imposto una scuola che scimmiotta l’azienda, esattamente come è accaduto all’Università, nel 2010, con la Legge 240, dopo la quale «la giornata d’ un professore» assomiglia a quella di un operatore di «una consumer oriented corporation, soggetta a forme di valutazione più simili a quelle delle agenzie di rating che a quelle di una comunità scientifica», fino al predominio del “termine-ombrello eccellenza, segno vuoto senza referente» (Federico Bertoni, Universitaly).
La diagnosi di Anna Angelucci tuttavia, di tipo “francofortese” (la “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà” (Marcuse) ci avrebbe confinato, insieme ai nostri studenti, in un luogo insopportabile e irriconoscibile: un luogo di mera riproduzione del pensiero unico e dominante), è formulata da una prospettiva che tende a escludere le risorse della prassi e il “Principio Speranza” (Bloch) connesso a ogni prassi. Rischia di allearsi in tal modo all’invito di Claudio Giunta a dismettere ogni battaglia culturale, a farla finalmente finita con la perniciosa tensione verso un’altra umanità. Che per me, al contrario, è la ragione ultima di ogni atto di insegnamento.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2015, fiori e foglie.
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