Distopia, memoria, perdita: Non lasciarmi di K. Ishiguro
Dopo aver fatto discutere, rispettivamente nel 2015 e nel 2016, con l’attribuzione del Nobel a Svetlana Aleksjevic, autrice bielorussa di non fiction, e a Bob Dylan, ribelle “menestrello” statunitense, nell’ottobre dello scorso anno l’Accademia di Svezia è tornata a conferire il più ambito riconoscimento per la letteratura a un novelist “purosangue”, lo scrittore britannico di origini giapponesi Kazuo Ishiguro: «Nei suoi romanzi di grande forza emotiva – si legge nella motivazione – ha scoperto l’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo».
Se il suo romanzo più noto è Quel che resta del giorno (1989), i cui protagonisti sono stati magistralmente interpretati al cinema da Anthony Hopkins e Emma Thompson, il capolavoro è forse Non lasciarmi (2005), romanzo distopico ambientato nei tardi anni Novanta (trasposto in linguaggio filmico dal regista Mark Romanek nel 2010 con un talentuoso cast di giovani attori – Carey Mulligan, Keira Knightley, Andrew Garfield).
In effetti, fin dalle prime pagine se ne percepiscono la potenza e la forza di attrazione: la voce narrante, i tratti distintivi dei personaggi principali, la verosimiglianza e, al contempo, la discrepanza della realtà narrata rispetto a quella che conosciamo danno al lettore la certezza di essere sul punto di entrare in un “mondo possibile” (T. Pavel) al quale crederà, fiducioso nell’esperienza estetica, emotiva e fenomenologica a cui l’invenzione dell’autore darà forma.
L’io narrante è quello di Kathy, trentunenne in procinto di concludere la sua attività di “assistente” in vari centri di riabilitazione per “donatori”; per questo è decisa a rimemorare la sua vita, prima di quello che, si intuisce, sarà un passaggio definitivo, ultimativo. Dapprima non si sa con precisione quale sia la mansione di un “assistente”, chi siano i “donatori” e che cosa donino; tuttavia la scoperta si fa strada ben presto, non senza crescente riluttanza, nella mente di chi legge: tutto è ovattato, ma terribile; i destini dei protagonisti sono predeterminati e immodificabili.
Kathy consegna il racconto della sua infanzia e della sua giovinezza a ignoti ascoltatori che coinvolge con frequenti prolessi e analessi, come se a seguire la sua vicenda ci fosse davvero un pubblico a cui spiegare il mondo in cui è cresciuta, un collegio rinomato e all’avanguardia sperduto nella campagna inglese dove a prendersi cura dei ragazzi c’è solo personale altamente specializzato e dove gli ambienti sono curati fin nei minimi particolari:
Ci sono stati periodi nella mia vita in cui ho cercato di lasciarmi alle spalle Hailsham, quando mi sono detta che non dovevo più voltarmi indietro. Ma a un certo punto smisi di opporre resistenza. Avvenne con un donatore in particolare, durante il mio terzo anno come assistente; fu la sua reazione quando gli dissi che venivo da Hailsham. […] Il fatto è che non soltanto voleva sentir parlare di Hailsham, voleva ricordare Hailsham, come se si trattasse della sua infanzia. […] Fu quello il momento in cui compresi per la prima volta, fino in fondo, quanto eravamo stati fortunati – Tommy, Ruth, io, tutti noi (K. Ishiguro, Non lasciarmi, Torino, Einaudi, 2016, pp. 10-11)
Del resto i bambini che vengono cresciuti, educati, istruiti ad Hailsham sono persone speciali: privi di una famiglia d’origine, sanno che non potranno averne una loro. Il loro destino non viene taciuto nel corso degli anni più teneri, ma si profila con progressiva chiarezza durante l’adolescenza:
A ripensarci, mi rendo conto che stavamo vivendo proprio quell’età in cui cominciavamo ad acquisire una certa consapevolezza – su chi eravamo, su quanto fossimo diverse dai nostri tutori, dalla gente del mondo fuori – ma non avevamo ancora capito cosa significasse veramente. […] Perché non importa quanto i tutori facessero del loro meglio per cercare di prepararci: tutti gli incontri, i video, i dibattiti, gli avvertimenti, nessuna di queste cose può farti comprendere fino in fondo. Non quando si ha otto anni, e si sta tutti insieme in un posto come Hailsham […]. Ma in qualche modo, qualcosa deve essere entrato dentro di te. (Ivi, p. 41)
Insomma, i ragazzi che popolano Hailsham non hanno passato e non hanno futuro perché sono cloni destinati all’espianto di organi: duplicati da umani sani, devono avere la massima cura del loro organismo per poter diventare donatori e portare così a compimento “il loro ciclo”, un ciclo di vita necessariamente breve, nel corso del quale potranno donare più organi.
Il titolo del romanzo riprende quello della canzone preferita di Kathy, Never let me go di Judy Bridgewater (https://www.youtube.com/watch?v=4UX6tzE7P44), e accompagna un passaggio chiave del romanzo in cui una delle tutrici, ormai anziana e malata, rievoca il momento in cui, anni prima, si era accorta dell’insensatezza di quel mondo «più scientifico, più efficiente, certo. […] E tuttavia un mondo duro, crudele» (Ivi, p. 276)
Ci si può chiedere come possa il lettore aderire emotivamente a un simile patto narrativo: dovrebbe risultare inaccettabile provare a immaginare un mondo nel quale gli uomini vengano creati in provetta per offrire pezzi di ricambio ad altre persone, vedendosi negata una vita normale. Eppure c’è un “anello che non tiene” nel mondo anafettivo e asettico che i tutori di Hailsham vorrebbero creare ed è quello che tiene avvinti alla storia di Kathy, Tommy, Ruth: l’irruzione dei sentimenti, la scoperta che i cloni hanno un’anima. I ragazzi di Hailsham provano emozioni anche forti e incontrollabili, come Tommy, di tempra impulsiva che solo poco a poco impara il dominio di sé; i ragazzi di Hailsham vengono educati “a fare sesso” ma alcuni finiscono per innamorarsi davvero e, in nome del loro sentimento, sperano di poter ottenere “un rinvio” presso i superiori; i ragazzi di Hailsham sanno creare piccole opere d’arte che periodicamente vengono scelte e prelevate da Madame per la sua prestigiosa Galleria. I ragazzi di Hailsham sono, insomma, più umani degli umani che li hanno voluti creare.
La delicatezza del racconto di Kathy, la sua pazienza nel rievocare i momenti più significativi dell’amicizia anche tempestosa e altalenante che l’ha legata a Ruth e a Tommy, la tenerezza con cui rivive l’evoluzione del suo sentimento per il ragazzo, l’indulgenza con cui ripensa alla gelosia di Ruth sono i tratti che fanno di questo romanzo una potente esperienza emotiva. L’immedesimazione con l’io narrante è totale e, grazie a Kathy, il lettore prova la dolcezza e la spensieratezza dell’infanzia; la turbolenza emotiva dell’adolescenza; la straziante consapevolezza di un’età adulta di necessità brevissima e priva di progettualità:
Così quella sensazione mi afferrò di nuovo, sebbene cercassi di allontanarla: la sensazione che fosse ormai troppo tardi; che c’era stato un tempo in cui tutto avrebbe avuto un senso, ma che avevamo perso l’occasione, e che ci fosse qualcosa di ridicolo, di riprovevole addirittura, nel modo in cui stavamo pensando e pianificando il futuro. (Ivi, p. 243)
Il punto di forza di Non lasciarmi consiste nell’incrocio di due generi letterari – quello distopico e quello della ricostruzione memoriale – che sono soliti mobilitare in modo diverso le aspettative del lettore: il primo comporta, il più delle volte, un distacco cogitativo dal mondo “altro” che viene immaginato, il secondo, viceversa, tende a generare identificazione. Il romanzo di Ishiguro riesce a «mettere in contatto due aree semantiche diverse e far scattare un meccanismo per cui l’intersezione viene percepita come equivalenza» (W. Siti, Nel corpo del testo, in «L’Asino d’oro», n. 1, 1990, p. 136): in tal modo il senso di distanziamento suscitato dalla distopia viene annullato proprio dal procedere rimemorante di Kathy e ogni singolo evento del passato – ben al di là di rispondere alle esigenze del plot – diviene figura di un preciso stadio emotivo raggiunto dall’amicizia o dall’amore che lega la protagonista, Ruth e Tommy.
Conclusasi la sperimentazione messa in atto a Hailsham, dispersi nel Regno Unito i cloni destinati alle donazioni, Kathy strappa all’oblio la sua, la loro storia indicibile. In Non lasciarmi l’involucro fantabiologico è una metafora attraverso la quale il lettore esperisce una delle emozioni tra le più dolorose: la perdita sia degli affetti più cari che di una prospettiva di vita futura. Per tale ragione, a libro concluso, si resta ancora a lungo nel Norfolk, nei panni di Kathy, tra «campi regolari» ed «enormi cieli grigi» a osservare il punto in cui tutto ciò che si è perduto nel corso dell’infanzia, per quanto lacero e sbrindellato, si raduna. E, dall’orizzonte, chi ci ha amato torna ad abitare il campo visivo, alzando il braccio a salutarci.
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