Fuocoammare di Gianfranco Rosi
Prendo spunto dal pezzo di Alberto Godioli Le Guerre invisibili: Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che indaga sui rapporti tra l’idea letteraria di spazio in Calvino e il cinema documentario di Rosi, da Sacro Gra a Fuocoammare, Orso d’oro a Berlino 2016, per dire due cose su un film che, come il resto del mondo, ho amato (venduto in sessanta paesi, il film ha registrato su Rai Tre due milioni e trecentomila telespettatori, pari all’8,8 % di share), e per intervenire sulla polemica scatenata sui giornali dopo la notizia della coraggiosa candidatura agli Oscar di un documentario come miglior film di finzione (Lampedusa verso l’Oscar, Sorrentino: scelta masochistica, “Repubblica” 27 settembre 2016). Il 24 gennaio prossimo sapremo se Fuocoammare entrerà nella cinquina ufficiale dei film stranieri (tra gli altri candidati cito almeno Neruda di Pablo Larrain, Julieta di Almodovar, Paradise di Konchalocsky, The Salesman di Farhadi), oltre che, come tutti immaginiamo, nella cinquina ufficiale dei documentari. Una scelta coraggiosa, dicevo, sostenuta dal primo momento dalla presidente di giuria della Berlinale Meryl Streep, che all’uscita della sala dichiarò che si sarebbe battuta fino alla fine per la candidatura del film agli Oscar.
La notizia ha creato polemiche e spaccato il nostro paese, se è vero che, alla vigilia della pubblicazione della notizia, il nostro premio Oscar Paolo Sorrentino, membro della commissione per gli Oscar, dichiarava: «Fuocoammare è magnifico, ma andava candidato nella categoria dei documentari. Questa scelta è un masochistico depotenziamento del cinema italiano, che poteva candidare due film». Eppure, caro Paolo, sta proprio qui la novità: candidare Fuocoammare come miglior film straniero sancisce una volta per tutte che tra film documentario e film di finzione non ci sono barriere di genere e che il documentario è prima di tutto un film. Lo spiega bene Emiliano Morreale (Il cinema ai confini tra fiction e realtà, Può un documentario candidarsi all’Oscar come film? “Repubblica” 28 settembre 2016), quando scrive che il documentario, o il cinema del reale, «nasce storicamente dal corpo centrale della storia del cinema e anzi spesso in forte legame con i movimenti d’avanguardia e le spinte d’innovazione artistica». Non una distinzione di genere, dunque, ma di metodo. Una diversa tensione conoscitiva nei confronti del mondo e un diverso approccio morale nei confronti della storia narrata, dove l’estetica non è mai separata dall’etica, e viceversa. E se Morreale cita come grandi documentari Les Hurdes di Louis Bunuel e Anna di Alberto Grifi, noi aggiungiamo almeno il documentario di poesia di Pietro Marcello, il surrealismo gridato di Pippo Delbono, il figurativismo di Vittorio De Seta.
Fuocoammare è prima di tutto un film, e come film deve essere giudicato. Lo hanno capito i più grandi Festival di cinema del mondo (alla Berlinale era in gara come film nel Concorso ufficiale). Lo ha capito la commissione degli Oscar. Lo ha capito il pubblico, come quella piazza gremita di gente a Salina, per la serata di apertura dell’ultima edizione lo scorso Giugno del Salinadocfest, Festival del documentario narrativo, che dirigo da dieci anni e di cui sono Presidente (www.salinadocfest.it). Per l’occasione abbiamo deciso di mettere a confronto il regista, in collegamento Skype da Londra per l’uscita in sala, il montatore Jacopo Quadri, che ha affiancato Gianfranco per quasi un anno durante le riprese a Lampedusa, e Corrado Formigli, giornalista televisivo di Piazza Pulita, che ha firmato molte inchieste su Lampedusa e sulla tragedia dei migranti – un soggetto inflazionato a cui ormai il nostro occhio si è assuefatto -. Per chiarire una volta per tutte che il documentario non è un réportage e che le differenze tra documentario e finzione riguardano prima di tutto lo sguardo, il modo in cui si racconta una storia.
È lo sguardo che sedimenta i vecchi contenuti e li rende nuovi, diversi, inediti all’occhio umano. Da anni vediamo in TV i volti di quegli stessi profughi, le coste di una Lampedusa martoriata, i resti dei barconi sulle nostre coste. Ma in Fuocoammare la luce cambia. L’occhio rallenta, sottrae al tempo le immagini, lavora per sottrazione. Rosi scandaglia in profondità gli abissi della storia come in una discesa agli inferi del buio sottomarino, scruta negli animi dell’essere umano, lampedusano, somalo o etiope che sia, come quando, naufrago tra naufraghi, si ritrova accanto a corpi morti o in agonia, sul gommone della guardia costiera, e incrocia il loro sguardo, rivolto in macchina, in silenzio, senza parole, se non quelle del rispetto per il dolore altrui. La quotidianità della comunità di Lampedusa procede così, grazie al sapiente montaggio alternato di Jacopo Quadri, tra le storie dei suoi abitanti – Samuele, il bambino che soffre il mare, Pietro, il dottore che accoglie i migranti, Pippo, il dj di una radio locale che trasmette solo canzoni in dialetto, tra un bollettino sugli sbarchi e l’altro, Francesco, il sub che tutte le mattine s’immerge in cerca di ricci -, e gli sbarchi continui dei profughi; tra il grido dei sopravvissuti e il silenzio di un’isola separata dal mondo; tra i soccorsi in mare e i gesti quotidiani di Samuele, il bambino dall’occhio pigro, che vede oltre e vede meglio, che gioca a sparare agli uccelli, perché ha perduto la sua innocenza. Due realtà che si incrociano, ma non si incontrano, se non nello sguardo del regista, che fa da trait d’union tra le due diverse realtà, che osserva senza retorica e al tempo stesso partecipa, senza il distacco neutrale del cronista. Con uno sguardo d’autore, appunto. Con lo sguardo del cinema.
Lo sguardo si riappropria degli spazi, rende epifanici luoghi invisibili, nei campi lunghi fissi sulle rocce di una Lampedusa feroce e bellissima, dove passa, solitudine tra solitudini, il motorino di Samuele; nelle lente panoramiche sugli interni – dalla stanza da pranzo di Samuele, dove assistiamo, in tempo reale e simbolico, al rituale degli spaghetti con i totani appena pescati, alla consolle di Pippo DJ, che sceglie con cura i motivi siciliani dai suoi vecchi vinili, come Fuocoammare che dà il titolo al film, alla camera di un’anziana casalinga rimasta vedova, il cui unico impegno quotidiano è il letto nuziale da rifare, come buon auspicio per iniziare la giornata sotto la protezione della Madonna e di Padre Pio.
E poi c’è il mare, l’altro grande protagonista di questa storia. Quel mare che è davvero madre Mediterraneo, quando salva e accudisce, quando unisce le coste che divide. Ma è anche l’ostile strumento di lavoro dei pescatori, di ’Ntoni, ieri, e dei lampedusani, oggi, che, quando il mare è cattivo, non possono andare a pescare. Lo racconta a Samuele la nonna, quando ricorda che in tempo di guerra se c’era fuoco a mare, il mare si colorava di rosso e gli uomini non uscivano a pescare. È il mare cattivo dei Malavoglia-Valastro di viscontiana memoria; la natura timpanariana che non risponde agli stati d’animo e che inghiotte come nel ventre di una balena cieca la vita di donne, uomini e bambini. Siamo solo all’inizio del film, quando, dalle grandi antenne satellitari stagliate contro il cielo nero, sopra il mare nero, la voce di un uomo si fa largo nel silenzio. Una voce diversa da quella cui siamo abituati nel frastuono quotidiano del sempre uguale: – Aiuto! – È un immigrato che sta affondando su una barca piena di clandestini, e con la forza della disperazione chiede soccorso alla nostra Marina. La voce lacera l’udito come la lama affilata di un coltello. Ma all’improvviso, dalle nostre coste, una voce risponde: – La vostra posizione! Amico! La vostra posizione! – E lo chiama amico.
Siamo già in un orizzonte cinematografico.
Nella sequenza successiva, siamo sulla terraferma, nella stessa notte. Samuele, il piccolo protagonista, si aggira tra le fronde dei pini, in cerca di uccelli da snidare e colpire con la fionda. Mentre a terra i bambini si trasformano in cacciatori di uccelli, dal mare una donna urla: – Stiamo affondando! Siamo pieni di bambini! –. I bambini di qua, i bambini di là, la terra e il mare, i suoni della notte e il silenzio senza voce dei profughi sopravvissuti alla tragedia. In quei primi piani al controllo della Marina il dolore si fa universale, e rinnovandosi ci ricorda, oggi come ieri, che l’uomo ha bisogno dei suoi simili e il mondo ha bisogno di cambiare. Quelle storie ci riguardano, quel dolore ci è familiare, ci riconosce umani tra umani. In prossimità della fine, le immagini risvegliano dentro di noi una nuova solidarietà dello sguardo e un nuovo umanesimo; la partecipazione prende il posto dell’osservazione, l’emozione ha la meglio sull’informazione. «La gente – dichiara Rosi – da un documentario si aspetta informazioni, il procedere per tesi, tipico dei documentari americani. Io faccio il lavoro opposto. In un mondo sommerso dalle informazioni, io punto sulle emozioni, sul percorso interiore». Anche il sonoro procede in una direzione fortemente cinematografica, antinaturalistica. I tuoni, le onde del mare, il gracchiare degli uccelli, si fondono con i motivi siciliani di Fuocoammare e O sciccareddu, che ricordano ai giovani l’antica sapienza dei vecchi. La vita si fa colonna sonora del film. Ma all’improvviso si rompe in quel rito di preghiera di profughi etiopi, siriani, eritrei, che cantano la loro tragedia, come in un antico e moderno Rap, così simile al cunto siciliano, per squarciare il dolore del silenzio e ringraziare la comunità di Lampedusa: «Non potevamo restare in Nigeria / Molti morivano / C’erano i bombardamenti / Siamo scappati nel deserto / Nel Sahara molti sono morti / Sono stati uccisi, stuprati / Non potevamo restare / Siamo scappati in Libia / Ma in Libia c’era l’ISIS e non potevamo rimanere / Abbiamo pianto in ginocchio: Cosa faremo? / Siamo scappati verso il mare / Nel viaggio in mare sono morti in tanti / Abbiamo bevuto la nostra pipì / Il mare non è una strada / Ma noi lo abbiamo attraversato / Abbiamo rischiato e oggi siamo vivi ». Lo raccontano a noi, in un inglese mescolato alla loro lingua, e noi entriamo in contatto con loro, attraverso il suono, il corpo, la gestualità. E quando la telecamera stacca su Samuele che, come in un campo di guerra, spara agli uccelli in riva al mare, in quel bambino risentiamo la rabbia di quei padri e il dolore dei figli che da quei padri nasceranno, rivediamo i ragazzi senza innocenza di Gomorra, ma anche Edmund tra le macerie di Germania anno zero, e gli orfani di Roma città aperta di fronte alla morte di Don Pietro.
Non è questa, in fondo, e al di là delle polemiche, la grandezza del cinema? Un faticoso processo di risalita dal particolare all’universale, che permette a un fatto di cronaca di diventare universale. «Con questo film – conclude Rosi – siamo riusciti ad accendere un faro in Europa, ora lo abbiamo acceso nel mondo. Il cinema è uno strumento potente perché tocca il cuore della gente». Con Fuocoammare riscopriamo quel principio di finalità kantiana e quel patto necessario con lo spettatore che negli ultimi anni il cinema italiano aveva perduto, chiuso nella propria autoreferenzialità estetizzante. D’altra parte, se il nostro regista più acclamato al mondo, Paolo Sorrentino, in un’altra intervista a Repubblica sui suoi progetti futuri dedicati a Berlusconi, dichiara «L’Italia di oggi è devastante per chi la vive, ma bacino inesauribile di stimoli per chi fa cinema. Altro che scappare da qui», dimostra con una sola frase di invalidare quella tensione conoscitiva e morale che ha sempre avuto il cinema italiano più grande – ma si vedano anche i due ultimi film di Loach e Dardenne – e che oggi sembra essere la prerogativa del film documentario: la tensione di chi dice no a un mondo sbagliato e considera il cinema come un’arma per sognare futuri diversi.
Per questo saluto la candidatura di Fuocoammare come miglior film italiano agli Oscar.
Per questo dico grazie, e ancora grazie, a Gianfranco Rosi, a Jacopo Quadri, e a chi lo ha realizzato.
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