Ieri sera, tornando da un viaggio, ho trovato il cane agonizzante. Da tempo era ammalato, anch’io lo ero, e così ci facevamo compagnia. Negli ultimi giorni però non mangiava più, e quando sono tornato non si teneva in piedi. Stava disteso su un fianco, immobile, solo la pupilla grigia si muoveva seguendo i miei spostamenti. Però, quando gli accarezzavo la testa, deglutiva di piacere, come sempre. Sono stato alzato quasi tutta la notte per assisterlo. Poi mi sono addormentato, e ho sognato mia madre tanti anni fa, ritta sulle scale, al mezzanino di casa, con il grembiule alla vita, che mi salutava e voleva guardarmi finché non sparivo in basso.
Stamani l’ho portato dal veterinario per farlo morire. L’ho dovuto prendere in braccio alzandolo con la sua cuccia. Pesava molto poco, forse la metà di qualche mese prima. L’ho deposto nell’auto sul sedile accanto al mio. Durante il viaggio gli ho tenuto sempre la mano sulla testa, lo accarezzavo ma non deglutiva più. Ogni tanto però levava il capo e mi guardava con gli occhi dolcissimi. Allora ho deciso che l’avrei accompagnato sino all’ultimo momento, e quando il veterinario voleva chiudermi fuori ho dichiarato che intendevo restare. Si è giustificato dicendo che i più non volevano assistere alla fine. L’hanno disteso su un tavolo, e lui era calmo, con gli occhi fissi su di me. Io gli accarezzavo piano la testa, gli ossi del suo cranio sotto il mio palmo. E’ un cane buonissimo, vede?, è buonissimo sino all’ultimo, ho detto. Per prima cosa gli hanno dato un sedativo, poi un antidolorifico, non trovavano la vena, è così magro che è quasi sparita, dicevano. Lui mi guardava ancora, ma a poco a poco i suoi occhi si sono appannati. Perché un antidolorifico?, ho chiesto, mentre portavano una flebo col Tanax. Il Tanax funziona arrestando il respiro e il cuore in dieci-quindici secondi, ma sarebbe un dolore violentissimo, anche se breve, meglio evitarlo, mi hanno spiegato. Poi gli hanno iniettato il Tanax. Nemmeno un sussulto. Era lì, davanti a me, inerte, ripiegato nella posizione in cui lo aveva collocato il veterinario. Materia bruta, una cosa già estranea. Ora va smaltito, bisogna cremarlo, hanno aggiunto. Speravo di seppellirne il corpo in giardino, ho dovuto rinunciarvi.
Sono tornato a casa e mentre guidavo pensavo: perché non si può morire tutti così? In dieci minuti, senza tante cerimonie e sofferenze. Io lo farei subito, anche oggi. Poi mi sono accorto che dicevo a voce alta: Mamma, mamma. Non essere ridicolo, mi sono rimproverato, sentivo un vuoto, la mancanza di una mano fra i capelli.
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G.B. Palumbo Editore
La forma della solitudine
Ho appena letto questa pagina tersa, dolente, umanissima, di Romano Luperini, e voglio testimoniare subito, con radicale immediatezza, la commozione profonda che mi ha trasmesso (ma forse non so farlo senza banalizzarne la forza e lo spessore, riducendoli alla misura riduttiva e convenzionale dell’ottica comunque letteraria che la mia lettura le sovrappone). E’ una pagina colma di emozione (come tutta l’”Ultima sillaba del verso”, il romanzo più tragico e più lirico di Luperini, per me certo il più emozionante: ma di questo vorrei parlare in un’altra occasione): ed è un’emozione tutta rappresa, scavata, in una narrazione sobria, cronachistica, che è come il correlativo oggettivo in forma di racconto di un evento intrinseco alla dimensione quotidiana dell’esistenza, restituito esponendo senza riserve, nel rigore di un realismo crudo e mesto, la soggettività dell’esperienza nei suoi tratti più intimi ed inermi ; e insieme è un evento carico di un’alta valenza simbolica: ma non mediata da una costruzione letteraria volta a distanziarne lo spessore emozionale nella tessitura metaforica del suo significato (come, per addurre due esempi, il Bendicò baroccamente allegorico del finale del “Gattopardo” o, in una contratta cifra etica, il Puk morente del Gadda solariano). Qui la figuralità, per così dire, è direttamente suscitata e agita dalla spinta dell’emozione, e si adempie, tra il lirismo desolato dell’affioramento onirico e la creaturale meditatio mortis che suggella il racconto, nel nudo destino del narratore-testimone, nella sua interrogazione sul significato e sul tempo espropriante della fine, sulla terribile solitudine umana – sulla condanna di tutti noi alla prigionia dentro un io senza carezze – di fronte alla cecità inesorabile della natura e del caso.
A me pare che il realismo implacato e insieme tenero di questa pagina – così immune da ogni compensazione estetica, perché così intensamente proteso, nella luce sovrana dello stile, a restituire nella sua integralità l’emozione dell’evento e il pensiero che la abita -, mentre racconta la solitudine disperata che è lo stigma ultimo della nostra esistenza riesca a darle forma senza trascenderla: cioè a salvarne e fissarne intatta la profondità emozionale, la domanda di senso e di comunicazione – di comunità – che le cresce dentro. E per questo il suo autore non resterà mai solo. La sua scrittura non soltanto rappresenta, ma comunica. La sua parola si apre ad esprimere e far vivere l’angoscia senza scampo, e insieme il bisogno di senso, e di relazione umana – di significato, di dialogo, di sentimenti -, di ognuno di noi, di tutti. La mano sui capelli che accompagna la solitudine dell’io, la sua estrema discesa, è anche il gesto di vita che lo salva.