Leros: l’isola degli ingovernabili e degli apolidi – Recensione a “La prima verità” di Simona Vinci
La prima verità (2016) di Simona Vinci – vincitore, tra gli altri riconoscimenti, del Premio Campiello e del Premio Volponi – è un romanzo nato da un’incubazione di otto anni e caratterizzato da una complessa stratificazione di generi, di voci narranti, di piani temporali, tutti convergenti sul tema del trattamento della malattia mentale. La sua struttura composita è evidente fin dalla presenza di un esordio rallentato, una sorta di andante in tre tempi coincidente con tre prologhi la cui funzione è quella di guidare il lettore, in poche pagine “iniziatiche”, a individuare i filoni narrativi che si intersecano nei capitoli veri e propri.
Non ti scordar di me, il primo prologo, invita a individuare la parte autobiografica della vicenda, per quanto Vinci precisi che «la voce narrante del romanzo che parla in prima persona […] sono e non sono io» (p.378). La bambina «ineducabile […] e pericolosa per sé e per gli altri» (p.9) che l’autrice è stata riemerge nella sua memoria grazie a una foto che, nel luglio del 1970, destò scandalo su «L’Espresso»:
Se fossi nata solo cinque anni prima del 1970, in un altro contesto sociale, avrei potuto essere io quella bambina nuda, legata con cinghie di contenzione a un lettino spinto contro i margini dell’abisso dove, se precipiti, non ci sarà nessuna mano ad afferrarti. (S. Vinci, La prima verità, cit., p. 9)
Il secondo prologo – L’ultimo a morire è il corpo – ricorda come da sempre la diversità, sgradita al consorzio umano, sia stata confinata sulle isole: matti, criminali e dissidenti politici sono stati gli abitanti “naturali” e al contempo coatti di luoghi da cui era pressoché impossibile tentare la fuga.
Infine Luce delle anime e dei nostri corpi immette nel corpo romanzesco dell’opera: Basil, il gigante salmodiante che impazzisce perché «era troppo il suo ardore e troppa la sua fede» (p.21), è il primo di una serie di figure-satellite che, accanto ai personaggi principali, ruotano attorno allo scenario di abbrutimento e sofferenza del manicomio sperduto nell’Egeo. A loro l’autrice vuole dare voce e dignità immaginando le loro storie e i loro destini:
Ogni volta che una presenza bussa alla mia porta, mi faccio da parte per accoglierla e ascoltare ciò che ha da dirmi. La scrittura in fondo è questo: lasciar entrare le voci di quelli che hanno qualcosa da dire, non importa da dove vengano e quando vengano. Ogni storia di ogni singolo essere umano, se raccontata e ascoltata da qualcuno, è declinata al tempo presente. (S. Vinci, La prima verità, cit. p. 379)
Dei quattro capitoli veri e propri che costituiscono il romanzo, tre (L’archivio delle anime – Su nel posto segreto – Sono ancora tutti lì) sono d’invenzione. Strettamente interconnessi tra loro, prendono avvio negli anni Novanta per risalire ai decenni precedenti, in particolare al periodo della dittatura dei Colonnelli (1967-74), quando l’ospedale psichiatrico dell’isola di Leros accoglieva non solo folli e disadattati ma anche oppositori politici. L’ultimo capitolo (Non ti scordar di me), invece, si svolge ai nostri giorni mescidando autofiction e reportage e si disloca tra Budrio in Emilia Romagna e Freetown in Sierra Leone.
Un insolito epilogo chiude, infine, il romanzo. Notizia su Leros: il colpevole segreto d’Europa condensa, in poche pagine, osservazioni di poetica autoriale, la genesi dell’opera (fondamentale in questo senso l’incontro con il reportage fotografico del 1989 di Antonella Pizzamiglio) e il ruolo che ancora oggi Leros riveste nell’Egeo per transfughi e migranti in transito verso il vecchio continente. Passato e presente si saldano senza soluzione di continuità a marcare la nuova diversità temuta dall’odierno consorzio umano:
Proprio lì, nello stesso luogo d’internamento in cui malati psichiatrici, disabili, bambini abbandonati, dissidenti e prigionieri politici hanno scontato la loro condanna a vita, i profughi ora vengono ospitati in baracche bianche e azzurre, vengono loro prese le impronte digitali e si cerca di assegnargli una nazionalità, anche se per molti – senza passaporti, senza documenti d’identità – comincia una vita da apolidi. (S. Vinci, La prima verità, cit., p.396)
La pista “romanzesca” dell’opera ha per protagonista Angela: giunta nel ‘92 sull’isola con un gruppo di volontari per avviare il processo di deistituzionalizzazione del manicomio-lager, la giovane trova negli archivi dell’istituto tracce frammentarie delle persone internate. Priva di preparazione specifica sul trattamento dei malati mentali, ma già segnata dalla morte prematura del fratello Domenico, deforme e “diverso” a causa di una malattia genetica, Angela insegue caparbiamente la storia di un bambino recluso a Leros a soli sette anni, denominato nella cartella clinica Temistocles B.841. Il suo vero nome è, in realtà, Nikolaos e, al suo arrivo nel manicomio, ha scelto di chiudersi in una forma di mutismo elettivo tenendo in bocca un sasso levigato:
La prima sorpresa non fu il fatto che fosse un bambino, e neanche che fosse l’unico passeggero del carico. Più che altro si trattò di quel gesto velocissimo: il bambino raccolse qualcosa da terra, un sasso forse, e senza neanche guardarlo se lo ficcò in bocca. […] Era sceso da quella barca sulle sue gambe, ma gli era sembrato comunque assimilabile a un pezzo di mobilia, una coperta ripiegata in quattro […] come se si fosse chiuso in un punto sicuro all’interno del suo corpo e della sua mente dal quale osservare indisturbato le persone e gli eventi senza dover trattare in nessun modo con loro. (S. Vinci, La prima verità, cit., p. 121)
La sua compostezza e il suo silenzio spiccano in un luogo dove tutto è abiezione e violenza, disordine e caos e attirano l’attenzione di altri due reclusi. Si tratta di Stefanos, poeta deportato nell’isola come dissidente politico, e Teresa, giovane donna prima violata dal fratello maggiore, poi allontanata dalla sua stessa famiglia. Nell’ideazione del personaggio maschile hanno agito in Vinci le figure di Ghiannis Ritsos – una delle voci poetiche più significative del XX secolo ellenico cui si deve il titolo dell’opera – e di Stefano Tassinari, scrittore e drammaturgo ferrarese prematuramente scomparso nel 2012. Nel manicomio-lager, nonostante le torture cui viene sottoposto e la dolorosa consapevolezza che non riabbraccerà più la sua famiglia – la moglie Emi e la figlioletta Akylina – l’uomo continua a scrivere poesie su minuscoli pezzetti di carta di cui Nikolaos diventa il custode materiale, mentre Teresa ne diviene la testimone memoriale, imparandole una per una. Nell’inferno di Leros, dunque, Stefanos, Teresa e Nikolaos rappresentano quanto di più lucido si possa immaginare in tema di resistenza della ragione e di anelito alla comunicazione tra uomini.
Nella sezione non finzionale dell’opera si affrontano sostanzialmente due questioni cruciali, di ascendenza foucaultiana, ossia la permeabilità del confine tra normalità e follia e il trattamento di quest’ultima tra reclusione, contenzione e «il salvagente della chimica» (p.369):
Oggi molti di quei luoghi, nell’Occidente che conosciamo, sono stati chiusi o riformati e non esistono più che nella memoria collettiva […]. Intanto, le malattie mentali gravi con le quali è difficile convivere sia per il malato che per i suoi familiari tornano dentro l’uscio di casa. Un disguido che tocca alle famiglie aggiustare e riaggiustare, come un tubo che perde e che non si può sostituire. A quello sgocciolio è necessario abituarsi da soli, con un blister di pillole o con un flacone in mano. (S. Vinci, La prima verità, Torino, Einaudi, 2016, pp. 368-369).
L’autrice, oltre a riflettere sul suo rapporto personale e familiare con la malattia mentale, fa sfilare, in queste pagine, alcuni degli ospiti degli istituti psichiatrici di Budrio, i cosiddetti “mattucchini”, osservati da bambina con un misto di ammirazione e curiosità ed eccezionalmente liberi di muoversi per il paese già prima della legge Basaglia (1978).
La giustapposizione tra la parte romanzesca e quella non finzionale del libro fa emergere le contraddizioni del tempo presente: nell’isola dove un tempo erano confinati “matti” e dissidenti – gli ultimi della terra – oggi vengono radunati e schedati i migranti, nuovi «ingovernabili» (p.51). Nel contempo l’Occidente, nella sua strada verso la civiltà, ha abolito i manicomi, salvo delegare la marea di disagi psichici a «centri diurni, piccole comunità di recupero, comunità alloggio» (p. 369) che hanno mezzi e risorse limitate rispetto all’entità, crescente, del problema:
Lutti, depressioni, fasi maniacali, fobie, disturbi dello spettro autistico, alcolismo, droga. Ansia. Disperazione. Paura. E povertà, che produce tutto il resto. […] Abbiamo imparato, stiamo imparando, che i muri di delimitazione, i confini, le città speciali si possono costruire anche senza cemento armato e mattoni, senza chilometri quadrati d’acqua attorno o fossati scavati nella terra, senza incatenare le persone a un albero o a un pilone: disgregare un tessuto sociale può essere altrettanto efficace. (S. Vinci, La prima verità, Torino Einaudi, 2016, pp. 369-370)
L’opera composita e coraggiosa di Simona Vinci è, infine, caratterizzata da uno stile maturo e fedele a se stesso: architettura del romanzo e padronanza espressiva stanno a dirci che «gli ingovernabili», ieri come oggi, vivono al nostro fianco e che chiedono il riconoscimento della dignità della loro esistenza.
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