Su Lame di Gabriele Frasca
Il Novecento, e forse anche questo scorcio di inizio secolo, si è arrovellato, da un punto di vista letterario, attorno a un unico problema: quello di risolvere la contraddizione che si instaura tra rappresentazione mimetica dell’io e della vita, che sono per loro natura pluridimensionali e mossi da forze centrifughe e dispersive (si pensi al funzionamento della psiche), e linearità della scrittura. Come riprodurre infatti la sincronicità delle pulsioni vitali e dei pensieri del soggetto con uno strumento, quello del linguaggio appunto, che prevede la successione di parole e di frasi? Era questo il punto di partenza del romanzo modernista: si pensi alla parabola joyciana, da Ulysses a Finnegans’ Wake, o agli esperimenti letterari di Beckett (le novelle ad esempio).
Se si prende le mosse da questo problema, non è tanto perché Joyce e Beckett soprattutto sono costanti compagni di strada del percorso intellettuale di Gabriele Frasca, ma perché anche la sua opera poetica può essere letta alla luce di un tentativo di stravolgere la linearità della scrittura e di fuggire da una sorta di “gabbia tipografica” (la lettura silenziosa). E a dimostrarlo una volta di più è la recente «edizione critica d’autore» di tutta la sua produzione, uscita per la collana fuoriformato (L’Orma) diretta da Andrea Cortellessa: Lame (Rime + Lime seguite da Quarantena e Versi rispersi).
*
Lo stravolgimento della linearità tocca in primo luogo il tempo; e lo fa già da un punto di vista editoriale-redazionale. È vero che il volume raccoglie Rame (testi del 1978-1985 editi nell’’84), Lime (Einaudi 1995, con componimenti del decennio 1985-1994) e il recente e ancora in progress Quarantena (2012-2016); ma è anche vero che Rame è stato riedito nel ’99 con nuovi testi (e dunque riunisce testi 1978-1999 che sconfinano nell’area di competenza di Lime), e che l’attuale Lame si chiude con Versi rispersi, datati dall’autore 1976-2013. Sicché cercare uno sviluppo lineare all’interno di quest’ultimo libro rischia di essere un lavoro a vuoto, e il modo migliore per perdersi in un labirinto temporale.
Ma il tempo, al di là delle date di stesura, è tema centrale nell’opera di Frasca, ed è sempre declinato nella sua struttura non unidirezionale: capace di concentrarsi tutto in un punto, così come di tornare dal passato al presente. Lo si nota già dalla prima raccolta, Rame, in cui nel medesimo testo in cui si prende atto di una progressione continua dei giorni («Se pur veloci gli anni a progredire / come da un’esca vile / tranci d’angosce trai da folte file», p. 115), si sente subito l’esigenza di confonderlo in una commistione di presente e passato: «piuttosto vieni memore mistura / a confondere ancora / il ruminante con la sua pastura», p. 115). Ma immagini che tradiscono la tensione verso quell’attimo in cui «il tempo esce di squadra» (per dirla con Montale) sono molteplici; e non solo negli Orologi di Lime (ad esempio in Orologio a pendolo il personaggio conta ossessivamente «da zero fino a dieci» e da «nove fino a zero», «finché tutto combaci. ad ogni nuovo salto di livello. da un cardinale all’altro. e al successivo multiplo di mondo. o almeno fino a quando all’improvviso. e proprio quando meno me l’aspetto. non decidano tutti quanti sono di farsi alla buonora infine addosso», p. 234), ma anche in altri testi della medesima raccolta del ’95:
non so perché ma aspetto che ritorni
il tempo che ho trascorso in retroguardia
piegato sulla pancia dei miei scorni
(a volte questo fragile pensiero, p. 256)
ritornerà il tormento del remoto
come tremasse al transito d’un treno
sotterraneo il complice terreno
di chi su ignora quanto va nel vuoto
(sù sù quassù che se ne va qualcosa, p. 257)
*
Ma fin qui ci siamo mossi su un piano prettamente “tipografico”, per usare un termine che è proprio del vocabolario di Frasca: la scrittura lineare infatti denuncia la non linearità del tempo. Ma una delle dimensioni più caratterizzanti la poesia di Gabriele Frasca è l’oralità: dimensione, questa, che appartiene a molti poeti che hanno esordito a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, ma di cui Frasca è senz’altro uno degli interpreti più consapevoli. Innanzitutto i suoi testi si prestano ad essere recitati e letti ad alta voce:
malgrado sia morto quel giorno
ritorna malgrado l’albume
del cuore confonda lo scorno
e l’ansia di averne nel lume
dell’ora dell’altro per prendere
ancora nel giorno coi numeri
attesi le solite mende
confuse col vero cui trarne
minute minuzie di lente
passioni che facciano carne
(malgrado sia morto quel giorno, p. 275)
Non si tratta solo di un raffinato lavoro sul significante, che crea continui slittamenti di significato. Piuttosto questo procedimento si affianca alla forma metrica chiusa e al sistema di rime (in questo caso alternate, con due rime imperfette), che imprimono al testo, soprattutto se recitato ad alta voce, il ritmo di una cantilena. Recupero della tradizione orale, certo, ma ancor di più messa in scacco dell’epoca silenziosa della poesia (durata due secoli: i secoli in cui la poesia si legge e non si ascolta in ossequio a una cultura prettamente tipografica), e soprattutto apertura del testo verso l’extratestuale. Ossia verso l’altro, secondo un principio prettamente dialogico.
*
Il dialogo che si instaura con l’oralità del testo e la stessa oralità rimandano alla dimensione corporale: la voce, infatti, esce dal corpo, e a dialogare sono appunto persone in carne e ossa (quello di Frasca è sempre un “uomo materiale”). E il corpo, non a caso, è ricorrente in tutte le sezioni di Lame. Si tratta sempre di un corpo non razionale, mosso da energie che continuamente tendono alla dispersione:
se il gran vasaio che rimesta strati
d’occhi e di mani e torsi sogni spore
forfore e spermi bocche pelli e fame
e voglia di restare se le strade
non avesse interrotto se per stormi
non ci avesse costretti saremmo ombre
(se il gran vasaio che rimesta strati, p. 15)
e poi dietro le grate questa fame
che viene dagli schermi in rapide ombre
ci percorse addestrati come spore
(e poi dietro le grate questa fame, p. 22)
si analizzi la copula. con l’uno
l’altro va e s’accartoccia. gli squagliano
al viso altrui la rabbia. oppure alcuno
ai disperati amplessi in pelle intaglia
l’anima. aha l’anima. asilo del bruno
decadere dei corpi strugge. smaglia
(si analizzi la copula. con l’uno, p. 133)
In altri casi, poi, la curvatura è esplicitamente sessuale, funzionale a mostrare una disordinata vitalità, che anche nella voce trova la sua forma di espressione:
permuti l’erettibile virtù
il corpo morto in spiritale rame
nell’egresso giurando al tuo liquame
sarò solubile tirami su
(quartina tirandosi la porta, p. 47)
se tu vuoi ch’io mi muoia fallo allora
e fa’ che il rame o l’acido tramuti
la luce in una sfoglia dove muti rimangano al pensiero
(se tu vuoi ch’io mi muoia fallo allora, p. 79)
*
Abbiamo accennato prima all’altra cifra stilistica di Frasca: la predilezione per le forme chiuse, sempre adeguatamente sottolineate dalla critica. Certamente la scelta di ricorrere alla sestina, allo strambotto, al quartetto, alla villotta risponde a molteplici esigenze.
In primo luogo queste strutture metriche rendono esprimibile in una forma – una forma comprensibile – ciò che è per sua natura informe, ossia la vita (nelle sue espressioni emotive, sessuali, corporali, ecc.; e questa magmaticità della vita è linguisticamente espressa anche da quello slittamento del significato sulla base del significante prima menzionato). Si tratta di una forma formante, che si piega alle esigenze di quanto riferisce, e soprattutto riesce a mantenere in vita l’oggetto che raffigura, tutelandolo dalla banalità, dalla serialità e dalla morte:
oppure piuttosto che fare
ridire finirsi più sotto
sfinirsi fin quando le varie
rincorse più rare di molto
nel tempo diranno finita
la corsa e il perso ritorto
nel tolto serrate le dita
intorno a quello che sia
ricordi dicesti ’sta vita
dài fermala via
(oppure piuttosto che fare, p. 279)
In secondo luogo il recupero di forme metriche desuete – lo insegnava già Fortini – ha una funzione di straniamento: l’inattualità, dunque, permette di svelare significati nascosti e, spiazzando il lettore, di comunicarli. Sosteneva a tal riguardo Giovannetti (citato da Alfano nella puntualissima Postfazione al volume; una sorta di definitiva canonizzazione, con tanto di note filologiche), che il «metro chiuso veicola una conoscenza del mondo, dà forma alla realtà in maniera tendenziosa costringendo il lettore a un risveglio dei sensi».
Ma tutto ciò ci riporta al punto decisivo della metrica di Frasca: le forme chiuse, e rimate, si riconnettono alla tradizione orale della poesia (e dunque alla natura più originale del componimento poetico), consentono il dialogo, e dunque la trasmissione di conoscenze e di concetti: ossia la trasmissione di cultura. Che è poi, lo sosteneva proprio Frasca in un’intervista a Lello Voce, il vero compito della poesia.
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