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diretto da Romano Luperini

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Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/4

 Quarta settimana per l’Inchiesta sull’italianistica. Oggi risponde alle domande Novella di Nunzio

Novella di Nunzio è lecturer di lingua e letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Vilnius. Collabora anche con l’Università “Vytautas Magnus” di Kaunas, dove insegna letteratura italiana. È membro del comitato scientifico del gruppo di ricerca interuniversitario Centre for European Modernism Studies e cofondatrice del gruppo di ricerca permanente sulla contemporaneità “Persistenze o Rimozioni”. Si e laureata in Filologia moderna presso l’Università di Perugia. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Letteratura presso l’Università di Siena. Si occupa principalmente di modernismo italiano del primo Novecento. Ha pubblicato saggi in particolare su Italo Svevo, Giacomo Debenedetti, Carlo Michelstaedter, Luigi Pirandello, Giuseppe Antonio Borgese, Tommaso Landolfi. Di recente uscita inoltre una monografia a quattro mani dedicata alle configurazioni narrative del discorso storico e politico.

La scheda di presentazione dell’inchiesta si può ritrovare QUI. Le precedenti risposte si possono trovare qui , qui e qui.

Perché sei andato all’estero?

Vorrei non dover rispondere “perché in Italia non ci sono posti”; ma tant’è. Quanto alla mia meta, la Lituania, la scelta è stata in parte casuale, in parte no. Colgo l’occasione di questa inchiesta, mi si perdoni la prolissità, per raccontare un po’ più nel dettaglio com’è andata, l’iter a dire il vero alquanto “irregolare” che ho percorso (sempre che esista una regola in questo genere di cose, e cioè i destini di ognuno). Dopo il Dottorato, conseguito nel gennaio del 2012, mi sono trovata di fronte a una considerevole crisi, sia personale che lavorativa (ma forse le due cose coincidevano). Il problema, tanto semplice da individuare quanto apparentemente impossibile da risolvere, era la totale mancanza di risposte alla domanda: “e adesso che fare?”. Sapevo chiaramente cosa desiderassi: continuare a lavorare in ambito universitario, fare ricerca, studiare, scrivere; ma non vedevo vie concrete per la realizzazione del mio desiderio. Allora sono passata ai ripari, attuando quel famigerato “piano B” che credo costituisca uno degli elementi più rappresentativi degli studiosi della nostra generazione. Voglio dire che siamo bravissimi a inventarci piani B. Puro istinto di sopravvivenza. Nel mio caso si trattava del Tirocinio formativo attivo, classe di concorso l’ormai ex A51. Fino ad allora non mi ero mai immaginata docente di italiano e latino nei licei e nelle scuole di istruzione secondaria: insegnare non faceva per me, pensavo. Ma era l’unica via che mi si prospettava in quel periodo, e allora tanto valeva andare avanti. Nel frattempo, però, continuavo a cercare soluzioni alternative per realizzare il mio desiderio professionale. Non saprei stabilire razionalmente il legame tra questa ricerca e la scelta (fatta a cuor pesante, a dire il vero) di tentare nel dicembre del 2012 l’application per il Comenius 2013-2014, l’antenato dell’attuale Erasmus+, e che allora era alla sua ultima edizione.

Dico questo perché il programma di Life Long Learning verso cui era indirizzato il Comenius non c’entrava affatto con il mondo universitario, essendo rivolto esclusivamente a quello scolastico. Insomma, non era quanto stavo cercando, tanto più che io nella scuola non ci volevo entrare, non ero adeguata, sentivo che non era la mia professione. Eppure, ho deciso di fare l’application, curandola anche con un certo zelo. Sarà stato forse per quella storia dell’“ultima edizione”; una sorta di reattività escatologica (si intenda l’aggettivo in senso prettamente letterale); una psicologia da last minute cui ci hanno assuefatto, al limite della dipendenza, il precariato e l’inferno di bandi, concorsi e deadline cui siamo precipitati il minuto immediatamente successivo al conseguimento del titolo di Dottore di ricerca. Anche io, del resto, come il Comenius, ero “alla mia ultima edizione”, essendo il bando diretto a docenti non di ruolo che non avessero superato il trentesimo anno di età. Io ero una tirocinante (il Tfa era cominciato da appena due mesi), la docenza di ruolo si può dire che non sapevo nemmeno cosa fosse; e stavo entrando nel mio trentesimo anno di età. Tutto combaciava perfettamente. Nell’application non ho espresso nessuna preferenza circa la destinazione, sottolineando che la cosa più importante per me erano le materie che sarei andata a insegnare: italiano, latino e teatro. Non volevo finire in mete che suonavano, come dire, più tradizionali (la Spagna, l’Inghilterra o la Francia per esempio) a insegnare, poniamo, geografia o storia. Volevo essere scelta esclusivamente per le mie competenze disciplinari; il dove non era altrettanto rilevante. La selezione per il Comenius 2013-2014 (non semplice da superare: 150 su migliaia di candidati) sarebbe durata nove mesi. A giugno 2014, durante una delle ultime lezioni del Tfa, apprendo per email la notizia che la mia domanda era stata accettata: mi avrebbero fornito una borsa per il periodo da me richiesto, ovvero nove mesi, il massimo previsto. Ricordo ancora la mia reazione alla notizia: una strana gioia, come di liberazione: potevo cominciare a pianificare la mia fuga. Dove sarei finita, me l’avrebbero comunicato nelle settimane a seguire. Nel frattempo sostengo l’esame finale del Tfa, mi abilito alla professione di docente e parto per l’Irlanda per due settimane, a insegnare teatro. Al mio ritorno, trovo una lettera dell’Indire: destinazione Lituania. Sono partita per Alytus (una piccola città della Džūkija, la regione più a sud della Lituania) nell’ottobre del 2013. Per nove mesi ho insegnato, in inglese, italiano latino e teatro presso la scuola secondaria superiore “Putinų Gimnazija”. Non avevo idea di cosa avrei trovato lì, non sapevo – mea culpa – quasi nulla delle Repubbliche baltiche, tantomeno della loro realtà linguistica. Per esempio, che il lituano appartenesse, insieme al lettone e all’antico prussiano, al ceppo baltico dell’indoeuropeo lo sapevo perché l’avevo studiato all’università, ma non mi ero mai soffermata realmente sulla questione. E dire che in seguito la cosa sarebbe diventata per me della massima importanza. Ma allora, come immaginarlo? La differenza tra slavo e baltico se ne stava da qualche parte nella mia testa in modo puramente teorico. Presto, però, avrei scoperto la funzione centrale dell’esperienza nel processo cognitivo: dopo appena due settimane trascorse ad Alytus, quelle che all’inizio mi erano suonate come voci irriconoscibili di una stessa melodia, il russo e il lituano, hanno cominciato a distaccarsi sempre di più, fino a diventare due entità del tutto distinte. Reagendo a un impulso di pura sopravvivenza (ad Alytus, esclusi gli studenti e qualche collega, nessuno parlava inglese), in nove mesi ho appreso la lingua locale. Intanto Romano Luperini, che era stato mio tutor negli anni del Dottorato senese, sapendo che mi trovavo in Lituania mi aveva consigliato di andare a Vilnius, nella capitale, a conoscere la Direttrice dell’Istituto italiano di cultura, attualmente l’unico operante in area baltica. Ho preso contatti con la dott.ssa Paola Cioni nel dicembre del 2013. A gennaio 2014 io e la dott.ssa abbiamo avuto un primo colloquio. Alla fine di quello stesso mese, avrei cominciato a tenere il mio primo corso di lingua italiana: livello A1. Viaggiavo tre volte a settimana tra Alytus e Vilnius (il mio periodo di assistentato Comenius sarebbe finito solo alla fine di maggio 2014). È stato durante questi mesi che sono entrata in contatto con il mondo accademico vilnense, nell’ambito del quale ho scoperto, a sorpresa devo dire, che il settore dell’Italianistica era molto attivo, e aveva bisogno di docenti; non solo, ma all’Università di Vilnius si era in procinto di inaugurare un nuovo Corso di laurea: Filologia italiana, attivo a partire dal primo settembre 2015. Un po’ come ritrovarsi a casa propria; una casa che aveva ancora delle stanze vuote, e per le quali era in cerca di inquilini. Scioccante, per un dottore di ricerca in fuga dallo stallo lavorativo ed economico del mondo accademico italiano. In cinque anni di liceo non avevo mai còlto in maniera così precisa che cosa gli antichi greci intendessero per kairos. Semplicemente, mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, e il caso aveva avuto una grande parte in tutta la vicenda. Al termine del mio assistentato Comenius avrei dovuto scegliere: tornare in Italia oppure firmare un contratto annuale come Italian lecturer presso la Facoltà di Filologia dell’Università di Vilnius. Ho pensato di firmare quel contratto, trasferirmi nella capitale e vedere come sarebbe andata. A oggi la mia avventura lituana continua, e mi vede docente di lingua e letteratura italiana sia a Vilnius che presso il Dipartimento di Germanistica e romanistica dell’Università “Vytautas Magnus” di Kaunas, nell’ambito del Corso di laurea in Italianistica e lingue romanze, il quale si trova già al suo quinto anno di attività.

Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?

Non credo di sbagliarmi né di offendere nessuno, affermando che una delle differenze più vistose tra gli atenei italiani e quelli esteri sia un certo squilibrio tra didattica e ricerca in favore della prima. È un aspetto che avevo notato già in occasione di un visiting presso il Dipartimento di Italian Studies dell’Università di Toronto: fuori dall’Italia il carico di lezioni appare più pesante, in modo particolare per chi è agli inizi del cursus accademico. Nel caso specifico, in effetti la didattica occupa una parte decisamente eccessiva della mia settimana lavorativa. Si va dalle 18 alle 23 ore settimanali solo di lezioni frontali, teoriche e pratiche: più di una cattedra scolastica. Va aggiunto poi che la retribuzione non è affatto proporzionale allo sforzo; ma questa è un’altra storia. Il risultato è che mi trovo, nonostante i fine-settimana e le ferie sistematicamente sacrificati, a convivere e a lottare costantemente con la spiacevole sensazione di non dedicare abbastanza tempo allo studio e alla ricerca, nonché con il timore di un abbassamento qualitativo, prima ancora che quantitativo, dell’attività scientifica e della produzione saggistica. Uno stato d’animo, ho avuto modo di appurare negli ultimi due anni, che pare ci accomuni tutti, noi italianisti all’estero, e la cosa, va da sé, mi consola (oltre a farmi venire in mente banalità del tipo “l’unione fa la forza”, “di necessità virtù”, ecc.). Tornando al mio ateneo, spesso ho come l’impressione che si tenda a distinguere in modo troppo netto tra il didatta e il ricercatore, che ci si aspetti dal primo una funzione sostanzialmente pratica, e che manchi una prospettiva generale volta ad agevolare la creazione, all’interno di uno stesso soggetto, di un rapporto più equilibrato tra le due figure.

Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?

Nell’estate del 2014 sono stata coinvolta nel progetto interuniversitario Memorata Poetis, un Prin nazionale finanziato dal Miur e dedicato alla creazione di un archivio digitale di testi poetici antichi, tardo-antichi e medievali appartenenti alle tradizioni greca, romana e del volgare italiano, ai quali si aggiungono componimenti in lingua araba e, appunto, lituana. Si è trattato dunque, per quanto mi riguarda, di selezionare, digitalizzare, tradurre e marcare per temi un corpus tratto dalla vastissima, affascinante tradizione delle dainos, i canti popolari lituani, le cui radici si perdono nei secoli, ma che risulta ancora oggi molto vivace, nonché strettamente legata alla cultura orale. Questo la dice lunga su come la permanenza in Lituania abbia aperto alla mia ricerca strade altrimenti inimmaginabili. Come ho già detto, l’approdo alla città di Alytus, in una situazione limite, mi ha “costretto” a un apprendimento del lituano. Ciò mi ha invogliato successivamente a un approfondimento grammaticale condotto presso il Dipartimento di Studi lituanistici dell’Università di Vilnius, nella stessa Facoltà di Filologia dove lavoro. In effetti, a rischio di “macchiare” il mio profilo scientifico, come si tende a dire in Italia, da quando sono qui ho inaugurato un filone alternativo e parallelo di studi di orientamento linguistico, che vivo (mi si conceda l’espressione un po’ trivial) come un amante, tutt’altro che compiacente, da affiancare al compagno di una vita: la letteratura. Se ripercorro gli ultimi due anni del mio percorso scientifico, oltre ai miei abituali studi di teoria e critica letteraria, attualmente focalizzati sul modernismo italiano ed europeo del primo Novecento, e in particolare su Italo Svevo, Giacomo Debenedetti e Tommaso Landolfi, posso notare pubblicazioni e relazioni a convegni che affrontano temi di cui mai avrei immaginato mi sarei occupata: dalla grammatica contrastiva italo-lituana: penso alla relazione presentata a settembre 2015 a Craiova, in occasione di un convegno-inchiesta sullo stato dell’Italianistica all’estero; alla traduttologia: penso a un mio recente saggio sulla Coscienza di Zeno in lituano; alla poesia popolare lituana: penso al mio coinvolgimento nel sopracitato progetto interuniversitario Memorata Poetis, così come a uno dei miei ultimi interventi nell’ambito di un convegno sulla traduzione poetica tenutosi lo scorso aprile a Varsavia. In quel frangente la mia relazione era incentrata sulla prima e unica traduzione italiana (Morici 1925) di un corpus tratto dalla smisurata tradizione delle dainos; e penso al primo saggio realizzato per uno dei Dipartimenti dove lavoro, sempre dedicato alla tradizione delle dainos lituane e alla traduzione di Morici (attualmente mi divido tra il Dipartimento di Traduzione e interpretazione e il Dipartimento di Filologia romanza dell’Università di Vilnius, ai quali si aggiunge, come ho già detto prima, il Dipartimento di Germanistica e romanistica dell’Università di Kaunas). In definitiva, posso dire che l’attività di ricerca di stampo letterario è interamente rivolta all’interlocutorio italiano, mentre a quello lituano sono piuttosto diretti gli studi di linguistica e traduttologia. Non so quanto simile sdoppiamento possa fare bene alla credibilità del mio curriculum scientifico. Ma mi trovo in Lituania da tre anni, insegno la lingua, oltre alla letteratura, e lavoro in tre Dipartimenti, due dei quali sono di Italianistica, il terzo è di Traduzione. Avevo necessità di dare un senso a questa molteplice realtà.

Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato?

Credo di poter individuare dei vantaggi che sono anche degli svantaggi; o meglio degli svantaggi che hanno il potenziale di rovesciarsi in sorprendenti vantaggi. Prima di rispondere ci tengo però a sottolineare che probabilmente il discorso che sto per fare dipende molto dal tipo di paese nel quale si vive, dal suo essere più o meno vicino alla lingua e alla cultura italiane. Da questo punto di vista la Lituania si pone un po’ come un territorio di confine, in bilico tra l’Ovest, l’Est e il Nord, con tutto ciò che ne consegue in termini culturali. Dunque, in prima analisi il sentirsi continuamente un outsider da una parte porta ad approcciarsi al lavoro e alle persone in un modo diverso rispetto a quanto accadrebbe nel proprio paese; dall’altra porta gli studenti a percepire il madrelingua in modo diverso rispetto ai docenti degli altri corsi dei loro piani di studio. Insomma, l’italianista all’estero è uno straniero che parla una lingua altra, e che insegna a parlare e a leggere testi in una lingua altra. Questa condizione di partenza comporta tutta una serie di conseguenze di tipo interpersonale e professionale. Interpersonale, perché pone due culture a stretto contatto, permettendo una conoscenza reciproca che va al di là del programma di studi. Sento spesso gli studenti far riferimento a un non ben definito concetto di “italianità”, cui guardano con sentimenti misti, tra la curiosità e il timore, il fascino e la diffidenza, e che, a quanto posso capire, coinvolge la prossemica, il modo di muovere gli occhi, di gestire lo sguardo, di usare le mani, il modo di vestire, di sedersi, il timbro e il tono della voce, l’impostazione delle lezioni offerte: dei tratti che gli studenti devono percepire come sensibilmente diversi rispetto a quanto erano stati e sono abituati. Passando alle conseguenze di tipo professionale, queste riguardano in varia misura sia la didattica che la ricerca. Nel primo caso, il modo di presentare la letteratura inevitabilmente si trasforma, e non solo in risposta a una necessità di semplificazione dei contenuti (tra gli studenti e il docente, non va mai dimenticato, esiste una barriera linguistica che non si può ignorare, e che anzi bisogna costantemente pensare ad abbattere, supportando la comprensione con tutti i mezzi possibili); ma anche perché il rapporto con i testi cambia in modo sostanziale. Prima di essere traslatori di idee storiche, filosofiche e culturali, infatti, i testi si fanno dispositivo di apprendimento metalinguistico, senza mai abbandonare questa peculiarità (l’acquisizione di una lingua straniera è un processo potenzialmente infinito). Inoltre, l’interferenza della lingua materna o addirittura di lingue veicolari comporta l’assunzione da parte del lettore di una forma mentis di tipo traduttologico, apportando al processo di interpretazione testuale un sistema di filtri diegetici che un madrelingua non percepisce. Quella della traduzione è una “condanna” (uso il termine con tutta l’ironia e la bonarietà possibili) dalla quale, vivendo e lavorando all’estero, non si può sfuggire. Ma, prima ancora che con la traduzione, bisogna fare i conti con “il rischio”, sempre dietro l’angolo, di insegnare insieme alla letteratura anche la lingua, quella šiuolaikinė kalba (lingua contemporanea) e gli ancora più temibili linguaggi settoriali economico, giuridico e politico che si può dire costituiscano lo spauracchio degli italianisti all’estero. Questa volta, quando parlo di “rischio” lo faccio purtroppo senza alcun intento ironico, perché riconosco nell’insegnamento della lingua una tra le principali fonti di stress del mio lavoro di italianista all’estero. Non mi sono formata per insegnare italiano agli stranieri. La didattica LS è una disciplina specifica, e il semplice fatto di essere madrelingua non basta a fare di me una buona insegnante; senza contare che non è quello che voglio. Oltre tutto, per insegnare una lingua contemporanea bisognerebbe possedere un’ottima padronanza dell’orizzonte linguistico di arrivo, così da poter trovare le strategie didattiche più adeguate al contesto specifico e facilitare il processo di apprendimento. Voglio dire, cose significa “insegnare l’italiano agli stranieri?”. Nulla. È necessario invece porsi nell’ottica di insegnare l’italiano agli anglofoni, ai sinofoni, ai baltofoni, e via dicendo. Trasmettere una lingua fusiva a prevalenza analitica come la nostra a studenti abituati a una lingua altrettanto fusiva ma a prevalenza sintetica com’è appunto il lituano, è un’impresa ardua, oltre che poco utile. Insomma, mi rendo conto, dalla serenità priva di ansie e dalla passione con cui mi approccio alla pianificazione dei corsi di letteratura, che se resto nel mio campo posso fornire un contributo di gran lunga superiore, e sentirmi a mio agio anche come docente, non solo come studiosa. A proposito di questo, c’è poi da considerare l’aspetto della ricerca, che costituisce un capitolo a sé. Vivere all’estero complica sensibilmente l’accesso alle fonti, e costringe a tutta una serie di arrangiamenti e stratagemmi che privano lo studio della calma di cui esso ha bisogno per vantare almeno un minimo di serietà; ma con ciò mi sembra si passi già alla domanda successiva. Tornando alla presente, invece, direi che ci sono due modi per reagire alla condizione di outsider che ho appena illustrato: accanirsi su sé stessi con domande del tipo “chi me lo fa fare, ma che sto facendo, perché non me ne torno in Italia, sì ma poi in Italia che faccio?”, lasciandosi sopraffare dall’angoscia; oppure cercare di gestire le crisi esistenziali e lavorative (e le crisi, per quanto mi riguarda, ci sono state e continueranno a esserci, a presentarsi in numero consistente e ciclico, come credo sia normale) in modo costruttivo, facendo leva proprio sulla nostra condizione di outsider. Eccolo, dunque, il vantaggio culturale del vivere all’estero: l’urgenza di dare al proprio lavoro un senso che finché si era in Italia si dava per scontato, ma che una volta fuori dall’Italia finisce col diventare un bene primario. La scommessa è accettare il rischio di trasformazione del proprio profilo accademico che tale ricerca di senso inevitabilmente comporta. Ora, c’è da dire che da quando vivo in Lituania il mio approccio scientifico non è cambiato: era e resta un approccio di tipo teorico alla letteratura, e che conferma i suoi principali punti di riferimento. Tuttavia, come ho già illustrato, vivendo e lavorando all’estero le mie aree di interesse si sono ampliate, e mi piace pensare che ciò sia accaduto in virtù di un processo organico intrinseco a ogni incontro antropico-culturale con l’altro. invece, a dire la verità (come posso e per quanto sia possibile) devo ammettere ulteriori motivazioni alla base di questo ampliamento prospettico. Curiosità intellettuale, certo; ma anche sopravvivenza, «misura d’igiene». Procedendo banalmente per citazioni trite, si tratta di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Parafrasando Calvino e “sacrificandolo” al riuso, si tratta di lavorare con il mio hic et nunc (čia ir dabar, dicono i lituani), trasformarlo in qualcosa di vero, in un’esperienza vissuta che sia attuale, che abbia un senso e sia implicata e utile per me e per gli studenti in gran parte lituanofoni (ma se ne contano anche molti la cui prima lingua è il russo o il polacco) con i quali mi trovo a lavorare e ai quali offro un servizio. La domanda che mi sono posta era sin troppo semplice: chi sono e dove mi trovo? Nessuna nota esistenziale, ma una presa di coscienza concreta, una ricognizione di sé e della propria posizione geografica. La risposta, ancora più semplice: sono un’italianista che dall’ottobre del 2013 vive in Lituania, e che ci resterà ancora; almeno così pare. Ho capito, allora, che la cosa più giusta da fare era ricorrere alla strategia del cedimento, lasciare cioè che la schietta fattualità (io italianista in terra baltica) avesse delle conseguenze sulla mia fisionomia intellettuale, modificandola un po’. Da dove partire? Dall’inizio: cibo e lingua. Dopo, la vita e la gestione delle crisi lavorative sarebbero state più facili. Sullo sviluppo patologico di un’ossessione di tipo purista, con associato un impulso automatico e irrefrenabile all’intervento correttivo, specie di ausiliari in combinazione con verbi modali, nonché di congiuntivi e concordanze temporali, si può anche soprassedere.

Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?

Sicuramente la permanenza all’estero ha incrementato l’utilizzo delle risorse online. Non mi riferisco solo a saggi o monografie reperibili sul web, ma anche a strumenti come siti e blog critici e letterari, che finché vivevo in Italia consultavo in misura sicuramente minore. Se penso a una mia recente pubblicazione, una monografia di teoria della narrazione realizzata a quattro mani con una collega storica, mi rendo conto che mai come in quei mesi sono dovuta ricorrere al supporto della rete. Vivendo all’estero non si ha sempre il tempo, tanto meno la lucidità mentale di gestire e programmare i propri viaggi anche in funzione delle esigenze bibliografiche. Poniamo il caso che io stia lavorando a un saggio o a una monografia, e che all’improvviso mi renda conto di aver bisogno di quel determinato libro, foss’anche solo per la verifica di una citazione, o per controllare quel maledetto numero di pagina che non mi ero segnata per tempo. L’ipotesi di andare in biblioteca e magari cavarsela con un interbibliotecario non è ovviamente tra le più realizzabili. Bisogna pertanto, “auerbachianamente” azzarderei, sviluppare l’ingegno; oltre che il network. In questo senso la rete, intesa anche come rete di contatti umani reali e non solo virtuali, svolge un ruolo fondamentale. Dal mio punto di vista, è stato anche un modo per abbattere un certo pregiudizio che, finché mi trovavo in Italia, continuavo, forse in modo neanche troppo consapevole o razionale (una specie di superstizione religiosa legata alla carta: “ma vuoi mettere il contatto con un libro vero?”; superstizione che, tuttavia e nonostante tutto, in un modo o nell’altro persiste); dicevo, un certo pregiudizio che continuavo a nutrire nei confronti degli strumenti online, lasciandomi così preclusa la grande occasione di aggiornamento in tempo reale che in effetti internet, se usato con le giuste strategie, permette rispetto al dibattito critico contemporaneo. Indispensabile, insomma, per chi non vive più in Italia, ma continua a lavorare a stretto contatto con la sua comunità accademica e culturale, si trovi questa in loco o, a sua volta, sparso per il mondo. Senza contare che, con la sua consistenza liquida e massimamente precaria, la rete offre una mimesi perfetta della realtà attuale, e in particolare della nostra realtà di italianisti all’estero, trapezisti in equilibro tra un ryanair acchiappato al volo, un rinnovo di contratto e la pubblicazione di bandi, abilitazioni nazionali o new academic positions sempre da tenere sott’occhio. Menzionerei inoltre l’importanza di una partecipazione assidua ai convegni. Cerco di seguirne almeno quattro all’anno, uno per stagione, certo stando attenta a non rimanerne schiacciata: è uno dei modi migliori che ho per tenermi aggiornata sul dibattito italiano così come su quello europeo, e per non perdere i contatti con i colleghi (e ormai amici), sia quelli che lavorano in Italia, sia quelli che, come me, si trovano all’estero. Passando alle fonti bibliografiche, sia le biblioteche del polo universitario che la Nazionale di Vilnius, oltre a essere di per sé sufficientemente fornite, comprendono al loro interno sezioni di non trascurabile entità dedicate all’Italianistica, ma vanno sottolineati un certo ritardo nell’aggiornamento e una discrepanza tra il numero delle fonti di area linguistica e traduttologica, di gran lunga superiore, e il numero delle fonti di critica e teoria del romanzo, meno soddisfacente. C’è poi la biblioteca dell’Istituto italiano di cultura, che offre un aiuto davvero prezioso per la bibliografia primaria, con una disponibilità che copre soprattutto i secoli diciannovesimo e ventesimo. Inoltre, grazie alle numerose attività e agli eventi letterari, l’Istituto di cultura permette un aggiornamento permanente e significativo sullo stato della letteratura italiana, nonché sul dibattito contemporaneo. A ogni modo, voglio finire con un aneddoto che credo sia fortemente rappresentativo della questione “risorse bibliografiche”. Sabato 4 giugno 2016, aeroporto di Vilnius, direzione Roma Ciampino. Dopo i fatti di Bruxelles i controlli si sono fatti più severi. Mi si chiede di aprire il trolley (l’insostituibile prolungamento dell’arto destro – o sinistro, a seconda dei casi – di uno studioso precario che vive all’estero) per un’ulteriore verifica. Eseguo con movimenti distratti e meccanici: sono le otto del mattino, sono solo al mio primo caffè e ho sonno. L’uomo della sicurezza si trova di fronte a una valigia piena di libri, e neanche un vestito. Che so, non dico il pigiama, tanto quello lo si dimentica sempre, ma almeno un paio di pantaloni, una maglia, due o tre calzini, la biancheria intima! Niente. Alza lo sguardo su di me e sembra perplesso. A casa in Italia ho tutto, non mi serve niente, penso restituendogli lo sguardo, e così rispondo senza parole a una domanda non pronunciata. Che poi, chissà, magari lui non ci aveva fatto neanche caso, a quel mucchio di tomi. Magari non aveva pensato a niente. Forse mi guardava perché avevo le occhiaie. Forse neanche mi guardava. Il fatto è che me ne sono accorta io. Voglio dire, non che non sapessi che il mio trolley fosse pieno di libri, ma in quel momento è stato come riaprire gli occhi al sole dopo averli tenuti chiusi: il leitmotiv che da un paio di anni connota i miei viaggi sono i trolley pieni di libri e i prestiti rigorosamente scaduti con le biblioteche di mezza Italia.

L’esperienza che stai vivendo ti ha influenzato nella lettura di alcuni fenomeni contemporanei? Penso soprattutto all’enorme questione dei migranti che giungono in Europa dal Sud o dall’est del mondo?

È ovvio che, in qualità di espatriata, io mi ponga con occhi diversi rispetto al tema generale della migrazione. A questo proposito, per esempio, non posso evitare di ricordare l’incubo del permesso di soggiorno, da rinnovare ogni anno, una volta firmato il contratto di lavoro e ottenuta la mia copia, da portare all’ufficio immigrazione e sventolare come una bandiera. Il mio incubo personale ricorre alla fine di agosto, perché il contratto universitario scade il 31, con rinnovo a partire dal 1 settembre. Mi rendo conto che può risultare strano parlare di permesso di soggiorno, visto che la Lituania è membro dell’Unione europea (per quanto negli ultimi mesi lo stesso concetto di Europa stia rischiando di diventare drammaticamente fragile). Non che alla scadenza del permesso si è costretti per legge a tornare nel proprio paese, sia chiaro. La permanenza in Lituania per i cittadini europei resta illimitata. Insomma, uno potrebbe fare il turista a vita. Ma il fatto è che bisogna essere registrati per ottenere un numero personale, equivalente al nostro codice fiscale, senza il quale in Lituania non puoi lavorare, non puoi aprire un conto in banca, non puoi usufruire della sanità pubblica, che è totalmente gratuita, non puoi, che so, avere un contratto telefonico, ecc. E, per registrarsi, bisogna andare all’ufficio immigrazioni e ricevere un foglio in cui si attesta che hai il permesso, nonché il diritto/dovere di vivere, lavorare e pagare le tasse allo Stato lituano. Tuttavia, finché non ti iscrivi all’Aire, il registro degli italiani residenti all’estero, mantieni la copertura sanitaria nel tuo paese. Sono procedure un po’ macchinose con le quali spesso i lituani stessi non hanno dimestichezza, e ciò chiaramente complica le cose. Ma, del resto, anch’io non saprei esporre con sicurezza le leggi rivolte agli stranieri che vivono e lavorano in Italia. Anzi, ricordo che quando facevo il Dottorato, pur avendo un contatto assiduo con ragazzi provenienti da paesi esteri, comunitari e non, non mi ero mai concretamente soffermata sul problema della legislazione italiana in materia. Oggi, in ragione della mia esperienza, vi porrei forse più attenzione. Comunque, le giornate trascorse all’ufficio immigrazioni hanno un potere straniante non indifferente. Ci si sente in netta minoranza, tra folle di immigrati a prevalenza slava (e qui è bene ricordare ancora una volta che i lituani, insieme ai lettoni, sono baltici, non slavi), folle tra le quali la lingua franca resta perlopiù il russo, a fronte di 25 anni di libertà dal regime sovietico e nonostante la progressiva diffusione dell’inglese, in crescita specialmente tra le nuove generazioni. Non c’è che dire: è un ottimo strumento per moderare la spocchia occidentalista della vecchia Europa (perché questa spocchia, mi si dica pure di no, esiste e persiste, e mai come ora che vivo ai confini tra Eu e non Eu me ne sto rendendo conto). Quanto ai migranti che giungono dal Sud o dall’Est del mondo, qui il problema appare, come dire, molto meno tangibile, perché il loro numero è irrisorio, tanto più se si esce da Vilnius e da Kaunas, che sono in ordine di grandezza la prima e la seconda città della Lituania (Kaunas ne è stata anche la capitale tra il 1920 e il 1940, durante il ventennio della prima Repubblica). Ma, più in generale, la Lituania è un paese in cui il fenomeno dell’immigrazione presenta percentuali non troppo elevate, ed è tragicamente battuto da quello dell’emigrazione. Tralasciando il caso di Vilnius, città cosmopolita eccezionale, un unicum all’interno dello Stato lituano, fuori dalla capitale quello che uno straniero nota subito è l’assenza pressoché totale di gente di colore o “con gli occhi a mandorla”, alla quale noi siamo invece così abituati. Voglio dire, se già l’italiana appariva esotica alla gente di Alytus, gli studenti africani, indiani e turchi che studiavano presso il Collegio di scienze applicate, un istituto di istruzione terziaria non universitaria, facevano addirittura leggenda. Ad ogni modo, il mio stato di italianista all’estero, gli ostacoli che l’essere stranieri l’una rispetto agli altri pone a me e ai miei studenti, ma in misura ancora maggiore il periodo di totale incomprensibilità che mi sono trovata a gestire durante i primi mesi trascorsi ad Alytus, e che mi ha resa protagonista di un processo di apprendimento spontaneo della lingua lituana; tali fattori mi spingono a considerare la questione migranti soprattutto da un punto di vista linguistico-comunicativo. A questo proposito, ho accolto molto positivamente il lavoro di alcuni colleghi del Dipartimento di Traduzione e interpretazione dell’Università di Vilnius, i quali propongono una nuova figura di interprete come tramite culturale, artefice indispensabile di un pronto intervento comunicativo, prelinguistico prima ancora che linguistico, tra le popolazioni migranti e i paesi accoglienti.

Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?

Lo scorso 27 giugno si è tenuta la cerimonia per la consegna dei diplomi del Bakalauras, la laurea di primo livello prevista dal sistema universitario lituano. Niente di particolare: un evento che ricorre ogni anno; solo che questa volta è capitato esattamente il giorno successivo al Brexit. Devo dire che quando è partito l’inno europeo a segnalare l’apertura della celebrazione, ho provato una strana sensazione, una specie di gusto amaro in bocca. L’inno risuonava quasi ironico, mentre noi docenti facevamo il nostro ingresso nella cappella universitaria, in fila dietro la bandiera dell’ateneo. Faccio un paio di passi indietro. La Lituania è entrata nell’Unione Europea nel 2004, quattordici anni dopo la liberazione dall’Urss. Nell’ottobre del 2013 (io ero da poco arrivata ad Alytus), al termine di una giornata di accoglienza e orientamento, la delegazione lituana ha accompagnato i 4 assistenti Comenius 2013-2014 (un’italiana, due turchi e una portoghese) a fare un giro turistico per Vilnius. Non era la prima volta che vedevo la capitale: c’ero già stata in gita con alcuni colleghi e studenti della scuola di Alytus nella quale stavo prestando servizio. La presidentessa della delegazione (mi sembra si chiami Jurgita, ma non ricordo bene) ci ha portato, tra gli altri posti, al Pinigų Muziejus, il Museo dei soldi. È stato allora che ho visto il modello di euro lituano: una moneta molto simile alla litas, la valuta allora in uso, raffigurante, proprio come sulla litas e senza alcuna differenza di foggia, il granduca Gediminas a cavallo. Gediminas è stato il primo granduca di Lituania, e, secondo la leggenda, il fondatore di Vilnius. La sua immagine troneggia ovunque, qui. Jurgita (posto che si chiami così) ci ha spiegato che quel modello esisteva ormai da cinque (o erano di più?) anni, ma per un motivo o per un altro al Seimas, il Parlamento monocamerale lituano, non si riusciva a raggiungere un accordo circa l’ingresso della Lituania nella zona euro. Passano pochi mesi da quella visita, e scoppia la crisi ucraina. A ripensarci, la reazione a caldo dei miei colleghi di scuola mi lascia ancora incredula. Continuavano a dire che sarebbero tornati i russi, e che li avrebbero di nuovo assoggettati tutti. Difficile per me cogliere una qualche razionalità in quella paura concreta, solida, tangibile che trasudava dal popolo lituano. Qui siamo in Europa, non è come in Ucraina, non potrebbe succedere niente di simile: ragionate, mi ostinavo a ripetere. Niente da fare. Tu non sai, tu non hai visto, tu non hai vissuto, mi rispondevano. Putin si vuole riprendere la Lituania. E alla Merkel di noi non importa niente. Vedrai, vedrai. Stentavo a crederci. Non capivo se fossero esagerati loro, in particolare le generazioni dai quarantenni in su, memori dell’incubo sovietico ed evidentemente ancora vittime dei propri fantasmi storici; o incapace io, che di quell’incubo non avevo la benché minima esperienza, di cogliere il vero senso delle cose. Risultato: dal primo gennaio 2015 l’euro lituano smette di essere un pezzo da museo per farsi moneta attiva nelle tasche della gente. Prezzi in rialzo, stipendi stazionari. La vita di tutti i giorni si fa più difficile, aumentano i senzatetto: prima per strada ne vedevi giusto un paio, ora ti sembrano almeno raddoppiati. Sei stato cieco prima, o qualcosa è davvero cambiato, e in modo così repentino? Le persone escono meno, i locali sembrano vuoti, andare a cena fuori ormai è impensabile, una roba da ricchi, dicono; anche a fare la spesa spendi il triplo (1 euro = 3.50 litai, suppergiù) per comprare gli stessi prodotti di sempre. È la percezione di tutti: lituani e stranieri domiciliati o residenti, compresi i non pochi italiani che vivono qui. Comunque, una cosa è certa: al di là dell’inflazione a causa del cambio sfavorevole, al di là della crisi economica (ma c’era da aspettarselo), la Lituania sente di aver fatto un passo importante in funzione anti-russa. L’11 marzo del 2015 si sono celebrati 25 anni di indipendenza. In quell’occasione la presidentessa Dalia Grybauskaitė ha affermato: «la minaccia russa non è estinta». Un mese prima, il governo aveva deciso di reintrodurre la leva maschile obbligatoria, che era stata abolita nel 2008. È ripartita lo scorso settembre, e pare che durerà per i prossimi cinque anni. Intanto un primo scaglione di 3.000 uomini tra i 19 e i 27 anni ha già portato a termine i nove mesi stabiliti dalla legge. Continuo a non comprendere quanto una tale allerta sia fondata oppure no. Un difetto esperenziale, il mio, forse il sintomo di una distanza culturale. Una cosa però sono arrivata a comprenderla, e credo si tratti di una verità importante: qui Europa vuol dire protezione, speranza, futuro. Qui Europa vanta un significato veramente forte e pregnante, che comporta risvolti sociali, identitari e antropici, non solo meramente economici. Uno schiaffo morale per quanto sta succedendo negli ultimi mesi. Non mi riferisco solo alla scelta dei britannici. Mi riferisco anche alla retorica sul concetto di europeismo di cui si sta facendo un uso forse eccessivo, al fine di rifare il trucco alla struttura economica che regge l’Ue. Una retorica tutto sommato giustificabile e al limite condivisibile, non dico di no. Ma, al di là della mia incomprensione e lontananza storico-culturale, al di là della percezione, e me ne scuso qualora essa dovesse essere inesatta o motivo di disappunto, di una lieve esorbitanza in tutto questo allarmismo anti-russo, di fronte alla forza concreta che in Lituania sta rivestendo il concetto di Europa unita, la suddetta retorica si polverizza senza lasciare traccia. D’altra parte, imbarazza notare come, andando oltre le contingenze e scavando più in profondità, agli occhi di noi “europei di vecchia data” certi significati non solo si siano indeboliti, ma sembra vengano addirittura destrutturati, quando non rifiutati a causa di un generale stato di paura che tende sempre più alla xenofobia e a preoccupanti movimenti reazionari di destra. Il tragico, poi, è che giudicare questi atteggiamenti quali semplici espressioni di razzismo, chiusura e involuzione culturale non porta da nessuna parte, e non aiuta a cogliere a pieno la realtà drammatica in cui ci troviamo invischiati, tra precariato integrale e pandemico, povertà dilagante, disgregazione politica, terrorismo e immigrazione di massa. La complessità storica che ci è esplosa tra le mani è di proporzioni inaudite. È qui che si accende una piccola luce: forse il destino di noi studiosi affetti da precariato cronico, quelli nati negli anni Ottanta, cresciuti in pieno postmoderno, ecc.; il nostro destino è quello dei contrabbandieri. La nostra missione: trafficare lingue, culture, speranza e ideali ai confini dell’Europa.

In quale senso la condizione dell’espatrio può essere umanamente, socialmente e culturalmente produttiva oppure improduttiva?

Innanzitutto sono persuasa del fatto che, qualora si verificasse un qualsiasi stato di improduttività, sia questa di tipo personale, sociale o culturale, la condizione dell’espatrio dovrebbe essere interrotta, perché non avrebbe alcun senso costringersi a una vita all’estero senza che ci sia un ritorno significativo per sé in relazione agli altri e viceversa. Posta dunque la produttività come condizione necessaria e sufficiente alla vita all’estero, la mia risposta è: la condizione dell’espatrio può essere produttiva solo se si impara a fare come gli ingegneri costruttori di ponti. Mi spiego. “Da grande” volevo fare ricerca, appartenere al famigerato mondo di Academia. Ora che grande lo sono, mi ritrovo sul fronte privato a lottare per tenere in vita, nei periodi più o meno lunghi di bonaccia tra una tempesta didattica e l’altra, quello che resta il mio primo amore: la ricerca letteraria; e sul fronte pubblico a gettare ponti interpersonali tra me e i lituani. Ponti che, al di là del mio volere, delle mie passioni e delle mie aspirazioni professionali, sono soprattutto linguistici; perché per fare in modo che degli studenti stranieri possano leggere i testi della letteratura italiana, bisogna prima insegnare loro l’italiano, la spaventosa (per me, l’ho già spiegato prima) šiuolaikinė kalba. Mi viene in mente una studentessa del primo anno all’esame finale di italiano dello scorso semestre primaverile (e “primo anno” significa che arrivano da te che di italiano sanno sì e no tre o quattro espressioni, le solite: ciao, pizza, espresso, arrivederci, bravo bravissimo, finita la commedia). – Allora, K., come reagisce Renzo quando capisce che Lucia è contraria al matrimonio a sorpresa? – Dunque, lui le ha detto… le… pronome diretto, sì? – Sì. – Gerai (bene). Allora, lui le ha detto che basta, quel matrimonio s’aveva da fare –. Consecutio temporum, indiretto libero e citazione d’autore rielaborata, tutto in un colpo solo. Sono scoppiata a ridere di gusto. Quando dallo zero assoluto gli studenti iniziano gradualmente a parlare, poi a leggere, scrivere, produrre e, alfine, financo a interpretare, allora senti che stai facendo qualcosa di buono; anche se non l’avevi cercato; anche se ti è capitato nella vita quasi come un’imposizione, un fio da pagare per non sai bene che cosa; anche se non è l’attività di ricerca per la quale smani e la cui croce ti assumeresti sulle spalle per tutta la vita, e neppure ti sembrerebbe una croce, tanto sei persuaso. Ma così è. Questo è il volto che offre il presente. Chiudere gli occhi non si può, sarebbe un atto criminale. Apparteniamo alla generazione dei precari integrali, quelli nati negli anni Ottanta, cresciuti in pieno postmoderno e maturati nell’iperrealtà. Il lusso della purezza, della coerenza e della profondità della ricerca evidentemente non è stato pensato per noi. Va bene, incassiamo il colpo, costruiamo ponti e, camminandoci sopra, andiamo avanti.

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