Perché leggere questo libro: Arcadia di Lauren Groff
Oggi inauguriamo una nuova rubrica: Perché leggere questo libro. L’obiettivo è segnalare opere della letteratura contemporanea più o meno note che, per motivi diversi, meritano di essere lette. Come farlo? Lasciando parlare direttamente i testi. Al centro, insomma, sta il testo letterario, e dall’incipit partiremo di volta in volta per spiegare perché ne suggeriamo la lettura.
Le donne che cantano, nel fiume.
È il primo ricordo di Briciola, sebbene all’epoca non fosse ancora nato. Nondimeno la strada che serpeggiava tra le montagne gli appare nitida, e così pure la sosta per riposarsi tra fiori gialli che si chiudevano al tocco dei bambini. Era il tramonto quando la Carovana vide il fiume inverdire lungo la curva e stabilì di fermarsi per la notte. Era una sera di primavera tinta di blu, faceva freddo.
Camion, pullman e furgoni si disposero in cerchio a ridosso dell’argine, come bisonti contro il vento; al centro il Pink Piper, l’autobus a due piani. Handy, il capo, si trovava sul tettuccio del Piper per rivolgere il saluto del sole al giorno morente.
Bambini nudi sfrecciavano ai margini dell’accampamento, la pelle irruvidita dai brividi. Gli uomini accendevano un falò, accordavano chitarre, cominciavano a preparare cene a base di frittelle e stufati di verdure. Le donne lavavano vestiti e biancheria nel fiume gelido, sbattendo i panni contro le rocce. Negli ultimi sprazzi di luce, sotto l’ombra sempre più scura delle loro ginocchia, la corrente scintillava di bolle di sapone.
La madre di Briciola, Hannah, si drizzò per sollevare un lenzuolo, sembrava stesse spelando la superficie dell’acqua. Era rotonda dappertutto: nelle guance, negli arti, nei capelli, nelle trecce che si chiudevano in un anello dorato. Il jeans della tuta da lavoro le si tendeva sul pancione, al cui interno si trovava Briciola, che, cellula dopo cellula, andava prendendo forma. Suo padre Abe si fermò sull’argine per guardare Hannah, che teneva la testa piegata, ascoltando le altre donne cantare, le labbra appena incurvate da un sorriso.
Più tardi gli aromi della cena furono coperti dal fumo, dall’odore di legno bruciato. Il fuoco avvampava contro il freddo. Ci fu ancora musica: Froggy Went A-Courtin cantata da Handy, famoso per la sua voce stridula, e poi Michael,Row the Boat Ashore, The Sounds of Silence. I panni che asciugavano sui cespugli erano come fantasmi ai confini di tanto spettacolo.
È impossibile che Briciola potesse ricordare tutto ciò: le settimane che precedettero la sua nascita, i tre anni prima di Arcadia, il 1968 che passava per radio, Khe Sanh e le Olimpiadi invernali di Grenoble, la Carovana che saltava da un posto all’altro del paese come un bambino che giochi alla campana, e quella sera, con la sua luce blu e il falò e lo spettrale baluginare delle lenzuola nell’oscurità. Eppure se ne ricordava. Il ricordo gli è rimasto appiccicato addosso, raccontato da Arcadia perché divenisse storia comune, raccontato tante di quelle volte da crescere nell’animo di Briciola finché quel ricordo non è diventato una storia sua. La notte, il fuoco, la musica, la schiena di Abe che tiene a distanza il freddo, Hannah che si appoggia alla fronte abbrustolita di Abe, e poi lui, Briciola, raggomitolato tra i genitori, avvolto nella loro felicità, felice.
da Lauren Groff, Arcadia, traduzione di Tommaso Pincio, Codice edizioni, Torino 2014.
Perché leggere questo libro?
Perché sa raccontare la nostalgia per le utopie perdute e per i sogni infranti
Arcadia, il secondo romanzo di Lauren Groff, pubblicato nel 2012 e subito amato dal pubblico dei lettori e dalla critica statunitense, è la storia di uno svelamento e di una caduta. Il protagonista è Briciola, «l’hippie più minuscolo che si sia mai visto», il primo bambino nato nella comune fondata negli anni Sessanta da un gruppo di beatnik: una sorta di insediamento utopico chiamato appunto “Arcadia”. Come gli altri bambini di Arcadia, nell’infanzia e nell’adolescenza Briciola conosce solo il microcosmo libero e deregolato della comune, basato sull’autarchia, sulla condivisione, sull’amore libero, sul rifiuto della civiltà, della tecnologia e del denaro, e sul carisma del leader-rockstar Handy. Tra assemblee di Critica Creativa, sedute giornaliere di yoga, coltivazioni di marijuana, meeting di nudisti, la quotidianità straniante di Arcadia potrebbe essere oggetto della satira divertita della Groff. Ma non c’è spazio per il riso. Il problema più urgente di Arcadia è la sopravvivenza. Soprattutto per i bambini che crescono incustoditi, malnutriti e affamati in un mondo fuori dal mondo.
Il romanzo racconta le tappe cruciali del percorso di formazione di Briciola che assiste alla fine del sogno hippie e deve imparare a confrontarsi con la vita “di fuori” e con le sue regole. Briciola, Helle (il suo grande amore) e gli altri ragazzini, nati e cresciuti in questa “città del sole” di idealisti e sognatori, sono costretti a misurarsi con la realtà che i loro genitori hanno rifiutato. Come reduci o sopravvissuti al naufragio di tutto un mondo, i ragazzini di Arcadia devono re-inventare la propria identità. La conquista della maturità coincide allora con la rinuncia alle illusioni dell’infanzia.
Perché ripercorre da un’ottica eccentrica la storia degli ultimi quarant’anni
Per Briciola Arcadia è l’infanzia, il paradiso perduto, un Eden fasullo da cui è stato espulso dolorosamente. Attraverso la sua vicenda la Groff racconta la fine delle utopie e dei sogni di una generazione. Dalla speranza di creare un mondo nuovo alla disillusione: questa è la parabola percorsa da Hannah e Abe, i genitori di Briciola. La loro storia privata si intreccia con la storia dell’immaginario occidentale e dei suoi miti. Il libro si articola infatti in quattro sezioni che attraversano quarant’anni della storia statunitense. Le prime due parti del romanzo, ambientate rispettivamente alla fine degli anni Sessanta e negli anni Ottanta, sono dominate dalle vicende della comunità hippie guidata da Handy con il suo sogno di rinnovamento sociale che, già al momento della fondazione di Arcadia, porta con sé i segni della propria disgregazione. La terza parte invece si svolge dopo l’11 settembre a New York, la città dove vive un Ridley «Briciola» Stone ormai adulto. La quarta parte infine conduce il lettore nel 2018 e racconta il ritorno di Briciola (insieme alla figlia) nel luogo della sua infanzia, una Arcadia ormai irriconoscibile, dove il protagonista si confronta con la malattia della madre e fa i conti con il proprio passato. L’utopia degli anni Sessanta si salda così con un futuro distopico, in cui il surriscaldamento globale sta devastando il pianeta.
Perché parla del (difficile) rapporto tra figli e genitori
Le parti più interessanti del romanzo sono quelle che descrivono il sentimento intenso che lega Briciola alla madre Hannah. Hannah è la prima ad accorgersi delle storture di Arcadia. In lei si fa strada una triste consapevolezza che piano piano la conduce alla depressione: Arcadia è un esperimento fallimentare. Con le migliore intenzioni, per amore, lei, Abe e gli altri compagni della comune stanno distruggendo i propri figli. E Lauren Groff mette in scena con delicatezza il difficile dialogo tra le generazioni, le incomprensioni tra i padri e i figli, e il desiderio di tramandare la memoria, il bisogno della continuità che persiste malgrado i sogni perduti e le scelte sbagliate.
Perché è un romanzo che commuove senza sentimentalismi
La scrittura di Lauren Groff è asciutta, semplice, ma allo stesso tempo poetica e visiva (e la bella traduzione di Tommaso Pincio permette di apprezzarla al meglio). L’intero romanzo procede per scene brevi, quadri staccati, che si disegnano in poche pagine, a volte addirittura in poche frasi. La narrazione è sempre condotta attraverso il punto di vista di Briciola, che mescola realtà e fantasia, filtrando gli eventi attraverso il suo sguardo innocente ed empatico, pieno di tristezza, stupore e di meraviglia. La percezione che il protagonista ha delle cose è dunque deformata da un eccesso di tenerezza e di immaginazione, che proietta la realtà concreta nella dimensione incantata della favola.
Briciola sa per istinto che «le persone sono e vogliono essere buone, se solo si dà loro una possibilità». E proprio questo è il sogno più vero e più radicato di Arcadia: «Equality, Love, Work, Openness to the Needs of Everyone». E proprio per questo la fine dell’utopia sbilenca di Handy, Hannah, Abe, dei Nudisti, degli Sballati e degli altri eccentrici abitanti di Arcadia dà al romanzo la nota malinconica che lo caratterizza. Perché, come Briciola, il lettore soffre la nostalgia e la perdita, e allo stesso tempo è spinto a cercare caparbiamente un significato, a interrogare una volta di più il passato e a rimpiangere il naufragio di quella fragile utopia di un mondo perfetto.
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