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diretto da Romano Luperini

Nel 1998, Ernesto Sabato aveva ottantasette anni e, dando alle stampe Antes del fin, uno scritto autobiografico che era anche il bilancio di una lunga vita, avvertiva i suoi lettori con queste parole:

no esperen encontrar en este libro mis verdades más atroces; únicamente las encontrarán en mis ficciones, en esos bailes siniestros de enmascarados que, por eso, dicen o revelan verdades que no se animarían a confesar a cara descubierta1

Solo la finzione, luogo di balli in maschera, consente dunque di rivelare le verità più atroci che si nascondono in fondo all’animo di un uomo: a questa conclusione era giunto, prima della fine, l’autore del cupo e tenebroso Sobre héroes y tumbas – uno dei romanzi fondamentali del Novecento – che pure da decenni aveva smesso di scrivere ficciones per dedicarsi all’impegno civile e alla scrittura saggistica.

Mi piace partire da qui per svolgere qualche riflessione sul romanzo La rancura di Romano Luperini (Mondadori, 2016), non la prima ma certamente la più complessa e ambiziosa prova narrativa di uno “scrittore avventizio”, se vogliamo stare alla definizione che l’autore dà di sé. Romanzo che deriva da un percorso per certi versi opposto rispetto a quello di Sabato, perché Luperini, dopo una vita dedicata alla critica letteraria accademica e militante, alla scrittura saggistica e all’impegno politico, sente l’urgenza di scrivere un romanzo; opposto, ma figlio dello stesso nodo: la complementarietà irriducibile di realtà e finzione, saggio e racconto, vita e narrazione della vita.

Romanzo complesso, si diceva, La rancura, e non soltanto perché composto da tre parti programmaticamente e strutturalmente diverse – Memoriale sul padre (1935-1945), Il figlio (1945-1982), Il figlio del figlio (2005) – ma soprattutto perché ha l’ambizione di svolgere un discorso che riguardi almeno tre livelli differenti: quello psicologico ed esistenziale, legato all’archetipico conflitto fra padri e figli, nonché al ruolo che tale conflitto svolge nel tentativo proprio di ogni uomo di trovare il suo posto nel mondo; quello storico-politico, con il padre partigiano in Istria, il figlio intellettuale militante nella stagione del Sessantotto e dei movimenti, il figlio del figlio ospite disilluso dell’Italia berlusconiana; e infine quello propriamente letterario, dal momento che La rancura è anche, e forse soprattutto, un’indagine sul rapporto fra letteratura e realtà, sulle possibilità e sul senso del narrare nell’attuale situazione storico-culturale.

Non voglio, con questo, ridurre l’opera di Luperini ad una sorta di saggio di teoria della letteratura en travesti: sarebbe ingiusto, e sarebbe soprattutto sbagliato. Credo però che questo elemento sia decisivo e accresca, complichi e in fondo giustifichi sia la componente psicologica sia quella storica, che sono la materia prima del racconto.

Per provare a chiarire, ripercorro brevemente il romanzo, ponendo in evidenza i dati strutturali. La prima sezione si presenta come un memoriale sulla vita di Luigi Lupi – figlio di contadini toscani che diventa maestro elementare sotto il fascismo e poi partigiano – scritto (come si scoprirà alla fine della seconda parte) dal figlio Valerio dopo la morte del padre, sulla base di un preciso lascito testamentario: anche se il lettore, mentre lo legge, non lo sa, il memoriale è dunque un tentativo di riconciliazione con il padre morto di un intellettuale in crisi, e questo spiega il tono epico di alcune scene, così come la complessiva sensazione di stare dentro un racconto canonico di una pagina di storia d’Italia già mille volte raccontata, con la quale già mille volte s’è provato a fare i conti senza ancora averli chiusi del tutto.

La seconda sezione del libro, Il figlio, è quella che – ad una prima impressione – può sembrare più vicina all’autobiografia: si presenta come la narrazione in prima persona di due momenti della vita di Valerio Lupi, la prima giovinezza e poi la maturità, fin verso i quaranta anni. Valerio Lupi è prima studente e poi docente universitario, coinvolto nel Sessantotto e leader politico di estrema sinistra: è insomma, a tutti gli effetti, un alter ego dell’autore, per quanto non si possa mai postulare una identificazione perfetta fra scrittore e personaggio (si veda, sul punto, la discussione fra Angelo Guglielmi e lo stesso Luperini).

La terza parte, la più complessa e probabilmente la più originale – certamente quella decisiva per la comprensione del libro – è impiantata sul racconto in terza persona di alcune settimane della vita di Marcello, figlio di Valerio (Il figlio del figlio del titolo della sezione), che nel 2005 torna da Londra nella casa toscana del padre, morto qualche tempo prima, per cercare di scrivere il suo secondo libro e intanto provare a vendere la casa. È in questo momento che veniamo a sapere come è nato il Memoriale, e anche da dove vengono le scritture autobiografiche della seconda parte: Marcello e Serena, la sorellastra, trovano infatti fra le carte del padre un plico con su scritto “Da aprire dopo la mia morte”:

Dentro la busta due fasci di fogli, una cronaca autobiografica del periodo compreso fra l’immediato dopoguerra e gli anni di piombo e un memoriale (Memoriale del padre, è il titolo) contenente una ricostruzione della giovinezza del nonno negli anni del fascismo e della guerra partigiana; e poi lettere, foto, fotocopie di documenti storici e di capitoli di saggi sula Resistenza in Istria. Nessuna nota di accompagnamento, ma una dedica: “Ai miei figli”.

Ecco dunque spiegata (ma siamo ormai a dieci pagine dalla fine) la struttura a scatole cinesi del libro. Una struttura che, retrospettivamente, rende ragione delle scelte stilistiche e tematiche messe in campo nelle prime due sezioni: il racconto della Resistenza in chiave epica, che rimanda soprattutto a Fenoglio, il resoconto dei tormenti di Valerio, che fa pensare in primo luogo a Tozzi e a Pratolini, le vicende dell’intellettuale nel vortice del Sessantotto e delle sue derive armate, tutto si giustifica perfettamente dentro questa cornice: sono il referto, il bilancio di vita di un uomo che non c’è più.

Da questa scelta narrativa decisiva (far scomparire l’alter ego dell’autore), da questa frattura, discende la cifra caratteristica dell’ultima parte del libro, che appare tutta orientata ad una programmatica e sistematica presa di distanza dalla materia narrata. Qui, infatti, non solo opera una narrazione in terza persona fredda e oggettivante, ma si moltiplicano i filtri volti ad allontanare (si vorrebbe dire anestetizzare) le pagine più ricche di pathos e emozioni: ecco allora, ad esempio, che per raccontare l’ultimo senile amore di Valerio è ampiamente riutilizzato (e decostruito dallo sguardo smitizzante di Marcello) il materiale incandescente e davvero patetico di un “quaderno giallo americano” che era stato alla base di un altro libro di Luperini, L’età estrema (Sellerio, 2008); oppure ecco che, in un altro capitolo, persino l’autentico testamento politico di Valerio – una commovente lettera su cosa per lui avesse significato essere comunista – viene offerto al lettore attraverso una scena in cui tutto concorre a smontare ogni possibile forma di retorica e di coinvolgimento.

Questa dislocazione dello sguardo in una dimensione postuma permette all’autore di riconsiderare tutto quello che ci ha raccontato fino a quel momento, ovvero la sua stessa vita di uomo e di intellettuale, come se non fosse la sua (e, in effetti, a questo punto sua non lo è più davvero, ma solo del suo personaggio). Questa presa di distanza è preparata dalle riflessioni esistenziali (improntate ad un materialismo leopardiano mediato forse dal magistero di Sebastiano Timpanaro) delle ultime bellissime pagine della sezione Il figlio, ma diventa operante proprio quando Valerio esce di scena. È allora che chi scrive sembra riuscire a guardare alla sua esperienza passata da una distanza siderale, con una prospettiva nuova, più lucida, spietata e anche spudorata verso il sé stesso che fu, senza più rancori ma senza nemmeno espliciti intenti pedagogici; è allora che l’autore riesce a fare della sua esperienza, che è l’esperienza di una sconfitta storica, l’emblema di una universale condizione umana di fragilità e solitudine che solo il quotidiano lavoro, la faticosa costruzione di una personalità e di un carattere (si veda, in questo senso, il dialogo fra Marcello e la sorellastra Serena a p. 301), può riscattare dal caos e dall’insensatezza.

Certo, tutto questo potrebbe deludere il lettore che cercasse il racconto celebrativo e autoassolutorio di una parabola storica, quella che dalle speranze deluse della Resistenza passasse per le contraddizioni del Sessantotto fino alla débacle politica e morale dell’Italia berlusconiana (e post); o quello che, conoscendo la statura intellettuale e critica dell’autore, chiedesse al libro di Luperini una precisa indicazione sulla strada da seguire nel suo impegno civile e culturale. Nel romanzo non c’è niente di tutto questo: non la voce di un padre autorevole, di un maestro senza tentennamenti, ma quella di un figlio fragile, di un intellettuale a volte spaesato, dispatriato, di uno scrittore che fa i conti con le sue verdades más atroces.

E’ questo, a mio avviso, l’ultimo e più grande dono de La rancura, quello di sfidare la nostra pigrizia sempre in cerca di orme facili da seguire; il dono, in una parola, di lasciarci soli.

_____________

NOTA

1“non sperino di incontrare in questo libro le mie verità più atroci; quelle le troveranno soltanto nei mei romanzi, in quei sinistri balli in maschera che, proprio per questo, dicono o rivelano verità che non si avrebbe il coraggio di confessare a viso scoperto” (traduzione mia)

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