Tre capitoli di La Rancura di Romano Luperini
Pubblichiamo un estratto dal romanzo di Romano Luperini La rancura. Poiché il romanzo è diviso in tre parti si danno qui in anteprima un capitolo per ciascuna di esse. Col capitolo della prima parte (In un casino) siamo negli anni del fascismo, con quello della seconda (La manifestazione femminista) negli anni settanta, con quello della terza (La selezione del Grande fratello) nell’era berlusconiana. Tornando alla terza puntata di questo Diario il lettore può agevolmente inquadrare nella vicenda i tre capitoli qui riportati.
In un casino
«Una semplice costa normalmente dieci lire, una doppia venti, mezz’ora trenta. A te, che è la prima volta, va bene una semplice». Gli diceva per strada Nullo, dopo averlo incontrato in piazza San Michele.
Una semplice?, si chiedeva fra sé Luigi. Immaginava cosa significasse, ma non ne era del tutto sicuro e non voleva fare la figura dello sprovveduto domandandolo. Era tutta la settimana che ci pensava e a poco a poco lo aveva preso l’ansia. E se non mi riuscisse?, pensava. Già la malattia lo aveva lasciato incerto, indebolito … Aveva riletto certe pagine di d’Annunzio e di Pitigrilli, amplessi tanti, ma istruzioni pratiche niente, alla fine ne sapeva quanto prima.
«Non ti preoccupare», lo incoraggiò Nullo, «fanno tutto loro, tu devi solo scegliere una delle ragazze, seguirla in camera e ricordarti di darle la marchetta».
«La marchetta?».
«Sì, è un gettone di metallo con un buco nel centro. Dopo che hai pagato in anticipo, te lo consegna la maitraisse e poi tu lo devi dare alla ragazza scelta. Alla fine della giornata fanno il conto delle marchette e ciascuna ragazza si prende la parte che le spetta».
La scena che vide, appena entrarono, gli fece battere furiosamente il cuore in gola. La grande sala d’aspetto era attraversata da ragazze seminude, che passavano nella nebbia del fumo delle sigarette, ancheggiavano, ridevano, cantavano, si mettevano sulle ginocchia dei clienti seduti ai quattro lati che anche loro sorridevano e parlavano disinvolti. Si vedevano la giarrettiere, le gambe nude, i seni che oscillavano fra i veli. Gli mancava il respiro. Guardò Nullo in cerca di soccorso. «Andiamo là», indicò lui. C’erano due posti liberi su un divano laterale. «Lascia fare a me», aggiunse sottovoce. Nell’aria c’era un odore forte e strano, un misto di profumi, puzzo di sigarette e di disinfettanti. Si misero a sedere. Luigi, che si era tolto l’impermeabile chiaro e lo teneva con impaccio su un braccio, accese una sigaretta. Quando qualche ragazza si avvicinava, tratteneva il fiato, se gli avesse rivolto la parola cosa avrebbe risposto? se si fosse seduta sulle sue ginocchia dove avrebbe messo le braccia con quell’impermeabile che lo impacciava? Dopo un po’ Nullo si alzò e andò a parlare sottovoce con la maitraisse. Vide che la donna, grassa, con una bocca esageratamente rossa e un grande ventaglio che agitava sul petto, prima guardò nella sua direzione e poi chiamò a sé tre ragazze. Il gruppo parlottò un poco e poi Nullo fece ritorno seguito dalle tre, due davanti che si tenevano a braccetto scherzando fra loro, l’altra dietro. «Ecco», esclamò Nullo, «ti faccio scegliere fra tutti i colori possibili. La rossa è Zobeide, una amica che viene dal porto di Genova, la bruna, Ginevra, è una napoletana, ha il sangue caldo delle meridionali, la biondina è della campagna veneta e si chiama…come ti chiami?», chiese. «Vanessa», rispose lei, affacciandosi fra le altre due perché era rimasta un po’ indietro. Era la più piccola delle tre, portava i capelli biondi tirati indietro e raccolti sulla nuca da un fiocco nero quasi infantile e forse per questo sembrava meno invadente delle altre.
«Questa è la tua marchetta», disse Nullo allungandogli il gettone. «E ora scegline una, con calma, non c’è fretta», e si allontanò verso un divano dalla parte opposta della sala.
Carogna!, pensò lui. Mi ha lasciato solo! E ora cosa faccio? La rossa e la bruna si strinsero accanto a lui sul posto rimasto vuoto, la biondina si sedette sul bracciolo dall’altra parte. Mentre le altre due ridevano e gli facevano domande a cui lui non sapeva bene come rispondere, lei fumava in silenzio.
A un tratto si levò il grido acuto della maitraisse: «Basta, basta, giovanotti, basta flanella, in camera, su, in camera». Allora «Andiamo», disse lui di colpo a Vanessa, senza pensare. Qualunque situazione era preferibile a quell’imbarazzo che lo paralizzava. Lei lo prese per mano e lo guidò su per le scale.
Nella camera l’odore di lisoformio era fortissimo e per un attimo gli dette un senso di nausea e di stordimento. Accanto al letto da una parte c’era una poltrona con una grossa bambola seduta con le gambe divaricate, dall’altra il bidé. Vanessa cominciò a sfilarsi la gonna, mentre lui cercava invano di trovare qualche parola adatta alla situazione
Fu lei invece a dire le prime parole. Si era accoccolata sul bidè e ora si stava asciugando. «Devi lavarti anche tu. Se vuoi t’aiuto».
Allora devo spogliarmi, pensò. Pose l’impermeabile, che teneva ancora sul braccio, sulla poltrona, accanto alla bambola, e cominciò a togliersi lentamente i pantaloni.
«Vieni, ti aiuto», disse lei. Gli si era avvicinata. Lui vedeva l’alzarsi e l’abbassarsi caldo e calmo del seno di lei. Chiuse gli occhi, «Fai tu, per favore, fai tu», si raccomandò allora. Voleva abbandonarsi a quella quiete, sprofondarvi senza pensare. Sentì che lei lo portava verso il bidè, avvertì il tepore dell’acqua sulla pelle, il contatto dell’asciugamano. Poi lei gli passò una mano fra i capelli, e lo attirò sul letto su di sé. Venne subito.
«Non ti preoccupare», disse lei, «le prime volte succede, poi imparerai a trattenerti».
D’improvviso lui si sentì completamente tranquillo, e gli venne voglia di parlare. «Sei di famiglia contadina anche tu, vero?».
«Sì», rispose lei, ma già si stava alzando dal letto. «Dobbiamo scendere», disse, «se si resta troppo in camera coi clienti la padrona si arrabbia».
La manifestazione femminista
Ilaria era arrivata a Roma perché ci sarebbe stata una grande manifestazione femminista. Quando entrai in cucina per la colazione, intorno al tavolo c’erano già Ilaria, Francesco, col figlio in braccio, e sua moglie Giulia. «Vedi», diceva Giulia a Ilaria, «i compagni non hanno nulla contro il fatto che facciamo politica. Il problema nasce quando gli diciamo: “Adesso ti alzi tu a sparecchiare la tavola”».
Tutt’e due indossavano gonne lunghe e larghe, scialli colorati, zoccoli olandesi. Intanto dalle camere accanto affluivano in cucina altre compagne, ridevano allegre, eccitate, scherzavano fra loro, si aggiustavano l’un l’altra le trecce, le passate sulla testa, gli scialli. Erano tutte venute a Roma per la manifestazione, e avevano utilizzato l’appartamento di via Prenestina come foresteria per passarci la notte. Alcune con zoccoli e gonnelloni zingareschi e una fascia sulla fronte a trattenere i capelli, altre invece in pantaloni e scarponi anfibi. Avevano preparato dei cartelli per la manifestazione Né angeli del focolare, né angeli del ciclostile, Il personale è politico, L’utero è mio e lo gestisco io, No all’abrogazione della legge sull’aborto.
«Immagino che noi maschi non possiamo venire …», dissi io, «Peccato, in fondo è la stessa lotta».
«No, non è la stessa lotta, è una lotta diversa. E il nemico siete anche voi, perché anche voi maschi fate parte del potere che ci opprime. Nella società, ma anche nella famiglia e nella organizzazione politica. Solo separate, lontano dal vostro sguardo, riusciamo a esprimerci davvero come donne», rispose Giulia.
Lontano dal vostro sguardo, pensai, questo è il vocabolario delle riunioni di autocoscienza.
«Però se state a guardarci dal marciapiedi non abbiamo nulla in contrario», sorrise un’altra, più conciliante.
Uscirono tutte quante, e dopo poco Francesco e io le seguimmo, Francesco con il bambino, a volte per mano, a volte sulle spalle.
Il corteo avanzava preceduto da un grande striscione Il femminismo è una festa appena cominciata. Dietro le donne intrecciavano balli e girotondi, si tenevano abbracciate, correvano, ridevano, gridavano Donna donna donna non smetter di lottare/ tutta la vita deve cambiare.
A tratti gruppi di compagne si staccavano dal resto, si dirigevano verso dei grandi manifesti pubblicitari affissi ai lati della strada. Andammo a vedere. Erano manifesti di Robe di Kappa che raffiguravano una coppia di giovani abbracciati. La donna era di spalle in primo piano, in piedi davanti a lui, cosicché l’uomo, ritto di fronte, era quasi del tutto nascosto dal corpo femminile: di lui si vedevano solo le due gambe divaricate strette nei jeans, i capelli che emergevano appena sopra la testa di lei, la mano sinistra aperta sul dorso della donna nell’atto di spingerla contro il proprio petto, il braccio destro proteso in avanti a sollevarle da dietro la gonna e a prenderle nel palmo della mano un gluteo bianco e lucente, già tutto scoperto. Lei si vedeva invece per intero, di schiena, il corpo snello fasciato da un vestito corto e leggero, la capigliatura scura lunga sulle spalle, le gambe unite entro calze di nylon trasparenti con la loro riga nera perfettamente diritta, un braccio dietro la testa di lui, l’altro lungo il fianco leggermente proteso indietro quasi a distendere di nuovo verso il basso la gonna sollevata dal gesto maschile. Di traverso la scritta la presa di lui. Le donne si avvicinavano rapide con passo di danza, con pochi gesti attaccavano in mezzo al manifesto un cartello bianco con stampata una frase nera Siamo stufe di essere prese per il culo, poi, altrettanto veloci, rientravano nel corteo. Le guardavo ammirato. Con i loro scialli colorati si muovevano agili e festose come sciami variopinti di farfalle.
Nelle piazze il corteo si frammentava, tenendosi per mano le donne si allargavano, occupando tutto lo spazio inanellavano ampi girotondi, levando in aria le gambe, facendo svolazzare scialli e gonnelloni. In uno spiazzo ballavano gioiose e furiose intorno a una gabbia di rete metallica, dove una di loro, chiusa all’interno, portava sul petto un cartello Sono la regina della casa, sulla testa una corona dorata di cartone, al collo un grembiule da cucina, in una mano una scopa e un bebé di stoffa nell’altra.
Ecco, pensai con invidia, è il loro Sessantotto. «Vedi», dissi a Francesco, «Per loro gioco e politica sono una cosa sola, come era per noi nel Sessantotto … Per loro fra vita e politica non c’è separazione. Ora invece per noi maschi solo politica, solo fatica e lavoro … la politica è tornata a essere specializzazione, lavoro separato dalla vita. In dieci anni è cambiato proprio tutto».
A un certo punto uno sciame di ragazze si avvicinò leggero e minaccioso a un gruppo di maschi sul marciapiedi. Avevano levato le braccia sopra le loro teste, con gesto spavaldo mimavano il simbolo del sesso femminile, tre diti chiusi, due, pollice e indice, aperti e divaricati in modo che quelli della mano sinistra si congiungessero a quelli della destra. Anche i cori e gli slogan erano cambiati, erano diventati di colpo minacciosi: Col dito col dito/ orgasmo garantito/ col cazzo col cazzo/ orgasmo da strapazzo. Una gridò fra le risate delle altre «Dirigenti del cazzo! Noi ora vi vediamo nudi, capite? E l’avete piccolo così». Li avevano circondati e intorno a loro giravano giravano tenendosi per mano in una specie di danza di guerra vorticosa e irridente. «Cosa succede?», chiesi a Francesco, che stava a Roma già da qualche tempo e conosceva tutti. «Quello è Erri De Luca con altri dirigenti del servizio d’ordine di Lotta Continua che attaccò il corteo delle compagne gridando È ora è ora/ la fica a chi lavora. Le femministe se la sono legata al dito. È così che è cominciata la fine di Lotta Continua».
D’un tratto il girotondo si sciolse, rapidissime le donne sciamarono via, in un attimo raggiunsero il grosso del corteo. I romani guardavano, alcuni curiosi, i più distratti e indifferenti. Gruppi di turisti applaudivano come davanti a uno spettacolo. Francesco commentò, amaro: «Una cosa è il divorzio o l’aborto che riguardano tutte le donne. Un’altra la separazione fra maschi e femmine e la rivoluzione femminista, che possono interessare solo le minoranze. Se ne riparla fra qualche anno». Ma lui, pensai, aveva il dente avvelenato con la moglie.
Intanto, durante il cammino di ritorno a casa, Francesco mi raccontava com’era finita Lotta Continua. Lui era andato al loro ultimo congresso a Rimini come rappresentante di Avanguardia Operaia, aveva visto le femministe occupare la presidenza, mettere sotto accusa l’intero gruppo dirigente, lo scontro con gli operai che gridavano contro di loro Nel proletariato nessuna divisione/ uomini e donne per la rivoluzione. Poi aggiunse: «Sai che anche la moglie di Foa era di Lotta Continua? Si sono separati … il femminismo sta facendo strage di famiglie … e pare che ora lui vada a vivere con la sorella del segretario di Berlinguer, Tatò, e che abbiano preso casa insieme qui a Roma … Certo ha un bel coraggio, separarsi e cominciare una nuova vita a settant’anni, e con tre figli…».
La selezione del Grande Fratello
A casa trova Serena impaziente. «Allora andiamo?», lo sollecita. La sera prima le aveva promesso di provare l’auto del padre e di portare lei e Let all’università. Se poi la macchina funzionava bene, l’indomani avrebbero fatto tutt’e tre una gita al mare e poi, dopo la loro partenza, sarebbe andato a Pisa a trovare la mamma. Aveva rimandato anche troppo. Non poteva ripartire per Londra senza averla rivista.
L’auto è nel garage interrato costruito qualche anno prima sotto il vecchio fienile. Fa scorrere la saracinesca, entra nel garage e la guarda. Una macchina sportiva, una specie di cabriolet. Rossa, decappottabile. Tre porte e solo quattro posti, i due posteriori molto risicati. «Vedi», dice a Serena, «è una macchina per portarci le ragazze».
Prova a girare la chiave del motore, ma gira a vuoto. La batteria. Si deve essere scaricata in tutto questo tempo che la macchina è stata ferma. «Aiutatemi», dice a Serena e a Let, «spingete la macchina da dietro, la faccio partire in discesa, bisogna arrivare alla autofficina più vicina». Loro spingono intralciandosi a vicenda, spingono e ridono, la macchina scivola subito giù in discesa e quando ha preso velocità Marcello stacca la frizione e il motore si avvia, all’inizio scoppiettando, poi prendendo il suo ritmo normale. Arrivato al ponte sul fiume, torna indietro sino al cancello di casa e le fa salire stando attento che non si spenga il motore. Finalmente partono e dopo un quarto d’ora le lascia tutt’e due davanti all’università, dopo aver preso appuntamento con loro per l’ora di cena. In una autofficina fa cambiare la batteria, e poi decide di provare la macchina sulla superstrada arrivando sino a Firenze. Tanto ha tutto il giorno davanti.
L’auto corre veloce, tiene bene la strada, e in un’ora è in città. Guida lentamente, preoccupato, nel traffico. L’auto è troppo bassa, circondata da autocarri e da SUV enormi, neri, con ruote da camion che gli arrivano all’altezza della testa. Ti schiacciano, ti tolgono la visibilità e l’aria. Qualche anno fa, quando era partito, non erano così numerosi.
La lascia in un garage pubblico e prosegue a piedi verso il centro. Tutto è più tranquillo, le strade sembrano meno frequentate, più lucide e più pulite, non ci sono più i lavavetri delle auto ai semafori, niente mendicanti sui marciapiedi. Ai cavalcavia e nelle piazze ronde di poliziotti e di soldati.
Vicino a piazza del Duomo vede sfilare un corteo disordinato di uomini di colore, tutti con una tuta arancione fosforescente, scortati da carabinieri armati. Un gregge confuso. Quando i primi si arrestano al semaforo, quelli che sopraggiungono da dietro non fanno in tempo a fermarsi e li spingono facendoli barcollare, affollandosi. Allora i carabinieri scattano tutti insieme per rimetterli in fila. Un passante grida agitando un pugno. Ma i più guardano da un’altra parte, indifferenti.
Marcello li osserva sfilare dal marciapiedi opposto, poi riprende a camminare nella loro stessa direzione. A un certo punto, davanti a un grande albergo, il corteo si blocca per un ostacolo improvviso, col solito affollamento tumultuoso delle prime file, e i carabinieri cominciano a correre. C’è una coda davanti alla porta dell’albergo, gente che ingombra il marciapiedi in attesa di entrare, tutti giovani, molti con tatuaggi che sporgono dalle magliette e piercing al labbro e al sopracciglio, ragazze in minigonna, ragazzi con braccia muscolose in vista, crani rasati e creste da moicano. Dall’interno giungono strida di donne, risate. Ci sono fotografi e cameraman che si agitano con le macchine a tracolla. Girano un film? A un tratto dalla porta girevole escono, oscillando e inciampando sui tacchi, due ragazze abbracciate, piangono, gridano: «Non è regolare, non è regolare!», zeppe altissime, gambe nude, tette lucide e rotonde che esplodono dai corsetti. Tutti si affollano intorno, le subissano di domande affannose, come se uscissero da un esame.
«Ma che c’è qui?», chiede Marcello a uno dei portieri dell’albergo.
«C’è Canale 5, fanno la selezione per Il grande fratello».
Nella confusione le prime tute arancione si mescolano alle camicie fuori dei jeans, alle gonne e ai cinturoni, alle magliette scollate e colorate. Per qualche istante è tutto un vorticare indistinto di pelle bianca e scura, di braccia, spalle, facce stupite, ridenti o spiritate, teste nere bionde rosse rosa shocking; poi quelli in coda cominciano a urlare, protestano, hanno paura di perdere la precedenza, «Siamo qui dalle cinque di mattina», gridano; e i carabinieri devono rimettere ordine e ricostituire le fila, mentre alcuni di loro bloccano il traffico delle macchine e degli autobus in modo che il corteo possa attraversare la strada e continuare il percorso sull’altro marciapiedi senza alterare l’ordine della coda.
Marcello è ancora fermo davanti all’albergo quando uno, senza abbandonare la fila, «Lupi», lo chiama, «Ma tu sei Lupi, l’informatico…». È un compagno di liceo che non vede da anni, jeans a vita bassa, una camicia bianca aperta sul petto da cui spunta un ciuffo di peli neri, un braccialetto colorato al polso.
«Ma che fai qui? Non hai uno studio da avvocato?», gli chiede sorpreso.
«Mi è venuta voglia di cambiare vita. Sono stufo. Mi sono rotto il cazzo, capisci? Sono stato sempre troppo serio. Siamo stati tutti troppo seri per troppo tempo. Tutti compunti, tutti rispettosi delle regole. Anche tu, mi ricordo, tutto compunto a scuola», grida, chi sa perché. E intanto, senza smettere di gridare, lo ha preso per il braccio spingendolo accanto a sé nella fila e guardandolo con occhi fissi e insistenti. «Troppi doveri, troppa legge. Te lo dico io che faccio l’avvocato: la legge è un limite che va spostato sempre più lontano. Meno male che Berlusconi ci ha dato una scossa. Basta con le tasse e con le regole, in Italia ci sono troppe regole, troppe pastoie. Dopo tanto tempo Berlusconi ci ha portato finalmente un po’di libertà, non ti pare? E tu che fai? Stai sempre a Londra?». Salta da un argomento all’altro, in modo eccitato e un po’ convulso. Che si sia impasticcato come quella volta all’esame di maturità? Poi gli mette un braccio intorno al collo, avvicina il viso sin quasi a sfiorare il suo e aggiunge, ma ora sottovoce, come continuando un discorso interrotto un momento prima: «Ho paura di essere troppo vecchio. A quaranta anni si è già out per queste cose. Quando mi sono messo in coda e ho guardato gli altri concorrenti l’ho capito subito. Ma ormai non mollo, voglio vedere come va a finire».
Marcello si scosta. Non gli piace quel fare concitato, quel braccio intorno al collo. E poi gli dà fastidio stare in mezzo a tutta quella gente che ride, grida, beve in continuazione birra e coca-cola. «Sì, abito ancora a Londra», risponde, «sono in Italia solo per pochi giorni». Aspetta un attimo e subito aggiunge: «Per me è tardi, devo andare. Ti faccio tanti auguri per la selezione».
Mentre ritorna verso il garage, risente dentro di sé la voce del padre: le regole o si rispettano o si rovesciano. Sempre perentorio, lui. Ma, oggi più che mai, le regole si ignorano o si aggirano. I tempi sono cambiati e ora è il momento di Berlusconi.
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Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Considerazioni sparse
Iniziando da una dichiarazione di gusto; quanto ho letto m’è piaciuto. E m’invoglia a leggere il resto. Tematiche, della seconda e terza parte, coinvolgenti, almeno per quanto attiene la mia “ricezione”. Stile narrativo scandito da una scrittura essenziale, sobria e incalzante, il cui profilo, trovo decisamente “italiano”, ossia debitore a cifre e modelli scritturali propri della prima metà del XX secolo, compreso il leggero scarto stilistico tra le prime due parti e l’ultima, dove l’oggettività narrativa assume gli accenti amari del referto. Un unico “dispiacere”, riguardante la forte valenza politica del romanzo: il fatto che la narrazione s’arresti al 2005, e che la cronaca più non soccorra il lettore a farsi un’idea degli anni successivi, ovvero dell’ulteriore cambio di “tempi”, e di passo. Anni, così la vedo io, che hanno messo sempre più alle corde la democrazia, sostanziale e formale, in cui è stata teorizzata e attuata la “durezza del vivere”, alla quale accostare i “bamboccioni” togliendo loro il diaframma dello stato sociale e privandoli dello stesso futuro; anni in cui si è teorizzato in politica il valore risolutivo del tecnico in grado di prendere decisioni al riparo dal processo elettorale; anni in cui è stata distrutta la domanda interna su mandato del “vincolo esterno” mediante un inasprimento di politche economiche basate sull’austerità. Ma questo nulla ha a che fare col giudizio positivo sul romanzo, unità narrativa autonoma, semmai con la sua apertura in fieri.
Recensione di Gilda Policastro
Si pubblica, in modo che i lettori interessati possano con più facilità seguire il dibattito, la recensione di Gilda Policastro, SOPRAVVIVERE AD ANNI ’70 E RESISTENZA E’ POSSIBILE uscita sul Venerdì di Repubblica del 26/2/2016
Romano Luperini ha scritto La rancura durante una grave malattia: non è però un libro cupo (a dispetto del titolo) ma intenso e vitale, sul modo con cui gi avvenimenti possono intersecare l’esperienza edarle un senso, col corollario che in ciascuna vita può «sciogliersi il grumo» in attimi di sporadica rivelazione. Si susseguono tre storie legate da un filo familiare: c’è un padre, Luigi Lupi, partito per il fronte senza molta convinzione (aseguito dell’amico Nullo e dopo l’infelice matrimonio con una ragazza madre), le cui vicende riportano a pagine topiche della letteratura di guerra e di Resistenza (Fenoglio su tutti), con le ritorsioni, le razzie nei villaggi, le fughe, la fame, il freddo, la fucilazione del compagno (e la scena toccante dell’ultima sigaretta condivisa).
Lo schema si ripete per il figlio Valerio, che sempre da una posizione scettica attraversa la militanza degli anni ’60 e ’70, finendo in carcere a seguito di una manifestazione, mentre l’amico Ottavio aderirà a Prima Linea. Due coppie dicotomiche (Luigi/Nullo; Valerio/Ottavio), in cui l’uno idealista e soccombe e l’altro, più critico, si salva: una simmetria che sostiene la trama, talvolta complicandola perché i padri e i figli si assomigliano (né può essere altrimenti, essendo tutti alter ego dell’autore). Ci sono almeno due buone ragioni (e due ottime pagine) er cui bisogna leggere questo libro, indipendentemente dalla propria visione e mondo e della scrittura: la domand sull’identità, dalle memorie del padre, che si riannette al filone più tormentato dell’autocoscienza modrna, da Leopardi in poi, e l’apologo de vecchio e della corrente, che individua il senso della vita anche in un orizzonte spoglio di ideali.
Così per Marcello (nella terza parte), il nipote che ha rinunciato alla politica attiva (ma non alla scrittura, pur cercando a tentoni una strada nel romanzo di genere o nella docufiction). Se la rancura montaliana si rovescia nel senso di sueriorità dei padri, nel loro essere autoritari e privi di tenerezza, lo smarrimento dei figli, la loro incapacità di stare “dalla parte dei fatti”, ingenere alla fine una doppia indulgenza: da parti di ci narra verso le nuove generazioni e da parte di queste ultime nei confronti del professore che fa lezione (magistralmente) anche quando scrive un romanzo.
Recensione di Maurizio Boldrini
Questa recensione di Maurizio Boldrini è apparsa su L’Unità del 2 marzo 2016
La rancura
Alla fine delle pellicole cinematografiche appariva, immancabilmente, quella dizione che serviva a tutelare i produttori ma che aggiungeva (volontariamente?) qualche dubbio sulla veridicità della trama: ogni riferimento a persone o fatti è puramente casuale. Romano Luperini, nella nota d’autore con la quale chiude il romanzo, La Rancura, edito da Mondadori, scrive: “I fatti e le persone (talora indicate coi loro nomi reali) di cui si parla in questo libro rispondono ad una accertabile verità storica. Ovviamente convivono con i diritti dell’invenzione connaturati ai generi letterari cui qui si fa ricorso”. I generi li dettaglia con precisione, così da offrire al lettore la vera chiave di quest’opera impegnativa dove la documentazione storica, l’autobiografia romanzata e il racconto in terza persona, si alternano nelle tre parti in cui è suddiviso il libro. Chi legge è allertato: non c’è nelle pagine solo una narrazione intimistica ma una sorta di grande affresco di gran parte del “secolo breve”, approdando, infine, alle inquietudini del presente.
Luigi, Valerio, Marcello: tre vite nelle quali si racchiudono le italiche vicende del Novecento e che riflettono, nello specchio letterario, una strana foto di gruppo: singole vite che si scompongono nei singoli destini e si ricompongono nel filo, molto stretto, che le unisce. Luigi è il padre, Valerio il figlio e Marcello il figlio del figlio. Tutti e tre alla ricerca dell’altro, di qualcosa da perdonare o da farsi perdonare. Luigi nasce nelle campagne lucchesi ma non ha la stazza, in gioventù, per lavorare i campi. La terra è bassa, recita un antico detto popolare, così sarà maestro e, da maestro, per effetto del terribile gioco dell’imitazione dell’amico Nullo, adulto e smaliziato, si ritroverà a fare il militare e poi il comandante partigiano nella dura Istria, terra di confine, non solo geografico ma anche ideale, tra i tanti diversi modi di combattere il nazismo e fascismo. Volti, paesaggi e bagliori di guerra. Ritroverà anche Nullo, l’amico della giovinezza: nella sua figura e nella triste fine si rintracciano, senza adesioni a letture stereotipate, l’ambiguità del fascismo delle origini e la voglia di molti giovani che in quegli anni volevano sovvertire lo stato esistente delle cose, nella più totale confusione ideologica, mescolando, ad esempio, comunismo e fascismo.
Gli anni duri della resistenza sono resi, nella scrittura di Luperini, importanti e quasi solenni, ma lontani e come mediati dalla ricca documentazione e dalla conoscenza profonda di quei movimenti. Lontani dalla vita del giovane Valerio che trascorre le quiete giornate nella sana vita della città di provincia e in una famiglia borghese. Questi luoghi della fanciullezza sono descritti con una scrittura piana, dolce, dove il vissuto diventa melanconia, e crea un effetto di appagamento estetico. Le passeggiate sulle robuste mura di Lucca, l’uscita dalle scuole, la lettura delle riviste e dei giornali dello zio. La durezza della vita in campagna fa da controcanto:la natura viene descritta con minuzia -uomini,oggetti e animali- con una scrittura che richiama quella dei grandi toscani e nella crudezza, il passerotto schiacciato, ricorre ad una pennellata che sarebbe potuta appartenere a Tozzi. Quasi una citazione.
La lontananza è, finora, nelle diverse vite e sfide che padre e figlio affrontano. La guerra e la sua asprezza per il padre, la fanciullezza nella serenità familiare per il figlio. Ma proprio da questa lunga e incomprensibile lontananza nasce nel figlio un tarlo, quel tarlo del rapporto col padre che genererà rabbia e delusione. Solo molto più tardi, dopo l’educazione politica, Valerio sarà in grado di capire le grandi motivazioni che sostanziavano la lontananza. Un padre sconosciuto, distante e che quando sbarcherà nel pianeta domestico provocherà inevitabili gelosie. E dolore. Nel titolo del romanzo, la “rancura”, che Romano Luperini avverte di aver ripreso da un verso di Montale, è indicata proprio la relazione aspra tra un padre e un figlio.
Dunque un confronto, quello tra Valerio e Luigi, che dura l’intera vita. E oltre. L’attacco perentorio della prima parte del libro, quella sul memoriale del padre, ci immette nel clima: “ La prima immagine che ho di mio padre è seduto, con le spalle al muro”. E con ugual piglio avvia la seconda parte, quella del ritorno di Valerio dal fronte e dell’inizio della vita in comune: “Ho conosciuto mio padre alla fine di un lungo corridoio”. Immagine reale e metaforica. Sentimenti complessi li legano, fino a diventare tarli che rosicchiano il cervello e la coscienza. La domanda che Luigi si pone su Valerio la dice lunga sulla solidità del legame e sull’asprezza del confronto: “D’altronde , mi dico, perché dovrei per forza ridurre a unità la sua persona , chiudendola in un disegno coerente, in un disegno prestabilito?”.
Non c’è nulla di prestabilito nelle loro vite e nulla di scontato nella trama del libro. Il lento scorrere del tempo: il cinema, il calcio, i licenziamenti alla Piaggio, la Legge Truffa, il tempo della povertà che si manifestava violenta nei giorni della Fiera quando “non ce n’era neppure per la corsa sulle’automobiline che si scontrano”. La vita di città e quella di campagna, la bicicletta che era qualcosa di più di un mezzo con il quale spostarsi (la maglia iridata di Ercole Baldini), il Mosquito, il liceo, il Sessantotto, l’adesione al comunismo e le ferite della delusioni che ne derivano, la militanza a sinistra, una di quelle militanze a tutto tondo, quelle che lasciano segni profondi che non si potranno più cancellare. Moro e la Renault rossa, Lotta Continua, l’angolo del ciclostile, L’Unità e il Quotidiano dei Lavoratori, Vittorio Foa che spiega la politica narrandola al giovane Valerio con l’aneddoto del vecchio monaco e della corrente del fiume, il difficile rapporto tra comunisti e socialisti, il femminismo, il crollo dei muri e di un mondo ormai antico. La sconfitta e il lento declino della figura dell’intellettuale che cede alle facili mode. Le donne, quelle dell’educazione sentimentale, quelle della precoce rivolta contro il conformismo praticato nelle famiglie, comprese quelle di sinistra; quelle di casa, come la madre adorata, o la sorellastra protetta dal padre, forse troppo da vicino; quelle, infine, della maturità e della senilità. Il profumo di donna è in tutte le pagine del libro, lo senti anche quando sono fuori dalla scena, nello scritto, lo senti nella vene dall’autore.
Tre anni fa, Romano Luperini, intellettuale amato e temuto, viene colpito da un terribile male, uno strazio durato anni che ha lasciato i segni, superato con la tempra del combattente. La tempra emerge nel modo in cui lo scrittore ha di raccontare se stesso, come dimostrano le lunghe interviste seguite alla pubblicazione del libro. Ma a farci comprendere la profondità della ferita ci viene incontro proprio la scrittura della terza parte, quella sul figlio del figlio, in cui il destino dei rapporti complessi tra padre e figlio sembra attanagliare anche Marcello e a soccorrerlo possono esserci solo le sudate carte in cui passato e futuro si intrecciano, come la vita e la morte, e anche gli enigmi più complessi trovano una sorridente sistemazione. In quest’ultima parte cambia il suono delle parole, muta il ritmo della narrazione, cambia lo stesso scenario del paesaggio che sa ora di eremitaggio. Già l’avevamo avvertita, questa scrittura, nel suo precedente romanzo, L’età estrema. Nella scrittura, come nella vita, ha fatto prepotentemente irruzione la contemporaneità e la pretesa, resa quasi un dogma da qualcuno degli attuali maître à penser, che la letteratura vi si appiattisca. Il vecchio padre-maestro assiste, finalmente da spettatore, alla vita degli altri. Con tenero distacco negli affetti e malcelata polemica (mirabile è il carteggio delle ultime pagine) nei confronti delle nuove forme di letteratura e di impegno civile.
Chi conosce Romano Luperini leggerà il libro con attenzione, cercando sfumature e riconoscendo luoghi o persone o tratti di vita culturale e intellettuale. Ma chi non lo conosce lo leggerà di corsa, pagina dopo pagina, cogliendo una scrittura duttile che varia di intensità con il variare dei sentimenti e del contesto ma che rimane sempre di metallo duro, prezioso. Si avverte il peso dei libri, quasi onnipresenti, e la consuetudine che ha avuto con i grandi scrittori e intellettuali del Novecento, a partire da Romano Bilenchi che, guarda caso, era stato amico di suo padre. Quelli frequentati negli anni pisani e negli anni passati all’università di Siena. Ma nel libro, in questo libro, prevale una sua cifra: una commovente narrazione di sé come lettura soggettiva della storia; di sé e delle sue passioni politiche e delle sue pulsioni sessuali; di sé e delle donne che lo hanno attraversato. Senza pudori, senza scorciatoie e senza strizzatine d’occhio alla dilagante e incombente attualità.
Maurizio Boldrini
Recensione di Roberto Barzanti
Questa recensione è apparsa su “Corriere Fiorentino”(sup. “Corriere della sera”), 3 marzo 2016, p. 12
I dissidi irrisolti tra padri e figli (in tre tempi)
Romano Luperini, storico della letteratura italiana e critico militante di accese passioni, a titolo del suo romanzo-bilancio edito das Mondadori ha scelto una termine difficile: La rancura. L’arcaica parola esprime la «malinconia nera» che stringe il respiro. Da Dante è scivolata in Montale a designare l’irrisolto dissidio che oppone padri e figli: «E questa che in me cresce / è forse la rancura / che ogni figliuolo, mare, ha per il padre». Più indecifrabile di un determinativo odio, il lemma non è la sola spia che attesta la sofisticata struttura di un’opera singolare: una e trina. Infatti il libro incastra l’uno accanto all’altro tre romanzi brevi, che, se assemblati, compongono una saga familiare. Al centro di ogni membro di questa studiatissima articolazione ternaria sta un protagonista: il padre Luigi Lupi, il figlio Valerio (eteronimo dell’autore) e il figlio del figlio, Marcello. Le angolazioni cambiano e di conseguenza mutano le prospettive della narrazione. All’inizio sta un “memoriale” sul padre, che si dipana dal 1935 al ’45 come una ricerca minuziosa e risarcitoria, tra pietas e rimorso. Il maestro elementare che era apparso avvolto in un’impenetrabile “fierezza barbarica” svela lentamente una statura eroica. Colui che sembrava assorto in un perenne dissidio, incapace di intrattenere col figlio una relazione distesa e affettuosa, era stato in realtà un partigiano che nel turbolento confine tra Istria e Slovenia aveva combattuto da resistente tra le schiere dei titini una sanguinosa guerriglia. Suggestionato in gioventù da un sinistrorso fascismo alla Bilenchi aveva a sue spese compreso gli inganni del regime. La fredda osservazione dei fatti lo convince che uomini e bestie sono trascinati da crudeli istinti di sopraffazione. Rari sono gli slanci di solidarietà. Il partigiano Nullo muore ammazzato dai suoi stessi compagni. La sofferta palinodia intrapresa da Valerio non si conclude con una rasserenante pacificazione. Eppure soltanto rimarginando quel legame logorato è forse possibile affrontare le angosce di una vita che «è sempre così: un vento funebre, insensato, che semina a caso morte malattie guerre, e per difendersi solo la forza oscura e tenera del legame di sangue».
Nella parte seconda (1945-1982) è di scena Valerio ragazzo in una Lucca immersa nel favoloso verde primaverile delle sue Mura: «I tigli profumavano la sera in modo acuto, e un profumo diverso emanavano i fiori delle magnolie, e un altro ancora le siepi di alloro e di pitosfori». Quindi l’iscrizione all’Università di Pisa, città “ghibellina” attraversata da vocianti cortei di gioventù in lotta, e i primi furtivi amori, i dibattiti al cineclub, l’iscrizione (effimera) al Pci disapprovata dal padre socialista. L’esplosione gioiosa del Sessantotto spinge ad un impegno in direzione operaista. E Luperini lo racconta con nomi e cognomi reali, intrecciando il taglio di un diario di formazione – “auto-fiction” – a tinte neorealiste con la cronaca politica di incontri memorabili e di avvenimenti disegnati sulla base di un’«accertabile verità storica». La tragica cesura di questa impetuosa crescita della soggettività è l’assassinio di Aldo Moro. Il 1978 è data che periodizza e annuncia una trista età. La famiglia che Valerio mette su non cancella dissapori e strettezze. Il padre muore sucida. L’ondata del femminismo mette in chiaro questioni cruciali. Le sintetizza da vecchio saggio Vittorio Foa, che condanna la scissione tra progetti personali e obblighi pubblici: «Quando i due piani si separano, o quando il privato viene sacrificato alle ragioni pubbliche, come è accaduto nella storia gloriosa e in quella ingloriosa del comunismo, in quel momento si comincia a sbagliare». La terza parte – il sipario cala nel 2005 – è redatta al presente, per svogliati frammenti, con una sorta di sarcastica mimesi dell’impersonale immaginario postmoderno: Valerio è morto, il figlio Marcello, di ritorno da Londra, s’aggira tra le scartoffie desideroso di disfarsi d’una casa che pare un rifugio da eremiti. Anche lui va alla ricerca del padre, nel tentativo di dargli una fisionomia e comprenderne ragioni e sconfitte. Il doloroso abisso tra le generazioni è una costante fatale. Babbo e nonno, in modi diversi, avevano sognato il cambiamento: «e invece noi – confessa Marcello nella lettera indirizzata ad un’amica – non lo conosciamo, non ne abbiamo idea, sappiamo da sempre che non esiste, che non è plausibile». Ha questa durezza inappellabile anche lo sguardo di Romano Luperini sui nostri anni? La letteratura consente velature e rifrazioni. Il battagliero teorico del realismo non si perita a offrirci pagine intrise di analisi della psiche – indubbia la lezione di Giovanni Jervis – e di lacerata introspezione individuale. D’accordo, almeno in questo, col figlio: «La complessità mi piace e nello stesso mi intrappola, capisci?».
INTERVISTA A VINCENZO PARDINI, uscita il 12 marzo 2016 su “La Nazione”
Cominciamo dalle parole, per le quali lei dimostra un forte amore. “Rancura” e “ciglieri” sono di antica matrice. Le sono servite anche per sollecitare il suo estro creativo?
“Rancura” ha un’origine letteraria, “ciglieri” vernacolare. Il secondo termine certamente ha contribuito a evocare l’infanzia, a ricostruirne il mito e la dura realtà (quella della vita di campagna in toscana: “ciglieri” viene dal latino “cellarium”, era il luogo delle botti e delle bigonce nelle case contadine). In una stesura originaria le parole toscane della mia infanzia erano più frequenti, ma nella revisione diverse sono cadute (non volevo essere scambiato per un “linguaiolo” compiaciuto per il vocabolario eccentrico che usa). Il primo invece è venuto fuori a libro chiuso, quando dovevo trovare un titolo. Proviene da Montale che lo usa in Ossi di seppia per indicare il rancore che unisce e divide padri e figli. Però il termine ha anche un’altra accezione, quella che si trova in Dante (nel canto dei superbi, nel Purgatorio): vale “sofferenza”, “dolore”, “rovello interiore”. Entrambe queste accezioni sono presenti nei protagonisti del romanzo.
Di Lucca, la sua città di origine, e le sue campagne, nelle quali si svolge parte della trama del suo romanzo, cosa porta ancora dentro?
Nel romanzo c’è la città di Lucca, ci sono le campagne lucchesi e pisane e la montagna fra la Garfagnana e il pistoiese nella prima e nella seconda parte, e infine c’è la campagna senese nella terza parte (ma compare già alla fine della seconda). Lo scenario lucchese è quello della giovinezza di mio padre, che fece il maestro a Mastiano, e della mia infanzia. La casa di Porta Elisa, la vista sulle Mura, i portici me li porto dentro da sempre, nel bene e nel male. Anche perché la casa dell’infanzia, come ricorda Freud, è il palcoscenico di un trauma originario, il luogo da cui nasce la nevrosi con cui poi ognuno deve fare i conti per tutta la vita.
Sebbene, in queste sue pagine, abbiano rilievo descrizioni di paesaggi e di natura, non manca la tensione politica che, al pari della letteratura, ha vissuto con intensità. Cosa le è rimasto di questa passione?
Nel romanzo c’è anche la città, Roma, dove ho vissuto negli anni di piombo, fra il 1978 e il 1981 per fare attività politica in Democrazia Proletaria. Il protagonista, come d’altronde il sottoscritto, ha fatto anche il ’68, è finito in prigione per una manifestazione, e per un quindicennio (dal 1965 al 1981) si è occupato molto più di politica che di letteratura. Di quegli anni mi è rimasta una forte spinta alla solidarietà e alla ricerca di una felicità non solo privata ma collettiva. Chi, nei primi mesi del ’68, ha provato questa felicità collettiva, pubblica, non può rinunciarvi facilmente. Ho orrore del narcinismo (narcisismo+cinismo) oggi dominante.
La sinistra italiana, come emerge dal suo libro, ha vissuto e vive momenti conflittuali per certi aspetti autodistruttivi. Lei non sembra molto tenero con Sofri e con Capanna. Cosa è rimato di quella sinistra?
I giudizi negativi su Sofri e su Capanna non sono né miei né del protagonista, ma provengono da due personaggi, l’opinione dei quali non corrisponde necessariamente alla mia. La figura di Sofri è tratteggiata in modo più completo in un mio precedente romanzo breve, L’uso della vita. Il 68, uscito nel 2012 presso Transeuropa e dedicato al periodo delle lotte studentesche e operaie a Pisa. Non condivido il giudizio liquidatorio sul ’68 oggi molto di moda. Il suo limite è stato quello di una cultura politica che alla fine si è rivelata prigioniera degli schemi della III Internazionale. Ma il bisogno di una rottura radicale era profondo e l’esigenza di cambiare il mondo sacrosanta e ancora attuale.
La generazione di adesso è impersonata da Marcello, il nipote di Luigi Lupi, protagonista della lotta partigiana in Istria. Al di là di quello che ha già detto nel libro, cosa direbbe ai coetanei di Marcello riguardo all’attuale situazione politica?
Ogni personaggio di un romanzo, dice Borges, è un’allegoria. Marcello è allegoria del narcinismo oggi trionfante. C’è stato un salto. Fra il nonno e il padre, che, pur divisi dalla rancura, condividevano in fondo passioni e aspettative di cambiamento, e il nipote, anaffettivo e privo di speranze, c’è una rottura antropologica. Tuttavia nel romanzo c’è una coetanea di Marcello, la sorella Serena, che non ne condivide gli atteggiamenti e intende mantenere un rapporto col mondo dei padri. Ecco, io credo che i figli devono confrontarsi coi padri partendo ovviamente da posizioni diverse. Ma senza questo dialogo rischiano di restare intrappolati nell’eterno presente del mondo contemporaneo. Per quanto riguarda poi l’attuale situazione politica, io credo che essa interessi assai poco ai giovani. E’ un male? Certo. Ma forse potrebbe essere anche un bene: solo ponendosi al di là del suo orizzonte asfittico, potranno davvero cambiarla.
In questo romanzo, fortemente ancorato alla realtà, dove non manca il confronto, o, se vogliamo, il rapporto con la malattia e con la morte, persino per suicidio, Dio sembra essere assente. I suoi personaggi rifuggono la speranza?
La speranza non è necessariamente legata alla religione. I protagonisti della parte prima e seconda, pur restando estranei a ogni ideologia religiosa, hanno speranze, sino alla fine, come mostra la lettera che il figlio di Luigi Lupi, Valerio, invia prima di morire a un gruppo di operai di Carrara per pregarli di portare una bandiera rossa al suo funerale.
INTERVISTA DI VINCENZO PARDINI
INTERVISTA DI VINCENZO PARDINI, uscita il 12 marzo 2016 su “La Nazione”
[b]Cominciamo dalle parole, per le quali lei dimostra un forte amore. “Rancura” e “ciglieri” sono di antica matrice. Le sono servite anche per sollecitare il suo estro creativo?[/b]
“Rancura” ha un’origine letteraria, “ciglieri” vernacolare. Il secondo termine certamente ha contribuito a evocare l’infanzia, a ricostruirne il mito e la dura realtà (quella della vita di campagna in toscana: “ciglieri” viene dal latino “cellarium”, era il luogo delle botti e delle bigonce nelle case contadine). In una stesura originaria le parole toscane della mia infanzia erano più frequenti, ma nella revisione diverse sono cadute (non volevo essere scambiato per un “linguaiolo” compiaciuto per il vocabolario eccentrico che usa). Il primo invece è venuto fuori a libro chiuso, quando dovevo trovare un titolo. Proviene da Montale che lo usa in Ossi di seppia per indicare il rancore che unisce e divide padri e figli. Però il termine ha anche un’altra accezione, quella che si trova in Dante (nel canto dei superbi, nel Purgatorio): vale “sofferenza”, “dolore”, “rovello interiore”. Entrambe queste accezioni sono presenti nei protagonisti del romanzo.
[b]Di Lucca, la sua città di origine, e le sue campagne, nelle quali si svolge parte della trama del suo romanzo, cosa porta ancora dentro?[/b]
Nel romanzo c’è la città di Lucca, ci sono le campagne lucchesi e pisane e la montagna fra la Garfagnana e il pistoiese nella prima e nella seconda parte, e infine c’è la campagna senese nella terza parte (ma compare già alla fine della seconda). Lo scenario lucchese è quello della giovinezza di mio padre, che fece il maestro a Mastiano, e della mia infanzia. La casa di Porta Elisa, la vista sulle Mura, i portici me li porto dentro da sempre, nel bene e nel male. Anche perché la casa dell’infanzia, come ricorda Freud, è il palcoscenico di un trauma originario, il luogo da cui nasce la nevrosi con cui poi ognuno deve fare i conti per tutta la vita.
[b]Sebbene, in queste sue pagine, abbiano rilievo descrizioni di paesaggi e di natura, non manca la tensione politica che, al pari della letteratura, ha vissuto con intensità. Cosa le è rimasto di questa passione?[/b]
Nel romanzo c’è anche la città, Roma, dove ho vissuto negli anni di piombo, fra il 1978 e il 1981 per fare attività politica in Democrazia Proletaria. Il protagonista, come d’altronde il sottoscritto, ha fatto anche il ’68, è finito in prigione per una manifestazione, e per un quindicennio (dal 1965 al 1981) si è occupato molto più di politica che di letteratura. Di quegli anni mi è rimasta una forte spinta alla solidarietà e alla ricerca di una felicità non solo privata ma collettiva. Chi, nei primi mesi del ’68, ha provato questa felicità collettiva, pubblica, non può rinunciarvi facilmente. Ho orrore del narcinismo (narcisismo+cinismo) oggi dominante.
[b]La sinistra italiana, come emerge dal suo libro, ha vissuto e vive momenti conflittuali per certi aspetti autodistruttivi. Lei non sembra molto tenero con Sofri e con Capanna. Cosa è rimato di quella sinistra?[/b]
I giudizi negativi su Sofri e su Capanna non sono né miei né del protagonista, ma provengono da due personaggi, l’opinione dei quali non corrisponde necessariamente alla mia. La figura di Sofri è tratteggiata in modo più completo in un mio precedente romanzo breve, L’uso della vita. Il 68, uscito nel 2012 presso Transeuropa e dedicato al periodo delle lotte studentesche e operaie a Pisa. Non condivido il giudizio liquidatorio sul ’68 oggi molto di moda. Il suo limite è stato quello di una cultura politica che alla fine si è rivelata prigioniera degli schemi della III Internazionale. Ma il bisogno di una rottura radicale era profondo e l’esigenza di cambiare il mondo sacrosanta e ancora attuale.
[b]La generazione di adesso è impersonata da Marcello, il nipote di Luigi Lupi, protagonista della lotta partigiana in Istria. Al di là di quello che ha già detto nel libro, cosa direbbe ai coetanei di Marcello riguardo all’attuale situazione politica?[/b]
Ogni personaggio di un romanzo, dice Borges, è un’allegoria. Marcello è allegoria del narcinismo oggi trionfante. C’è stato un salto. Fra il nonno e il padre, che, pur divisi dalla rancura, condividevano in fondo passioni e aspettative di cambiamento, e il nipote, anaffettivo e privo di speranze, c’è una rottura antropologica. Tuttavia nel romanzo c’è una coetanea di Marcello, la sorella Serena, che non ne condivide gli atteggiamenti e intende mantenere un rapporto col mondo dei padri. Ecco, io credo che i figli devono confrontarsi coi padri partendo ovviamente da posizioni diverse. Ma senza questo dialogo rischiano di restare intrappolati nell’eterno presente del mondo contemporaneo. Per quanto riguarda poi l’attuale situazione politica, io credo che essa interessi assai poco ai giovani. E’ un male? Certo. Ma forse potrebbe essere anche un bene: solo ponendosi al di là del suo orizzonte asfittico, potranno davvero cambiarla.
[b]In questo romanzo, fortemente ancorato alla realtà, dove non manca il confronto, o, se vogliamo, il rapporto con la malattia e con la morte, persino per suicidio, Dio sembra essere assente. I suoi personaggi rifuggono la speranza?[/b]
La speranza non è necessariamente legata alla religione. I protagonisti della parte prima e seconda, pur restando estranei a ogni ideologia religiosa, hanno speranze, sino alla fine, come mostra la lettera che il figlio di Luigi Lupi, Valerio, invia prima di morire a un gruppo di operai di Carrara per pregarli di portare una bandiera rossa al suo funerale.
Il disagio di un autore avventizio su Letteratitudine
Questo intervento è uscito su https://letteratitudinenews.wordpress.com/2016/03/11/romano-luperini-racconta-la-rancura/
IL DISAGIO DI UN AUTORE AVVENTIZIO
1.
Per un critico e un saggista saltare il fosso e collocarsi dall’altra parte, quella di chi è valutato e giudicato, non è facile. Il rischio è quello di rovinarsi una identità già assodata, di avventurarsi in un campo nuovo e inesplorato. Come autore di romanzi, insomma, sono un autore avventizio.
Perché dunque? Cosa me lo ha fatto fare?
Ho patito una gravissima malattia che mi ha condotto due volte sulla soglia della morte. Ho avuto una lunghissima convalescenza (a dire il vero, dopo più di tre anni, non ancora conclusa), ho lasciato l’università e sono andato in pensione. Sono entrato così come in un limbo in cui motivi esistenziali e psicologici, a lungo tenuti sotto controllo, sono emersi con forza. Per quali travasi del sangue io sono io? Che rapporto c’è fra le generazioni, fra mio nonno, mio padre e me? Quale continuità, quale rottura? E anche: esiste una ragione valida per continuare a vivere, a dare senso (un qualche precario e provvisorio senso) alla vita?
Nello stesso tempo ho avvertito sempre di più il bisogno di superare il muro di vuoto e di silenzio contro cui, da trenta anni a questa parte, batte la testa il critico letterario. Quando ero un saggista esordiente o alle prime armi, dopo il Sessantotto e ancora per tutti gli anni Settanta, i miei scritti avevano un’eco nella società civile e nei movimenti di lotta. Ancor oggi mi capita di incontrare medici, insegnanti, avvocati, a volte anche operai, che conservano il ricordo di quei saggi che evidentemente, pur occupandosi di temi letterari e culturali, avevano per loro anche un interesse in qualche modo politico. Poi l’impatto con la società si è ridotto sin quasi a scomparire: oggi un libro di critica o di teoria letteraria circola perlopiù solo in un ambito asfittico, molto ristretto e specialistico. Così da un lato mi trovavo senza più interlocutori, dall’altro argomenti e temi che in questi ultimi anni hanno suscitato in me interrogativi e riflessioni rischiavano di restare inespressi. Per esempio: cosa è cambiato dagli anni del fascismo a oggi? Perché avverto una rottura antropologica non con mio padre e nemmeno con mio nonno, ma con quanti sono nati dopo gli anni settanta del Novecento?
Come rispondere contemporaneamente a queste domande esistenziali e politiche? Scrivere un romanzo mi è sembrata una risposta plausibile, un romanzo che affrontasse, insieme, la storia d’Italia dal fascismo a oggi, quella delle generazioni che si sono succedute e dei conflitti che le hanno contrapposte, e anche la ricerca privata e contraddittoria di un senso nelle uniche cose che per me contano: i rapporti degli uomini fra loro e con la natura, il confronto con i padri e quello che avvicina e spesso contrappone uomini e donne, il maschile e il femminile.
2.
Il romanzo è La rancura, l’editore Mondadori. Il titolo rinvia a un verso in cui Montale vede nella “rancura” o rancore il segno del rapporto fra figli e padri. Però “rancura” è termine attestato anche da Dante che lo usa nel Purgatorio per indicare lo stato di sofferenza dei superbi. Indica in questo caso “sofferenza”, “dolore”, “rovello interiore”. Entrambe queste accezioni caratterizzano i tre protagonisti del libro, a ciascuno dei quali è dedicata una parte del romanzo. Essi però ritornano anche nelle due parti in cui essi non hanno un ruolo principale, seppure con un cambiamento di prospettiva: mentre, infatti, nella parte in cui sono protagonisti sono visti dall’interno in modo simpatetico, nella parte successiva sono giudicati dall’esterno, spesso con polemico rancore. I tre personaggi così risultano volutamente sfaccettati, complessi, contraddittori. Mai chiusi in un giudizio, mai univoci.
Sotto l’apparenza di un romanzo generazionale, si succedono, nelle sue tre parti, tre romanzi, ciascuno dei quali segnato da uno stile e da un tipo di scrittura diversi. Il primo romanzo rientra nel genere del “memoriale” e del romanzo storico, e si riferisce a Luigi Lupi, prima contadino, poi maestro negli anni del fascismo, infine comandante partigiano in Istria, fra combattenti titini e repubblichini di Salò, negli anni delle foibe. Il secondo è un romanzo autobiografico o meglio un’autofiction. Protagonista è il figlio di Luigi, Valerio, che in prima persona racconta la propria vita dall’infanzia e dalla giovinezza sino al Sessantotto, agli anni di piombo e alla morte del padre. Il terzo è un racconto oggettivo in terza persona. Protagonista è il figlio del figlio, Marcello, che all’inizio dell’estate del 2005, in piena epoca berlusconiana, ritorna in Italia da Londra dove vive per cercare di vendere la casa del padre. Fra il secondo e il terzo romanzo c’è una ellissi, un vuoto: si passa bruscamente dal 1982 al 2005.
In questo vuoto è avvenuto qualcosa, una sorta di rottura antropologica che rende Marcello, personaggio cinico e anaffettivo, del tutto diverso dal padre come dal nonno che, pur contrapponendosi fra loro, avevano tuttavia aspettative e speranze comuni, non più condivise dall’ultimo rappresentane della famiglia.
3.
Sinora avevo scritto di narrativa con la mano sinistra, di nascosto, quasi vergognandomene, piccole opere uscite presso editori minori (Manni, Sellerio, Transeuropa). Questo invece è un vero romanzo, pubblicato da un grosso editore. Ma mi resta dentro un senso di disagio. E non solo perché, come scrittore, mi sento fatalmente un autore avventizio.
Il romanzo si è esaurito a un mese dall’uscita e attualmente è in ristampa. Diceva Saba che per l’autore il successo è l’assoluzione dal peccato di aver pubblicato. Non so. Il successo non è più quello di allora, quando esisteva ancora una società letteraria ed esso era decretato da un pugno di persone che era facile conoscere e riconoscere. Oggi queste mediazioni non esistono più, l’autore ha davanti a sé solo un pubblico anonimo e indifferenziato, e la lista dei top ten contiene figure spesso, sotto il profilo etico ed estetico, poco raccomandabili. Sono confuso. Ho paura che vergogna e disagio continueranno ad accompagnarmi.
Romano Luperini
Pellini su Alfapiù del 19 aprile 2016
Pierluigi Pellini
Il quarto romanzo di Romano Luperini, La rancura, dà provvisorio compimento all’opera narrativa del nostro maggiore studioso di letteratura contemporanea, e non soltanto perché è il primo ad essere accolto in una collana prestigiosa («Scrittori italiani e stranieri») di un grande editore. Piuttosto perché della precedente opera narrativa dell’autore si presenta come summa e, a tratti, riscrittura, ma dentro un progetto assai più ambizioso, che non abbraccia più soltanto un’epoca della vita del protagonista (il Sessantotto pisano nel più recente, e bello, L’uso della vita, Transeuropa 2013; l’invecchiamento nel meno riuscito L’età estrema, Sellerio 2008), né si limita ad accostare frammenti memoriali, come faceva quella sorta di Ur-Roman luperiniano che era il libro d’esordio, I salici sono piante acquatiche, uscito per i tipi di Manni nel 2002 e già segnato da alcuni dei caratteri decisivi che torneranno costantemente nelle prove più recenti: la manipolazione del materiale autobiografico, la dialettica generazionale, il rifiuto di accogliere sulla pagina il côté accademico della vita dell’autore – scrittore-intellettuale, non romanziere-professore, Luperini è agli antipodi rispetto al racconto postmoderno di college o di convegno.
Nella Rancura – titolo montaliano (ma già dantesco) che allude a un conflitto generazionale, a un sentimento di rivalsa del figlio nei confronti del padre, e più precisamente a una richiesta, al tempo stesso aggressiva e implorante, di riconoscimento – alla parabola esistenziale del protagonista autobiografico (Valerio Lupi, nato, come Romano Luperini, nel 1940, e come lui figlio di un eroe della Resistenza), che pure domina indirettamente l’intero libro, è dedicata esplicitamente solo la parte centrale, Il figlio (1945-1982), mentre la prima, Memoriale sul padre (1935-1945) e la terza, Il figlio del figlio (2005), completano una sorta di saga familiare (c’è anche il nonno, nelle campagne premoderne della Toscana di primo Novecento) che è al tempo stesso romanzo storico: le vicende della famiglia Lupi – dalla lotta antifascista del padre, Luigi, all’impegno politico e intellettuale del figlio, Valerio (il Sessantotto, la nuova sinistra), al disincanto postmoderno del figlio del figlio, Marcello, trenta-quarantenne non uscito d’adolescenza e nutrito di uno scetticismo a tratti cinico – riassumono esemplarmente quelle della Nazione.
Se Luperini adotta soluzioni strutturali desunte da un filone assai in voga negli ultimi decenni, quello dell’autobiografica infedele (o autofiction), non lo fa, come molti, per affermare l’interscambiabilità di reale e virtuale, ma al contrario per ribadire un’inattuale fiducia nel significato collettivo dell’esistenza individuale, per dare più icastico risalto al legame inscindibile fra la sorte del singolo e i destini generali. Se così il personaggio autobiografico muore, nel libro, nel 2005, è perché l’autore si percepisce come antropologicamente estraneo rispetto ai modelli culturali che dominano l’Occidente postmoderno. Al contrario, al rapporto con il padre, pur aspro e denso di incomprensioni, pur ricondotto in prima istanza a una classica vicenda edipica (Luigi è l’eroe, forte, vittorioso, schiacciante, che rifiuta alle lotte politiche e alle passioni intellettuali del figlio la dignità eroica di cui incontestabilmente si ammanta la Resistenza), offriva una base di almeno potenziale dialogo la condivisione di un ethos che non concepiva l’esistenza del singolo fuori da un tessuto di legami, e di conflitti, politico-sociali.
Di certo La rancura è anche questo: un romanzo storico, familiare, generazionale, politico, d’impianto nobilmente tradizionale e perfino di ottocentesca leggibilità, che prova a delineare il senso delle vicende italiane dalla seconda guerra mondiale fino al secolo XXI – ambizione condivisa con altri romanzi importanti come La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro; o, in altri contesti, Les Années di Annie Ernaux e naturalmente l’insuperato Underworld di Don DeLillo. E tuttavia, come questi e altri libri, quello di Luperini non sarebbe bello se l’ossatura ideologica, che pure è l’a priori necessario, capace di dare una forma, una prospettiva e un senso all’invenzione letteraria, non si sgretolasse in tutto o in parte nelle ambivalenze della scrittura, nella polifonia del racconto. Perché il senso complessivo si disperde, e di un’intera esistenza sopravvivono solo, modernisticamente, «pochi frammenti» epifanici. E perché Luigi è meno eroico, Marcello meno cinico e inconsistente, Valerio meno giusto di quanto l’apparente costruzione «a tesi» dà superficialmente a intendere.
Luigi Lupi è per molti versi un eroe per caso, se è vero che l’aspetto dominatore, castrante per il figlio spaurito, nasconde fragilità, solitudine, marginalità. Se ha trovato – come spiega una pagina molto bella – «il filo della propria corrente», trasformando in «carattere, personalità» un grumo di pulsioni contraddittorie ereditate per via di sangue o di classe, è per «bisogno di rivalsa contro l’insensatezza e la depressione sempre in agguato», non per convinzione ideologica. Quando un suo amico e collega (insegnano alle elementari, in campagna), Nullo, fascista di sinistra di evidenti ascendenze anarchiche, dopo essere finito nelle squadracce repubblichine, ed essersi macchiato di crimini di guerra, viene catturato e condannato a morte dai partigiani, l’incontro fra i due, nella sua improbabile esemplarità, è forse il momento in cui con maggiore e più intensa pertinenza. Dialogano qui il narratore e il critico (e precisamente l’autore de L’incontro e il caso, saggio su un grande tema della modernità pubblicato nel 2007 da Laterza e oggi inspiegabilmente fuori catalogo): la rievocazione di una visita d’anteguerra al bordello di Lucca riprende e strania l’explicit dell’Educazione sentimentale, non senza una citazione quasi letterale della frase che certifica, in Flaubert, il definitivo fallimento esistenziale del primo inetto modernista, Frédéric Moreau: «quello è stato il momento migliore per noi».
All’altro capo del romanzo, la liquidazione dell’eredità paterna (materiale e morale) operata dal «figlio del figlio», Marcello, è certo sbrigativa, cinica, a tratti perfino brutale, ma sempre venata di ambiguo stupore, di infastidita tenerezza, e insomma di sotterranea ambivalenza. Se il Luperini critico ha combattuto e combatte la cultura del postmodernismo con una durezza senza sconti – oggettivamente eccessiva: perché, eleggendolo a testa di turco, ha fatto dell’ilare disimpegno postmodernista un’entità a tratti caricaturale, negando all’avversario quella complessità esistenziale e ideologica in cui critici di altre generazioni hanno potuto riconoscere non solo i tratti di un Postmodern Impegno (questo il titolo di un volume edito nel 2010 da Peter Lang, a Berna) ma anche i risvolti sofferti, perfino tragici anziché euforici, del dominante nichilismo –, il romanziere non cede alla tentazione di fare di Marcello semplicemente un vilain. Dandogli la parola, non ne esibisce solo la disinvoltura anaffettiva e egoista; gli deve riconoscere anche una lucidità disincantata, capace a tratti di dire il vero sulle colpe, le ingenuità e le illusioni della generazione dei padri. Marcello non sempre ha torto quando rovescia in parodia il memoriale erotico-statunitense del padre (è il manoscritto dell’Età estrema, nella finzione della Rancura dedicato all’amore con una musiliana Claudine, e rimasto inedito); probabilmente ha ragione quando invita (se stesso, innanzitutto) a diffidare del pathos struggente e degli slanci poetici, perché «quando uno liricheggia mente sempre». Peraltro, il «figlio del figlio», scrittore di genere in crisi creativa, a suo modo nipotino di Calvino e delle nuove avanguardie integrate, che vorrebbe «riuscire a scrivere senza lasciar trapelare mai un’emozione», è paradossalmente più vicino al Luperini critico militante, sostenitore fra gli altri del gruppo ’93, di quanto non lo sia l’autore della Rancura, che punta sulla forza comunicativa delle emozioni, per parlare a un pubblico più vasto di quello, specialistico e residuale, cui oggi si rivolge la critica letteraria.
La morte del protagonista, Valerio, con il conseguente accesso di Marcello ai privilegi del punto di vista, è dunque scelta strutturale decisiva: se per un verso rischia di introdurre qualche scompenso linguistico (Luperini ha certamente più agilità nel padroneggiare il dettato stilistico delle prime due parti del romanzo, che in continuità con i libri precedenti si riallacciano, per dirla schematicamente, a quella linea di realismo toscano incarnata soprattutto da un narratore come Bilenchi, non a caso più volte citato dai personaggi), per un altro realizza una compiuta polifonia, relativizza le tesi del protagonista autobiografico, dà voce a un conflitto che da entrambe le parti cela, sotto mentite spoglie di sferzante sicurezza, fragilità esistenziali e intellettuali, e soprattutto ansia di riconoscimento – non meno di quello fra Valerio e il padre partigiano. Cosicché da una struttura narrativa al tempo stesso «ottocentesca» e sperimentale, da un montaggio denso di ambivalenze nella sua semplicità – e non dall’apparente tesi engagée – si sprigiona nella Rancura «un senso precario, relativo, ma utile» per noi.