Tra le notizie di attualità che giungono dalla Palestina in questi giorni la morte del dottor Hashem Azzeh ha destato particolare sgomento perché era un punto di riferimento della resistenza non violenta in Cisgiordania. La sua storia esemplare era comparsa in numerosi video e in parte anche nel bel reportage Rai dal titolo This is my land, girato qualche anno fa da un’italiana e un israeliano proprio ad Hebron. Michele Giorgio sul Manifesto di venerdì ha scritto di lui e delle circostanze della sua morte http://ilmanifesto.info/hashem-azzeh-esistenza-come-resistenza/. Sara Montagnani ha conosciuto Azzeh nel 2011 durante un soggiorno in quei territori: in questi giorni di nuova (e vecchia) emergenza in Palestina, il nostro blog pubblica il reportage di Montagnani scritto a Hebron nel 2011, con la speranza che questa piccola storia di resistenza arrivi ai lettori italiani.
Se avessi contemplato il volto della vittima
E riflettuto, ti saresti ricordato di tua madre nella camera
A gas, avresti buttato via le ragioni del fucile
E avresti cambiato idea: non è così che si ritrova un’identità.
(M.Darwish, Stato d’assedio)
I
Arriviamo ad Hebron il giorno dopo una nottata di arresti. L’esercito occupante stanotte ha catturato centinaia di persone. Dicono oltre quattrocento prigionieri in una sola notte. Molti minorenni, qualche combattente. La maggior parte dei palestinesi che incrocio, mentre spingono i loro carretti di frutta avvizzita, fumano ai bordi della strada o girano affaccendati per chissà dove. Dopo l’incubo di una nottata di arresti, gli abitanti di Hebron si svegliano come ogni giorno e il loro inferno ci accoglie sotto il solito sole. La luce qui non scaccia i fantasmi.
La città, da lungo tempo cuore pulsante dell’economia palestinese, ha al suo interno un insediamento ebraico tra i più violenti dei Territori. Circa cinquecento coloni, protetti da quattromila soldati e un numero imprecisato di contractors privati, tengono in scacco centoquarantamila abitanti palestinesi. I settlers qui sono un manipolo di ultraortodossi, che nel 1982 lasciò Brooklyn per mirare al cuore della Palestina storica. A protezione del loro delirio criminale, il centro storico di Hebron è stato diviso da numerosi checkpoint dell’esercito israeliano in due zone: H1, in cui i palestinesi possono vivere e lavorare e H2, di fatto in mano ai coloni, in cui i palestinesi possono solo vivere, ma non lavorare o aprire i negozi. Le vie del suq della zona H1 sono state coperte da una rete metallica, nel tentativo di proteggere i passanti dalla spazzatura o da oggetti di ogni tipo lanciati dalle finestre delle case sovrastanti occupate dai coloni; ma la rete non protegge gli avventori dal lancio di molotov, acido o urina sui banchi del mercato sottostante. La zona H2 è invece una città fantasma, polverosa e muta come certi set dei film western. L’esercito israeliano ha sigillato le porte di tutti i negozi palestinesi con saldature metalliche e suggellato questa cosiddetta operazione di sicurezza tracciando con lo spray, metodicamente su ogni porta sbarrata, una stella di David. Durante gli anni della seconda Intifada la zona H2 è stata sottoposta ad un severo regime di coprifuoco; ma tutt’oggi i palestinesi preferiscono non uscire di casa, se non, costretti, per recarsi al lavoro. Se i negozi chiusi con la stella di Davide sopra non bastassero ad evocare un passato ben noto, sul muro, vicino all’unica scuola palestinese rimasta nella parte vecchia, campeggia una scritta spray inequivocabile: gas the arabs.
II
Al lato di una delle strade principali Hashem ci fa segno di accostare. Il primo dei numerosi checkpoint, che strangolano il centro storico di Hebron, dista poco più di cinquanta metri da quel marciapiede affollato e va superato a piedi. Le sue raccomandazioni incombono da subito sul calore dell’ospitalità palestinese. Dobbiamo camminare vicini, in gruppo, non incrociare lo sguardo dei coloni. Fingere di ignorarli anche quando brandiscono le armi o urlano le loro furiose litanie. Anche quando i loro pallidi bambini smunti lanciano i sassi con il preciso intento di ferire.
Oltrepassato uno dei checkpoint di ingresso alla zona H2, il silenzio disumano di un quartiere depredato dei suoi abitanti cala come una scure a dividere i pochi metri del varco. Davanti a noi, una violenza muta, sorda e mortifera si è impossessata di quel prezioso centro storico. Nessuno osa muoversi al cospetto di queste case orrendamente mutilate, dei negozi deturpati, delle facciate incarcerate da gabbie metalliche e murate vive. Solo i raffinati arabeschi di palazzi un tempo signorili si ostinano ora ad ornare quest’ecatombe, senza renderla meno spaventosa. Non possiamo sostare troppo a lungo in prossimità del checkpoint. Procediamo disciplinati e attoniti in questo squallore funesto, mentre Hashem ci indica, ad una ad una, le macerie della loro vita assediata. Dove c’erano i giardini terrazzati di ulivi, svettano oggi le torrette militari. Di un’intera area popolata di case, è rimasto solo un lugubre reticolato di fondamenta; gli edifici sono stati completamente rasi al suolo. Sulla via maestra, lì sotto, si erge imponente una caserma israeliana a schiacciare l’arteria principale del centro. Il presidio militare, ci racconta Hashem, è frequentato da coloni e soldati, che qui si confondono, sodali e complici nel loro turpe gioco di sponda. Nelle festività ebraiche, continua il nostro amico, il silenzio livido di Hebron si gonfia dei loro canti religiosi. Cantano e ballano insieme la loro macabra danza sulle rovine del ghetto distrutto.
Hashem si muove sicuro in questa città dei morti, dove la violenza ti sta addosso come in nessun altro luogo. Per noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, invece, è davvero difficile considerare che quella degli abitanti arabi di Hebron sia vita. Il nostro sguardo su quel baratro è scosso dal saluto odioso di un giovanesoldato. Welcome to Israel. Sorride fiero della sua provocazione; accanto altri militari, annoiati dalla canicola, se la ridono. Un bambino di dieci anni forse ci mostra rabbioso il suo dito medio. Il viso contratto come un pugno, sotto gli occhi truci della madre colona. Oltre non possiamo precedere. Al nostro amico Hashem l’utilizzo della strada è interdetto perché arabo. Noi scegliamo di stare con lui e non dividere neppure il selciato coi suoi aguzzini.
Oltrepassato un altro checkpoint, camminiamo con cautela e orrore nella zona H1. Per le vie di Hebron fatte a pezzi da tornelli e metal detector, attraverso i vicoli soffocati dalla spazzatura dei coloni, sotto la rete metallica che imprigiona ciò che resta del mercato arabo. Finché non ci fermiamo in prossimità della Tomba dei Patriarchi. L’edificio, comune alle tre religioni, ora sotto protezione dell’Unesco, è stato requisito dagli occupanti che ne controllano l’accesso da ogni parte. Shalom, pace. Sibilano altri militari israeliani a piantonare l’ingresso per gli arabi. Un saluto che è un oltraggio. Poi, fingendo cortesia, mi indicano con scherno come poter raggiungere il monumento a Baruch Goldstein. Nel 1994, durante un venerdì di preghiera, il colono Goldstein entrò nella moschea gremita di fedeli massacrando ventinove palestinesi e ferendone oltre duecento. Il monumento, eretto in onore della sua impresa, è tutt’oggi oggetto di culto da parte degli israeliani.
III
La casa di Hashem ha le finestre chiuse da protezioni metalliche e proiettili conficcati nei muri. Nel giardino di proprietà della sua famiglia un gruppo di coloni ha piazzato un enorme container e iniziato un feroce assedio della loro abitazione. Hanno cominciato tagliando i tre grossi ulivi del primo terrazzamento. Dopo hanno offerto loro dei soldi perché se ne andassero. Poi hanno bloccato anche l’ingresso principale della casa; così per accedervi, ora occorre arrampicarsi attraverso le rovine di un tratto del muro. Quando mio padre morì non fu possibile far passare la bara da quella strettoia, ricorda Hashem. Lui e il fratello dovettero calarla dall’alto di un muro scosceso di diversi metri. Il volto alterato del nostro amico non si scompone nel raccontare quella ennesima umiliazione; continua piuttosto a portarne silenziosamente i segni indelebili. La frattura della mandibola, del setto nasale e la perdita di alcuni denti sono più di un ricordo delle incursioni dei suoi vicini fin dentro la sua abitazione. Testimoniano delle continue violenze contro di lui, la sua famiglia, i suoi bambini. Quando si sono accorti della moglie incinta, la loro ira si è avventata con maggior livore sul ventre gravido della donna. Costringendola ad abortire due volte. I suoi figli ora devono raggiungere quella unica scuola rimasta nella parte vecchia della città scortati dagli internazionali. Troppi dei loro compagni sono rimasti feriti o uccisi dalle aggressioni dei coloni. Sotto lo sguardo vigile e immobile dei soldati.
Incalzato dalla moglie, Hashem ci fa accomodare nel piccolo salotto della loro casa, dove le finestre non si affacciano più da nessuna parte. Non c’è più il giardino con gli ulivi argentati, ora ci sono i coloni che sparano. Mentre la moglie ci offre del tè, Hashem fa partire alcuni video. Si vedono le incursioni dei soldati, persone portate via a forza, i militari che sigillano i negozi. Famiglie intere di coloni fuori dalla scuola lanciare urla e sassi sulle bambine palestinesi e le loro maestre. Per quegli sporchi internazionali, invece, spintoni e un’accusa inaccettabile. Antisemiti. Davanti alle scene più crude di quei pestaggi, distolgo dal video lo sguardo sconvolta; ma i disegni dei bambini alle pareti, tra palmizi e il mare che non hanno mai visto, ritraggono sangue e morti ammazzati. Non c’è tregua tra queste povere mura assediate che non riparano più.
Fuori nel frattempo una luce gelida riverberata dal gigantesco container squarcia questa mite notte mediorientale. E’ un bagliore inumano che rende il buio accecante disseminato di ombre spaventose. Lentamente ci facciamo strada nell’oscurità scoscesa del giardino, come un silenzioso corteo funebre. Davanti al checkpoint, giù in fondo alla via, ci attende l’immagine della famiglia di Hashem a vegliare la salma del padre. Aspettano nel loro dolore muto che i soldati lascino passare il feretro. E’ lì, sotto gli occhi dei suoi cari e per sempre nel ricordo delle parole di Hashem, che un militare ventenne spacca le ossa del braccio al vecchio padre defunto. Era infastidito dalla presenza di un orologio da polso, che provocava la reazione del metal detector. Neppure i morti qui hanno visto la fine dell’occupazione.
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