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L’ultima possibilità. Il DDL Giannini, la scuola, la pedagogia

I due versanti del DDL Scuola

Il disegno di legge del governo Renzi La buona scuolaha un segno chiaramente aziendalistico, autarchico e antidemocratico. E’ funzionale alla logica economica e alle esigenze dei poteri finanziari che vogliono asservire la scuola e l’educazione agli interessi dei mercati. A riprova di quanto affermato basta elencare alcune delle disposizioni contenute dal DDL:

  • entrata degli sponsor privati nei programmi e nei piani dell’offerta formativa (che divengono triennali, senza possibilità di essere rimodulati e dunque privi di una vera progettualità pedagogica);

  • la chiamata diretta ad opera dei dirigenti scolastici supermanager;

  • l’istituzionalizzazione e incentivazione del middle managment d’istituto che svuota il carattere democratico e partecipativo delle decisioni collegiali;

  • la svalorizzazione sistematica del carattere umanistico della formazione;

  • l’enfatizzazione di parole d’ordine come ‘competenze’ (in cui risuona l’eco del verbo ‘competere’) ed ‘efficienza’ (intesa all’interno di una dinamica di costi/benefici);

  • la precarizzazione del mestiere dell’insegnante con l’estensione alla scuola delle logiche del Job’s Act;

  • l’esclusione d’ufficio dei precari di lunga data (è così che il governo intende risolvere la questione del precariato);

  • l’uso del 5X1000 per finanziare i progetti delle scuole, il che implica due scelte: 1) è scontato che non s’investirà a sufficienza denaro pubblico nella scuola (come del resto è stato scritto nero su bianco sul documento “La buona scuola” 2) aumenteranno le diseguaglianze tra le scuole e tra i territori;

  • la confusione caotica di progetti di formazione e di preparazione dei futuri insegnanti che dovranno autofinanziarsi salati percorsi formativi che non garanttiranno il reclutamento a scuola (come già i TFA);

  • un progetto di evoluzione del sostegno (su cui presto torneremo con un intervento dedicato, poiché l’inclusione è il punto sensibile di tutto il nostro sistema scolastico) che presenta due aspetti: 1) un dominio del carattere clinico sulla disabilità e 2) una progressiva diminuzione dell’organico specializzato per il futuro.

In questo quadro, vi sono poi delle dimenticanze (come notato anche da Tullio De Mauro), non da ultimo l’assenza di misure per una politica scolastica in favore della scuola meticciata, che ormai è la nostra scuola. A questo indirizzo, drasticamente direttivo da una parte -il versante economicista- e riduttivo dall’altro – il versante pedagogico – si aggiunge la scelta del governo di mantenere otto deleghe sul Ddl, tramite le quali potrà non tener conto di quanto deciderà il parlamento.

L’ultima possibilità

Il DDL del governo Renzi è regressivo e reazionario e rischia di demolire l’architettura stessa della scuola pubblica repubblicana e democratica. In parlamento i giochi sono praticamente fatti, visto il controllo esercitato dal Pd sul governo e da Renzi sul Pd. L’unica possibilità per far indietreggiare il governo, dunque, può solo passare attraverso la mobilizzazione e la ribellione esplicita di insegnanti, dirigenti scolastici, famiglie che ormai hanno preso coscienzache con questo provvedimento viene colpita al cuore la scuola della costituzione, gratuita, libera e aperta a tutti. La rivolta degli insegnanti (a tal proposito va rammentato per dovere di cronaca che le mobilitazioni dal basso sono iniziate assai prima delle mobilitazioni sindacali), il risveglio critico di tante famiglie hanno dato la scossa ad un paese intontito da talk show addomesticati, rituali televisivi, stampa compiacente. Sta accadendo assai più di quello che vediamo sui tg.

La scuola che non è

La scuola italiana da anni è stata deprivata della parte più viva e profonda delle sua identità, cioè la preparazione e l’azione pedagogica. La scuola è stata colonizzata dallo sguardo clinico-diagnostico e da una concezione puramente procedurale della didattica. Il paradigma clinico-terapeutico e il didatticismo (come procedura standardizzata) sono diventati i due pilastri di un’operazione di svuotamento culturale del sistema scuolastico.  Il progetto la ‘Buona scuola’ prosegue su questa china e prefigura un sistema formativo rifunzionalizzato per rispondere ai bisogni del mondo dell’economia e dell’impresa, col fondato rischio di divenire un ingranaggio del meccanismo di riproduzione delle diseguaglianze sociali. La buona scuola non è una scuola aperta alla vita sociale, come la immaginavano John Dewey, oppure Célestin Freinet, non gioca le sue carte per formare l’uomo e il cittadino, si preoccupa semmai di preparare degli individui sufficientemente adatti e flessibili per le esigenze del nuovo capitalismo imprenditoriale e finanziario.

Da questo punto di vista la pedagogia non ha importanza, è disciplina desueta, priva di significatività e credibilità, anzi rappresenta un ostacolo sul cammino dell’innovazione. C’è molta fretta e insofferenza nell’aria: piuttosto che interrogarsi sui perché degli apprendimenti, sui nodi delle relazioni, sulle architetture didattiche, si imbocca la via breve degli specialismi tecnici e clinici della psicologia clinica-comportamentale.

La stessa modalità valutativa delle prove Invalsi, col loro nozionismo a pillole standardizzate, non fa che confermare questo orientamento: della valutazione al Miur hanno una concezione quantitativa e padronale e non collegiale e di processo.

La protesta e la pedagogia

In questo momento sta crescendo il movimento di protesta degli insegnanti contro il progetto del governo Renzi-Giannini. È molto probabile che il governo e il Ministero rimangano completamente sordi alle richieste degli insegnanti mobilitati e che il parlamento approvi il disegno di legge. Eppure non ascoltare quanto proviene dai movimenti sociali èun atteggiamento miope  che denota una concezione profondamente antidemocratica del governo ed anche, a ben vedere, una fragilità e inconsistenza dal punto di vista progettuale.

La progettualità adesso è altrove, non in mano ai decisori politici, ma tra il brusio e il fervore di insegnanti, studenti, famiglie. Ciò avviene per lo più a livello pre-politico, ma implicitamente già si intravede un paradigma pedagogico comune. Forse gli insegnanti che hanno scioperato e gli studenti che hanno manifestato non vi hanno riflettuto, ma a sfilare accanto a loro c’erano: Maria Montessori e la sua concezione della libera espressione delle potenzialità del bambino; Ernesto Codignola con la sua Scuola-città;  Johann Heinrich Pestalozzi, che accoglieva decine e decine di bambini sbandati dopo la guerra tramite l’organizzazione cooperativa dell’educazione;  Danilo Dolci, che introdusse i metodi non violenti della disobbedienza civile di Gandhi per lottare contro la mafia che opprimeva i contadini;  Raffaele Laporta, con la sua concezione attiva dell’apprendimento tramite una pedagogia di comunità; don Lorenzo Milani e al sua radicale critica delle diseguaglianze;  Antonio Banfi e la concezione problematizzante del processo d’insegnamento/apprendimento per cambiare la società e le sue strutture d’ingiustizia; e ancora Giovanni Maria Bertin;  Lamberto Borghi,Piero Bertolini che ripropongono la concezione di John Dewey sul nesso tra democrazia e educazione; e maestri come Aldino Bernardini e Mario Lodi, che seppero applicare con grandissima originalità la cooperazione educativa di Célestin Freinet per formare il ‘bambino democratico’ inserito in una società più accogliente e solidale. L’esperienza educativa e la volontà di resistenza di migliaia di insegnanti e studenti cammina fianco a fianco con i maestri delle pedagogie attive e critiche. Li muove un patrimonio comune che non si vuole disperdere. Quando i governi diventano sordi è arrivato il momento dell’insorgenza civile.

 

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