Cancellature. Il caso Elena Ferrante/5
Il dibattito apertosi negli ultimi mesi intorno a Elena Ferrante ha il merito di rendere manifeste le attuali modalità di ricezione della letteratura. L’effetto mediatico, lungi dall’esserne smorzato, è invece rafforzato dalla scelta di sottrazione di un profilo pubblico da parte dell’autrice, che dal 1992, anno dell’esordio con L’amore molesto, è sempre comparsa sulla scena letteraria con un nom de plume e scarne informazioni biografiche, e ha rilasciato alcune interviste, poi raccolte in La frantumaglia (Roma, e/o, 2007), sempre e solo in forma scritta. Di fronte a questa scelta, le reazioni della società letteraria, improntate a piccata irritazione o a sconfinata ammirazione, appaiono sempre un po’ fuori misura, e forniscono in ultima analisi una prova di cattiva coscienza. In questa eccessiva reattività intorno al tema della sottrazione dell’autore reale dalla scena pubblica, può leggersi infatti la prova di quanto la letteratura, nella comunicazione culturale, sia oggi di fatto totalmente asservita a fattori estrinseci, quali l’identità dell’autore, il suo ruolo pubblico, la commestibilità della sua immagine, la sua ascrivibilità a schieramenti e ambiti di varia mondanità. Il gioco di società intitolato “chi è Elena Ferrante”, apertosi in particolare dopo la candidatura dell’ultimo libro allo Strega, coinvolge anche chi non manifesta alcun interesse né intelligenza critica rispetto ai suoi libri. A farne le spese è naturalmente la letteratura, la lettura, la riflessione critica.
Rispetto al tabù dell’invisibilità, ai censori di Elena Ferrante sembra non bastare né la motivazione ‘personale’ dell’autrice (“Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno presto o tardi lettori; se no, no” – La frantumaglia, p. 10), né il sottofondo politico di tale scelta. Eppure, le questioni che Ferrante pone a un giornalista nel 1995 in occasione di un’intervista, non sembrano del tutto peregrine:
Voglio chiederle questo: un libro è, dal punto di vista mediatico, innanzitutto il nome di chi lo scrive? La risonanza dell’autore, o per dire meglio del personaggio d’autore che va in scena grazie ai media, è un supporto fondamentale per il libro? Non fa notizia, per le pagine culturali, che sia uscito un buon libro? Fa notizia piuttosto che un nome in grado di dire qualcosa alle redazioni abbia firmato un qualsiasi libro? (ivi, p. 51).
Si ha l’impressione che la volontà di anonimato dell’autrice, inizialmente imputabile a un privato “desiderio un po’ nevrotico di intangibilità” (ivi, p. 68), sia via via diventata una scelta di polemica culturale, ed abbia finito per farsi rivendicazione di un’alterità comunicativa. In un’altra intervista di alcuni anni più tardi, si può leggere la pretesa valenza politica di questa sparizione dell’autore, quando, a proposito della “trasformazione degli italiani in pubblico” avvenuta nel ventennio berlusconiano, Ferrante dichiara: “sono interessata a capire come la spettacolarizzazione della vita intera stia svuotando tra l’altro anche il concetto di cittadinanza. Sono anche colpita da come la persona sia sempre più infelicemente votata a diventare personaggio” (ivi, p. 234).
Il senso di tale scelta di cancellazione dell’autore che, privata o politica che sia, niente davvero ci autorizza a interpretare come una strategia di marketing, mi sembra che si sveli compiutamente proprio mediante la lettura dell’ultimo volume del ciclo L’amica geniale, intitolato Storia della bambina perduta, uscito nell’autunno 2014. In una recente intervista rilasciata a Giulia Calligari, Ferrante dice a proposito del romanzo: “più una storia mi crea disagio, più mi intestardisco a narrarla. Questa potrebbe essere la storia della cancellazione di Lila” («Io Donna», 31/10/2014). Ci sembra una traccia importante da seguire: chi è Lila, e cosa rappresenta nel testo? Cosa significa e comporta la sua “cancellatura”? È questo il termine che più frequentemente nel romanzo il personaggio di Lila associa a se stessa: “io sono uno scarabocchio su uno scarabocchio, del tutto inadatta a uno dei tuoi libri; lasciami perdere, Lenù, non si racconta una cancellatura” (Storia della bambina perduta, p. 17). Quest’ultimo volume dell’ampio ciclo romanzesco (L’amica geniale, 2011; Storia del nuovo cognome, 2012; Storia di chi fugge e di chi resta, 2013; Storia della bambina perduta, 2014), che racconta le vicende intrecciate di Lena e Lina (o Lila, come la chiama la sua amica) dall’infanzia alla vecchiaia, nel portare alle estreme conseguenze la tangenza quanto la dissonanza dei due destini, svela fino in fondo il senso relazionale dei due personaggi.
Credo che se ci limitassimo ad assegnare a tali personaggi la rappresentanza di modelli di comportamento femminili storicamente determinati e alla storia narrata il compito di raccontare il Novecento e lo scacco delle sue tensioni rivoluzionarie (come fa ad esempio Laura Fortini sul «il Manifesto», 6/11/2014), se insomma leggessimo questo romanzo muovendo da un’ipostasi realista, ne ricaveremmo fatalmente un’impressione di insufficienza e di complessiva inverosimiglianza, e saremmo costretti a sottoscrivere le tante letture svalutative che sono finora state fatte. Se ci fermiamo alla lettera del testo, infatti, e prendiamo sul serio i fatti raccontati, e in particolare la brillante e miracolosa carriera di romanziere di Elena Greco e il folgorante successo imprenditoriale di Lina, a dispetto della loro origine svantaggiata, non possiamo evitare la sensazione di una storia troppo facile e scontata, di uno schema di eventi e di personaggi triti e consolatori, di un’inverosimiglianza di fondo. Ma se proviamo a leggere il senso del “destino di reciprocità” (D. Brogi, www.leparoleelecose.it) di questa strana coppia bifronte Lena-Lina, che già l’assonanza onomastica e la comune nascita nell’agosto 1944 sembrano ricondurre a unità, ci rendiamo conto che la dimensione più propria del romanzo è quella psicologica e intrapsichica, e che la storia più profonda che il libro racconta è quella di uno sdoppiamento dell’io. Viene in mente Pasolini, che aprendo Petrolio sulla geminazione del protagonista in Carlo di Tetis e Carlo di Polis, teorizza la necessità dello sdoppiamento dell’individuo perché una qualunque narrazione possa consistere. Storia della bambina perduta, così come l’intera tetralogia, nasce dal tentativo di contenere l’informe, rappresentato dal personaggio vulcanico e autodistruttivo di Lina, dentro la forma, che è il segno distintivo della compostezza un po’ melensa di Lena. La dicotomia forma/informe percorre il romanzo: si pensi, ad esempio, alle pagine dedicate a una Napoli non proprio convenzionale (tutt’altro che quella “stampina turistica con Vesuvio e golfo” di cui parla Di Paolo, «La Stampa», 13/10/2014) verso la fine della storia. Lila, devastata dalla tragica sparizione della figlia e diventata “per tutti la donna tremenda che, colpita da una grande disgrazia, ne portava la potenza addosso e la spandeva intorno” (p. 346), si appassiona ossessivamente alla storia della sua città e la racconta come luogo di “splendori e miserie” (p. 419), di secolari violenze, orrori, sopraffazioni, che si sono poi ricomposte nella bellezza dei monumenti e dell’urbanistica, nell’arte, nella vita ordinaria. Tematizzando la relazione tra forma e informe, tra scrittura e “cancellatura”, il romanzo rivela una stratificazione metanarrativa che ne cela il senso più profondo. La scrittura narrativa di Elena Greco, segnata da una cifra di miracolosa facilità e leggerezza, attinge da sempre all’oscurità scomposta dell’amica Lila, e nel fare ciò nel contempo nega e cancella questa oscurità, la traduce in una storia lieve ed edificante. Non solo La fata blu, una favola scritta da Lila bambina, corrisponde per Lena a una sorta di mito fondativo della propria scrittura, ma dalla giovinezza in poi ogni suo libro trae forza e origine da Lila, dalla materia contorta e profonda che essa rappresenta agli occhi dell’amica, dall’emotività del mondo che in essa si condensa. Solo a partire da Napoli, dalle relazioni aggrovigliate e ambigue del “rione”, dalle parole imprevedibili e fantasiose di Lila, Elena può scrivere e costruire la propria identità intellettuale (“Attingeva spesso a quella mezz’ora passata nel negozio dei Solara”, p. 47, si dice ad esempio a proposito delle brillanti conferenze in Francia tenute da Lena). In Storia della bambina perduta il senso quasi vampiresco di tale relazione tra le due amiche si svela definitivamente, grazie al fatto che, nel cuore degli anni Settanta, dopo alterne e piuttosto stucchevoli vicende sentimentali, Lena decide di tornare a Napoli e vive nuovamente anni di grande vicinanza con Lila, rafforzati dalla nascita delle due bambine, Imma e Tina, a pochi giorni di distanza. La trama di vita comune tra le due perciò qui si riannoda e lascia emergere, con più chiarezza che nei volumi precedenti, la dicotomia luce/ombra, forma/informe, apollineo/dionisiaco, che costituisce a mio avviso il senso di quest’opera.
L’amica geniale è il racconto della “cancellatura” da cui solo può nascere la scrittura compiuta, l’opera, il racconto, ma anche la possibilità stessa di vivere. Lila e Lena si costruiscono per antitesi reciproca rispetto a questa possibilità di scrittura e di vita. Lila viene rappresentata come genio e dissoluzione, talento e spreco, ed è perciò il personaggio femminile opposto a quell’etica della cura di sé come condizione di salvezza, di cui Ferrante parla diffusamente e con grande intensità nel saggio La frantumaglia. È percorsa da un’avversione istintiva e biologica alla maternità, che si realizza infine simbolicamente nella scomparsa della sua bambina, Tina. Non crede nella persistenza della forma e vive periodicamente l’esperienza psicotica della “smarginatura”, il cui racconto, legato al terremoto del 1980, è uno dei migliori passaggi del romanzo:
Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così -, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. […] Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. (p. 162).
Lila rappresenta insomma la negazione del senso, la sfiducia nella persistenza, il destino di finitudine, il dubbio di inesistenza. La vita e la scrittura sono i campi in cui si realizza il nichilismo di Lila e, per contrasto, il volenteroso spirito costruttivo di Lena. Pensiamo al destino dei figli delle due donne. Lila sembra prevedere e quasi avvalorare la sorte infausta dei suoi figli: “non regge niente, Lenù, anche qua nella pancia, la creatura sembra che duri e invece no” (p. 164). Il suo tema ricorrente è quello della promessa mancata, che accomuna il degrado del primogenito Gennaro, giovane afasico e prigioniero della droga (“era sveglio anche Gennaro, parlava bene, leggeva, andava benissimo a scuola, e guarda com’è diventato”, p. 248) al destino di sparizione nel nulla della piccola Tina (“Aveva paura che crescendo si sprecasse anche Tina”, pp. 250-1). Lena, al contrario, pur lontana, com’è proprio dell’autrice, da stereotipi di dedizione materna, riuscirà ad accompagnare le sue figlie fino al momento di un distacco sereno, e pronuncerà a tal proposito una frase che suona come un bilancio assolutorio: “Ci siamo messe in salvo, le ho messe in salvo tutte” (p. 435). Il destino opposto delle madri si ripropone in quello dei figli: perduti quelli di Lila, salvati quelli di Lena.
Quanto alla scrittura, Lena, personaggio popolare e anti-intellettuale per eccellenza, le attribuisce un potere assoluto, tanto da spingere Elena a scrivere contro i Solara, capi camorristi, per denunciare i mali del quartiere. Lena, al contrario, che della scrittura conosce i trucchi, le finzioni, l’impotenza, smaschera l’ingenuità totalizzante dell’amica (“mi attribuiva la forza che da bambine avevamo attribuito all’autrice di Piccole donne”, p. 280) e sottrae la propria opera a una qualche funzione nei confronti della realtà (“Non volevo metter bocca nelle loro faccende vere, cosa c’entrava il ‘feudo dei fratelli Solara’. Avevo scritto un romanzo”, p. 267). Se per Lila la scrittura serve alla realtà ed è un’arma potente per vincerne il degrado, per Lena il rapporto è invertito: la realtà non è che il serbatoio emotivo che nutre e dà senso alla scrittura, tanto che il suo ultimo racconto, Un’amicizia, perfetta mise en abyme del romanzo, racconterà la storia della scomparsa di Tina, disattendendo alla promessa fatta all’amica di non scrivere mai di quell’argomento. Questo gesto rappresenta icasticamente la relazione, di cannibalismo e di salvezza insieme, che per Elena Greco, ma crediamo per l’autrice stessa, lega letteratura e vita. Lila, alfiere dell’impermanenza, di nient’altro può essere autrice che di un “testo fantasma” (p. 431) che non scriverà mai, e la cui esistenza ipotetica popolerà a lungo i pensieri di Lena. Lila appartiene al mondo simmetricamente opposto alla scrittura, quello della cancellazione, che la porterà, alla fine del romanzo, a sparire senza lasciare traccia di sé:
Per scrivere bisogna desiderare che qualcosa ti sopravviva. Io invece non ho nemmeno voglia di vivere, non ce l’ho mai avuta forte come ce l’hai tu. Se potessi cancellarmi adesso, proprio mentre ci parliamo, sarei più che contenta. Figuriamoci se mi metto a scrivere (p. 433).
Scrivere è il gesto che salva in quanto dà forma, perciò toccherà a Lena il compito di raccontare il suo alter-ego oscuro (“io che ho scritto mesi e mesi e mesi per darle una forma che non si smargini”, p. 444), ricucire la storia che, proprio perché indicibile e tragica, può essere raccontata solo al prezzo di un suo sostanziale tradimento, di una sua banalizzazione. Perché qualcosa possa essere scritto, qualcos’altro deve essere cancellato. Perciò L’amica geniale ci sembra alla fine non tanto il lungo racconto autobiografico di un’amicizia dipanatasi lungo sessant’anni di storia, quanto il monologante bilancio di un’esperienza di scrittura e dell’estenuante relazione con la propria ombra che essa comporta. La scrittura, ha scritto Ferrante nella Frantumaglia, nasce per le donne dall’attitudine alla sorveglianza di sé, alla “vigenza” (p. 132), in quanto “filo magico” che salva dal labirinto della dissoluzione e dell’abbandono: “Pensavo che nei labirinti si va col filo magico, quando si è donne, per governare lo smarrimento” (La frantumaglia, p. 196). La scrittura nasce allora, come in un palinsesto, dalla “cancellatura” di un indicibile testo-altro, le cui tracce sotterranee, a saperle leggere, possono ancora svelarsi in controluce.
Per concludere, pensando anche alla notevole distanza espressiva tra la tetralogia de L’amica geniale e le precedenti opere di Ferrante, ci sembra che la riproposizione di certe movenze stilistiche e tematiche proprie del romanzo rosa e popolare, prontamente stigmatizzate dalla critica, abbia una sua ragione d’essere e costituisca un motivo di coerenza e di fascino di quest’opera, quasi che l’esibito abbassamento della qualità letteraria (di cui ad esempio parla qui Luperini, accennando al basso tasso figurale, alla prevalenza del ‘detto’ sul ‘rappresentato’, all’uniformità stilistica) costituisca la denuncia di un prezzo da pagare alla dicibilità delle cose e porti in sé la traccia di una remota origine cancellata. L’ordine del racconto, il senso degli eventi, la narrazione coerente, sono presentati nel romanzo stesso come approssimazione insufficiente a quel “testo fantasma” – la “smarginatura”, la “frantumaglia” – che il discorso di Lila lascia intravedere. La scrittrice Elena Greco, controfigura di Elena Ferrante, sembra esserne ben consapevole:
Sbaglio, mi dissi confusamente, a scrivere come ho fatto finora, registrando tutto quello che so. Dovrei scrivere come lei parla, lasciare voragini, costruire ponti e non finirli, costringere il lettore a fissare la corrente (p. 155)
Questo passaggio metaromanzesco accenna alla possibilità di una scrittura dell’Altro che sia più lampeggiante e associativa, a un opposto modello espressivo, forse simile a quello dell’Amore molesto. Ma la scrittura di questo feuilleton moderno che è L’amica geniale ha il compito precipuo di raccontare la cancellazione dell’Altro, e il “parlare ombra” – schatten sprechen – di celaniana memoria non potrebbe adempiere a questo compito, non produrrebbe “la storia della cancellazione di Lila”. Il modulo discorsivo e comunicativo scelto da Ferrante, pur rischiando ad ogni passo il baratro della convenzionalità e della trivialità letteraria, ha il vantaggio di ricordarci che la letteratura è un percorso di finzione e di tradimenti – di cancellature – e che il massimo che le si possa chiedere è di non dissimulare i propri limiti e di lasciare intravedere la traccia delle ombre che si è provveduto a dissimulare. L’ombra, che in questo romanzo ha il profilo nervoso e tragico di Lila, alla fine si riprende il suo spazio. È lei, a ben vedere, la vera protagonista del ciclo romanzesco, l’ombra malamente cancellata, che “per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza” (p. 451).
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