Mediare e confrontare. Una risposta sulla riforma del sostegno
Ringrazio l’avvocato Nocera per la sua risposta. Voglio anche dire che mentre concordo abbastanza con i primi punti della sua proposta che ricorda come sia importante – aspetto che sottolineiamo in molti da diversi anni – formare in modo diffuso il corpo docente sulle pratiche inclusive (non delegando ai docenti specializzati di sostegno le pratiche inclusive), invece sono molto più perplesso sui punti 7, 8 e 9 della sua proposta.
Contro l’iperspecialismo
Provo a spiegarmi in modo chiaro: parto dal presupposto che l’insegnante specializzato di sostegno debba essere un operatore della mediazione pedagogica e non uno specialista delle singole disabilità e delle singole metodologie d’intervento in funzione dei deficit specifici. Lo dico perché l’avvocato Nocera dovrebbe sapere che intorno alle questioni metodologiche, nonché d’interpretazione su fenomeni come quelli dell’autismo, dell’ADHD, delle disabilità intellettive e di quelle complesse non vi sono certezze assolute in ambito scientifico e neanche risposte o ricette didattiche standardizzate. Inoltre non vedo perché dovrebbe essere preclusa la possibilità per un insegnante curricolare di diventare insegnante specializzato di sostegno e viceversa: per me un insegnante specializzato di sostegno è prima di tutto un insegnante, esattamente come un bambino con deficit è prima di tutto un bambino, pur con la sua specificità. Faccio anche notare che la pedagogia speciale non è una branca separata della pedagogia generale, ma una branca specifica che si occupa dei metodi educativi che riguardano soggetti con bisogni particolari. Maria Montessori, che fu la pioniera della didattica speciale in Italia, in questo senso parlava di ‘pedagogia emendativa’ cioè di una pedagogia particolare che emendava quella generale con aspetti innovativi che tenevano conto delle situazioni specifiche di bambini con disabilità sensoriali, motorie ed intellettive. La separazione troppo netta tra insegnante curricolare e insegnante specializzato di sostegno va, paradossalmente, nel senso che Nocera dichiara di volere scongiurare: cioè verso una iperspecializzazione tecnica sulla base della tipologia del deficit, in ciò denunciando una visione non sanitaria, ma chiaramente clinica. Insisto sull’aggettivo clinico (che non va confuso con l’aspetto puramente sanitario) per sottolineare che per questa via si afferma un paradigma dominante di tipo diagnostico-terapeutico e non pedagogico-educativo.
Seguendo questa strada, inoltre, si dimentica che tutta la storia della pedagogia speciale e delle esperienze di didattica inclusiva sono partite dal principio che vi fosse trasferibilità dei metodi inventati ed elaborati con bambini con deficit nel lavoro educativo con tutti i bambini: è quello che fecero la Montessori, Decroly, Vygotskij ecc… Questo vuol dire che è necessaria una solida preparazione pedagogica di base trasversale di tutti gli insegnanti (curricolare e specializzato) e che è necessaria anche una preparazione più specifica per gli insegnanti specializzati di sostegno che continuano ad essere degli insegnanti e degli educatori, non solo degli alunni disabili ma di tutti gli alunni della classe.
Il valore delle mediazioni plurali
Riprendo qui di seguito quel che ha scritto Salvatore Nocera e provo a meglio precisare il mio pensiero. Scrive Nocera:
“La formazione sulle didattiche inclusive sia in sede di formazione iniziale e di specializzazione, che in sede di aggiornamento obbligatorio in servizio, non riguarda le singole patologie, bensì la capacità di conoscere, attraverso il profilo di funzionamento dell’ICF, i bisogni educativi specifici conseguenti alle diverse disabilità e la formazione sulle strategie e didattiche per soddisfare tali bisogni educativi (braille per i ciechi, comunicazione linguistica per i sordi oralisti, LIS per i sordi segnanti, comunicazione aumentativa alternativa per alunni con grave ritardo mentale, metodo ABA o altre modalità comunicative pere alunni con autismo ecc.).”
Nocera in questo passo parla di singole patologie, eppure sappiamo che quando discutiamo di deficit non parliamo di patologia ma di disfunzionalità che possono aver avuto cause diversificate. Inoltre Nocera cita l’ICF, che è certamente uno strumento importante ma che rimane comunque un dispositivo diagnostico di classificazione che non dice assolutamente nulla sul come l’educatore o l’insegnante debba gestire la relazione educativa e su quali strategie pedagogiche (e quindi quali didattiche concrete) utilizzare. Sul punto poi secondo cui l’insegnante (anche quello curricolare ) debba avere delle conoscenze e informazioni sulle diverse disabilità quello che mi sembra più importante è che sappia costruire delle situazioni di apprendimento, con l’uso di giuste mediazioni e di mediatori adeguati, favorevoli allo sviluppo delle potenzialità di tutti gli alunni e quindi anche dell’alunno con deficit. Nocera fa un elenco di metodi che dovrebbero essere appresi dagli insegnanti specializzati di sostegno: Braille, LIS, comunicazione aumentativa, ABA. Ma è proprio qui che sorge il problema di fondo già presente nella premessa: l’insegnante specializzato di sostegno deve essere uno specialista di questi metodi?
La prima osservazione che si possa fare sul piano scientifico ma anche didattico-operativo è che rispetto alle varie tipologie di deficit l’avvocato Nocera dovrebbe sapere che esistono, in riferimento alle proposte d’intervento o di ‘trattamento’ educativo, diverse metodologie non sempre convergenti e concordanti tra di loro. Per esempio perché solo la LIS e non il metodo orale, per l’autismo perché l’ABA e non il Teacch, il metodo Saccade sperimentato in Quebec, l’RDI di S.Gudstein ecc, perché la comunicazione aumentativa e non il metodo globale di apprendimento di letto-scrittura di Decroly. Come si può ben vedere da queste sintetiche osservazioni il campo delle metodologie educative e degli approcci didattici è assai ampio e variegato. Inoltre il ragionamento di Nocera sembra ignorare il contesto cioè la scuola come comunità educante e inclusiva e il gruppo classe come spazio esperienziale di apprendimento dove possono essere sperimentate possibilità d’incontro tra bisogni particolari e bisogni di tutti, tra individualità e socialità. La classe come laboratorio pedagogico e l’insegnante specializzato di sostegno come mediatore attivo sul piano educativo, in grado di essere complementare nella progettazione, programmazione e gestione dell’attività didattica in classe. Il che comporta che l’insegnamento di sostegno deve essere sufficientemente flessibile per costruire dei percorsi indiretti più individualizzati in alcune situazioni specifiche anche fuori dalla classe per gli alunni con disabilità. Sempre in una prospettiva di co-progettazione didattica e di co-educazione che coinvolga attivamente anche la famiglia nell’elaborazione del progetto educativo individualizzato.
Per queste ragioni la separazione netta del percorso dell’insegnante specializzato di sostegno da quello degli altri insegnanti mi sembra fuorviante e anche contraddittorio rispetto alla prospettiva inclusiva. Va invece sottolineata e valorizzata l’importanza della rete che dovrebbe accompagnare il lavoro dell’insegnante curricolare e dell’insegnante specializzato di sostegno: genitori, educatori professionali, operatori socio-sanitari, terapisti della riabilitazione, mediatori linguistici e interculturali, medici, psicologi e neuropsichiatri, nonché dei consulenti pedagogici con il rafforzamento della figura del pedagogista nelle scuole. Infatti, come diceva giustamente Lev Vygotskij, occorre agire sull’interazione tra il contesto e il soggetto disabile, attuare una pedagogia delle mediazioni in grado di lavorare sulla zona di sviluppo prossimale del soggetto ma anche sulla zone di sviluppo potenziale del contesto sociale e scolastico.
Valutare e punire?
Mi lascia molto perplesso anche il punto 9, in cui non è ben chiaro cosa s’intende con:
“controllo obbligatorio del MIUR sulla gestione dei corsi di specializzazione, anche con interventi repressivi laddove vengano violate le norme ministeriali relative all’autorizzazione e alla gestione di detti corsi”.
Ho sempre pensato che la repressione non serva molto nei contesti educativi. Ciò vale per gli alunni, ma anche per gli insegnanti. Nel corpo docente, più che timore e ansia prestazionale, andrebbe instillato un forte senso di cooperazione tra scuola, famiglia e attori del territorio, nonché il bisogno di co-educazione (che vuol dire co-evoluzione) e progettualità pedagogica da parte della scuola come comunità educante e inclusiva. In tal senso bisognerebbe anche rivedere il ruolo del dirigente scolastico – oggi manager della scuola azienda – e sollecitare una sua professionalizzazione come esperto della progettazione pedagogica.
Se poi severità dobbiamo davvero invocare, forse bisognerebbe dirigerla verso il MIUR e il governo italiano che, con il patto di stabilità, sta costringendo molti enti locali a tagliare dei servizi di accompagnamento fondamentali per la realizzazione concreta di percorsi inclusivi sia a livello scolastico che sociale.
Anche sulla questione degli indicatori di qualità sull’inclusione e sulla valutazione degli apprendimenti degli alunni con disabilità occorre precisare di cosa stiamo parlando. Come sa sicuramente l’avvocato Nocera intorno alla valutazione sia degli apprendimenti in termini di performance che di processo è in corso un grande dibattito. Chi valuta i valutatori? Con quali metodologie e strumenti? Secondo quali criteri? Sono solo alcune domande aperte sul tappeto del dibattito oggi. Personalmente sono del parere che la valutazione debba essere il frutto di un percorso condiviso da parte di tutti gli attori della comunità scolastica con il coinvolgimento delle famiglie e del territorio attivo nella rete di supporto. Ma il dibattito è davvero molto ampio e va approfondito.
E’ importante discutere apertamente, approfonditamente e liberamente di questi temi fuori dagli steccati specialistici, perché attraverso di essi è possibile negoziare la concezione che abbiamo non solo della scuola della Repubblica, ma anche della democrazia e del tipo di società che vogliamo per le future generazioni di questo paese. Ringrazio Salvatore Nocera per averlo fatto tramite questo confronto.
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