Gli intellettuali italiani e la Grande Guerra/ 2
Pubblichiamo la seconda parte di questo intervento di Romano Luperini sugli intellettuali italiani e la grande guerra, in cui saranno analizzate le posizioni di Piero Jahier e di Renato Serra e verrà tracciato un bilancio complessivo sulla crisi d’identità degli intellettuali italiani al cospetto della prima guerra mondiale. Il saggio può essere didatticamente molto utile per problematizzare le categorie di interventismo e neutralismo, per collegare la letteratura italiana dei primi del Nocecento con i temi storici del tempo e per aprire alla comprensione degli anni del fascismo. L’intervento è stato letto al convegno “Riflessi letterari della Grande Guerra”, tenutosi a Giovinazzo, Bari, il 15-16 gennaio 2015.
Piero Jahier
Jahier concepisce la funzione intellettuale essenzialmente come protesta antiborghese da un lato ed educazione e direzione delle masse diseredate dall’altro. A tenere unite le due posizioni è il populismo ideologico, che può esprimersi tanto con la polemica antiborghese quanto con l’adesione a un idealizzato mondo di montanari e contadini.
Anche in Jahier convivono una spinta alla ribellione anarchica (che artisticamente si manifesta soprattutto nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi) e un bisogno evangelico di disciplina e di integrazione, rivolta, nel suo caso, all’universo contadino. Benché queste esigenze esprimano aspetti ideologicamente diversi e per certi aspetti opposti, egli le convoglia entrambe nel proprio iniziale interventismo, quello dei nove mesi di neutralità italiana. Così da un lato rivendica i diritti dell’individualismo contro l’autoritarismo germanico, il gusto personale dell’esistenza, spontaneo e anarchico, degli italiani contro lo spirito di caserma e la piatta uniformità di vita del popolo austriaco: «Avanti, Italia, sempre tempo di libertà mai di caserma!»1: liberalismo e individualismo, insomma, contro dogmatismo e massificazione burocratica. Dall’altro il conflitto fra estro latino e ordine autoritario germanico viene presentato anche come scontro di civiltà fra «Naturvölker» e «Volkulturvölker», fra popoli contadini contro popoli «meccanici» e industrializzati2. Dopo l’entrata dell’Italia in guerra, Jahier, ufficiale degli alpini, si trova a vivere a diretto contatto con fanti contadini e montanari e comincia a rendersi contro della distanza fra gli entusiasmi degli intellettuali e la rassegnazione degli soldati che non sanno perché vengono mandati a morire. A differenza di Slataper, però, non vuole che la guerra sia imposta al popolo e intenderebbe persuaderlo a una concezione democratica del conflitto capace di far prevalere gli interessi materiali e ideali dei più poveri sia a livello nazionale sia nei rapporti fra gli stati. È questo il momento di Con me e con gli alpini, in cui Jahier mette in scena, alternando prose liriche e versi fortemente prosastici, questo complesso rapporto di educazione ma anche di autoeducazione che si svolge fra intellettuale e popolo. Come Salvemini, anche Jahier tra l’altro si troverà a svolgere nell’esercito una funzione ideologica precisa dato che farà parte del servizio “P” (Propaganda) e per questo dopo Caporetto, come vedremo, dirigerà un giornale destinato a rincuorare e indirizzare la truppa; e tuttavia il suo atteggiamento non è certo riducibile a questo intento strumentale. Anzi Con me e con gli alpini trova il suo motivo conduttore, la sua interna coerenza di svolgimento, proprio in una continua dialettica fra una volontà astrattamente didattica volta a rendere accessibile ai soldati un apriori ideologico a loro estraneo e l’esigenza dello scrittore di confrontarsi realmente con loro e di imparare da loro una lezione di pazienza, di rassegnazione, di fraterna solidarietà che a quell’a priori invece radicalmente si oppone. Così, nonostante l’esaltazione dell’esercito e l’ingenua idealizzazione dell’etica montanara, nel libro sono continuamente presenti la polemica contro gli ufficiali, che Jahier vede lontani dai fanti perché divisi da una distanza di classe, e contro la disumanità del militarismo e una esigenza fortissima di eguaglianza e di giustizia fra gli uomini. Quando Jahier inizia una delle sue prose con l’avversativa «Ma», è evidente che intende rovesciare un luogo comune diffuso: «Ma questa guerra non dire neanche che è una lezione. – Muoiono i migliori, muoiono i soli che potessero approfittare»3. E poi:
Domanda angosciosa che torna quando vi guardo e voi non potete sapere: Perché alcuni son chiamati a lavorare e a guadagnare sulla guerra, e altri a morire? Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto. – Se la guerra ha un valore morale: rieducare alla salute, alla mansuetudine, alla giustizia, attraverso il passaggio nella pena della privazione e distruzione, perché più di tutti debbon portarne il peso questi che erano nella privazione e nella mansuetudine, e non desideravan più che la salute?4
In Jahier è in atto quel «logorio delle motivazioni originarie» della guerra di cui ha parlato Isnenghi5 e che è riscontrabile anche in altri autori (fra tutti, soprattutto Lussu, che scrive però Un anno sull’altipiano vent’anni dopo). La revisione critica fu però bloccata sia dalla catastrofe di Caporetto e dalla necessità della difesa nazionale, sia dalle teorie wilsoniane, che sembravano rilanciare l’idea di una possibile «giustizia fra i popoli» nell’assetto della futura Società delle nazioni e di una corrispondente «giustizia sociale» al loro interno. È allora il momento del giornale di trincea «L’Astico» che Jahier dirige nell’ultimo anno del conflitto. La guerra contro l’Austria e la Germania vi viene presentata ormai come «guerra redentrice» contro i «popoli sfruttatori» necessaria per aprire un’età nuovo di pace e di giustizia. Il passo successivo, a guerra finita, fu l’avventura giornalistica di «Il nuovo contadino», rivolto al mondo agrario con un duplice scopo: costringere il governo a mantenere le promesse fatte ai fanti contadini negli ultimi mesi di guerra e vigilare che ciò potesse accadere senza scontri di classe, nell’ambito di una politica interclassista di collaborazione. Questo secondo compito si rivelerà irrealizzabile: in quel 1919 in cui lo scontro sociale si era fatto durissimo. Non era più tempo di pacificazione, e Jahier è costretto a chiudere il suo giornale, dando ragione, nel suo ultimo scritto, a un contadino socialista con cui aveva sino allora dialogato e schierandosi significativamente dalla sua parte nel conflitto di classe che si era aperto.
Anche in questo caso la realtà dei fatti si incarica di logorare prima e di annientare poi le istanze di mediazione ideologica che l’intellettuale Jahier aveva professato e cercato di tradurre nella pratica. Il successivo ventennale silenzio dello scrittore sarà un riconoscimento di questa sostanziale sconfitta.
Renato Serra
Renato Serra presenta un profilo assolutamente diverso rispetto ai casi sinora considerati. Collaborò sì alla «Voce» prezzoliniana, ma senza aderirvi mai veramente, mentre sarà assai vicino a De Robertis e alla «Voce» bianca. E infatti ostentò sempre una certa insofferenza nei confronti dell’engagement dei vociani e al loro intento di unire politica e cultura. Vissuto a Cesena, dove era nato, lontano dai centri del potere politico e culturale, amò coltivare per sé una immagine di umanista provinciale, di lettore «disinteressato» di poesia (come dirà di sé), di appartato uomo di lettere che poteva dichiararsi ancora ammiratore e seguace di Carducci. Per questo poté sembrare ai vociani un «conservatore», come lo chiamò Boine. Che però subito si affretta a correggersi con la formula «moderno conservatore»6. «Moderno»: perché Serra non si rifugia in una difesa del passato ma vive drammaticamente, come gli altri vociani, la crisi dei vecchi valori e della stessa funzione umanistica. Ed è la guerra, di nuovo, a far precipitare questa crisi, a fargli avvertire l’insufficienza stessa della letteratura e della religione umanistica delle lettere sino allora affermata, e a indurlo a un interventismo lontanissimo dalle ideologie democratiche come da quelle nazionaliste e anzi estraneo alle posizioni culturali allora prevalenti. Espressione di questa crisi è l’ Esame di coscienza di un letterato, scritto da Serra fra il 20 e il 25 marzo 1915, a due mesi dall’entrata dell’Italia in guerra e a quattro dalla sua morte in trincea sul Podgora (anche lui, come Slataper).
Nell’Esame di coscienza di un letterato (e si noti l’ostentazione polemica della qualifica di «letterato», non molto ben vista in ambito vociano) egli si affretta subito a condividere l’assunto di De Robertis per cui il valore della letteratura non era affatto da abbandonare in tempo di guerra (e anzi, da buon crociano, De Robertis aggiungeva che della guerra era giusto si occupassero il governo e il ceto politico, non i letterati7). Ma, pur sostenendo anche lui che dedicarsi alla letteratura sarebbe stata comunque una delle poche cose degne che si potessero allora fare, la sua scelta è poi sostanzialmente diversa. Da otto mesi, dice, da quando cioè ha avuto inizio la neutralità italiana, la letteratura a lui non interessa più, anzi «gli fa schifo»8. Il «letterato» dichiara dunque che il suo primum non è più la letteratura. Bisogna partire da qui, da questa bruciante contraddizione, per capire la portata di uno scritto per molti aspetti straordinario sia per ciò che lo distingue e anzi nettamente lo differenzia dalle posizione degli altri vociani, sia per ciò che invece a loro lo unisce.
L’Esame si divide nettamente in due parti attraverso uno spazio tipografico lasciato in bianco a segnare la distinzione. La prima parte comincia e finisce evocando la letteratura, sostenendo dapprima il diritto di farla malgrado la guerra e, poi, introducendo il cauto proposito (preceduto infatti da un «forse») di tornare a essa dopo quegli otto mesi di intervallo: «il meglio forse è di tornare […] proprio a quella letteratura che io ho sempre considerata la cosa più estrinseca e meno compromettente». Ma il lettore, avvertito anche da questi due ultimi aggettivi, farà bene a dubitarne. Il proposito è insieme vero e non vero, come vedremo. E d’altronde in tutto l’Esame, che pure avanza alla fine una tesi molto netta e precisa, Serra gioca di continuo con il lettore, avanzando ipotesi, correggendole, ritirandole, ritornando spesso sugli stessi argomenti da angolature diverse, ed esibendo non poche ironiche e autoironiche cautele.
Il proposito di tornare «forse» alla letteratura è giustificato dal fatto che, secondo Serra, tutte le motivazioni «intellettuali e universali», anzi «tutte le ragioni» portate a favore dell’interventismo gli paiono ora inconsistenti. In realtà la guerra a suo avviso non cambierà nulla, né in campo letterario, né in campo spirituale, e neppure in quello materiale. La guerra non migliora la letteratura (anzi, se la cambia, è solo perché incoraggia la sua trasformazione in retorica) e non rende migliori i popoli. Sì, ci saranno cambiamenti di confini e di tendenze politiche, ma lo «spirito della nostra civiltà» resterà invariato. I tempi in cui le razze le nazioni i popoli modificano la loro identità sono lentissimi. Nella sostanza partecipare alla guerra o restarne fuori non cambierà il destino dell’Italia. Se la classe dirigente manca oggi l’occasione della guerra, ne capiteranno altre domani. L’ira e il disprezzo contro Giolitti, contro i preti e contro i socialisti sono perciò esagerati e soprattutto inutili. La razza è fondata su una «animalità istintiva e primordiale» (e più avanti si parlerà di «animalità sorda e irriducibile») che procede attraverso impercettibili mutazioni che si misurano sui secoli e sui millenni. Il popolo viene ricondotto al «branco», il corso della civiltà a quello della natura. Evidenti sono qui le tracce di una formazione ancora positivistica.
Contro gli interventisti di destra e di sinistra Serra è categorico: la guerra «non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati». Peggio ancora: la guerra è comunque una «perdita cieca»:
Non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male. […] [La guerra] è un perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.
Sono queste, forse, le parole più chiare e più dure che siano state scritte in quei mesi contro l’interventismo.
Ebbene, proprio perché, alla fine della prima parte del suo scritto, Serra ha esaminato e distrutto, uno per uno, tutti i «pretesti», come li chiama, in cui anche lui si era rifugiato in quegli otto mesi, ora parrebbe propenso a ritornare forse alla letteratura. In realtà non è esattamente così. Eliminati quei pretesti, all’inizio della parte seconda dell’Esame Serra può sentirsi finalmente libero: «libero e vuoto», e anche «vuoto e nuovo». In cosa consiste questa nuova libertà? Forse nel dedicarsi liberamente alla letteratura? La libertà di cui Serra parla è un’altra: quella di vivere al di fuori delle ideologie e di lasciarsi travolgere dalla «irresistibile onda della vita», di cui fanno parte gli elementi della natura (l’erba, la polvere, il vento, il verde delle prode) e dell’umanità (le case, le strade, gli altri uomini). È la libertà di vivere pienamente la passione per la vita, colta nei suoi momenti più fugaci, negli attimi, nelle occasioni che essa presenta. Siamo in presenza qui di un grande tema del modernismo europeo, anche se declinato in termini che possono apparire provinciali. Una concezione attimale dell’esistenza viene piegata a motivare una scelta che dovrebbe essere altrimenti complessa. Perché per Serra cogliere il momento significa vivere «l’ora di passione» della guerra. La guerra è un’opportunità di vita, e va colta se non si vuole «invecchiare falliti». «Fra milioni di vite c’era un minuto per noi» («noi, quelli della mia generazione», specifica), «e non l’avremo vissuto». Non si tratta beninteso, di una scelta etica. «Non è un sacrificio indispensabile», precisa infatti. Si tratta di una scelta esistenziale. Non è una «fede», dichiara ancora, ma una «voglia» («Si ha voglia di camminare, di andare). Di fronte a questa spinta puramente emotiva, qualsiasi precedente ragionamento si rivela inessenziale, compreso evidentemente quello che aveva giudicato la guerra una «perdita cieca».
La «voglia di andare insieme agli altri» nasce dall’esigenza di ritrovare «il contatto col mondo e con gli altri uomini». L’aspetto morale, che induce Serra a chiamare «fratelli» coloro che marciano con lui, è indubbiamente presente, ma come risucchiato all’interno di quello esistenziale ed emotivo. Osserva Guido Guglielmi che sembra esserci in Serra, come in Ungaretti, il richiamo a una comune umanità elementare, «a una condizione di unanimità».9 Ma è una condizione che si può raggiungere non per via ideologica ma solo grazie a un empito. Questo appello alla fratellanza, pur declinato in questo caso in chiave esistenziale, è presente anche nei “moralisti” vociani, come Slataper o Jahier. E soprattutto anche in loro è dato riscontrare questa esigenza – individuale e insieme collettiva perché riguarda tutta una generazione – di un momento decisivo da non perdere. Basti citare il caso di Jahier per cui, nella poesia appunto intitolata In questo momento partecipare alla guerra è l’ultima speranza per salvare la vita: «Ti scade l’ultima speranza di essere uomo in questo momento»10.
Questa rinuncia alla mediazione ideologica può esprimersi solo nell’immediatezza attimale. «Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di qua di questa ora di passione», scrive Serra. Distrutta ogni mediazione intellettuale (anche di tipo umanistico, in questo caso), dissolta ogni prospettiva di agire sul futuro, non resta che lasciarsi bruciare dall’ora di passione della guerra. L’orizzonte di Serra è ontologico, non storico11. Sta qui la sua originalità. Ma il suo è ovviamente anche un modo per vivere la stessa crisi dei suoi coetanei vociani.
Anche per Serra, l’ora di passione esprime la rinuncia a svolgere un qualsivoglia ruolo intellettuale. Non resta che «andare a vivere e morire insieme, anche senza saperne il perché». «Senza saperne il perché»: non potrebbe essere immaginato scacco maggiore per un intellettuale.
A questo punto – siamo alle battute finali dell’Esame – si riaffaccia, introdotto con la solita ironica cautela, il tema della letteratura. Serra sa bene, e lo dice, che la soluzione da lui proposta potrà apparire anch’essa un modo letterario di reagire alla guerra. Ma che importa? «Io sono contento, oggi», sono le ultime parole. Conta solo l’istante, la contentezza dell’«oggi».
Ma il lettore non può non scorgere un velo di malinconia dietro questo eventuale ritorno alla letteratura, d’altronde così ambiguo e circospetto, e dietro questa contentezza troppo esibita.
La guerra e la crisi dell’identità intellettuale
Papini vuole essere un intellettuale teppista, un solitario «schermidore» che si diverte a rompere i vetri delle finestre alla case borghesi, e in questo modo pensa di svolgere una funzione intellettuale provocatoria e anticonformista. Slataper propone un intellettuale organico ai ceti economicamente più sviluppati della sua città e un’Austria di popoli confederati in cui gli ottocentomila italiani dell’impero austroungarico possano liberamente competere per l’egemonia culturale. Jahier si batte perché il ceto intellettuale svolga una funzione democratica a vantaggio dei poveri e dei contadini. Serra prospetta la possibilità di una fedeltà all’umanesimo e alla religione delle lettere, vedendovi una soluzione ancora praticabile, seppure nell’ambito della vita di provincia. Tutte queste diverse proposte sono spazzate via dalla guerra. Il teppista Papini, nemico di ogni accademia, si trova a rompere i vetri per conto del ceto industriale e protezionista che spinge alla guerra, e poi, chiusa la parentesi bellica, adeguatamente ricompensato, finirà paludato e innocuo accademico d’Italia. Slataper, prima di morire in trincea, per realismo politico accetta la prospettiva dell’interventismo e della «eroica rassegnazione» alla imposizione del conflitto e rinuncia alle proprie esigenze di «vivificazione» e ai propositi liberaldemocratici circa i confini orientali. Jahier, terminata la guerra, si accorge che ogni intento di mediazione ideologica e sociale è miseramente fallito e si chiude in un silenzio ventennale. Serra sceglie di vivere l’immediatezza di un’ora di passione e di andare a morire senza chiedersene il perché. In modi diversi, insomma, si ripete lo stesso destino. Ormai, in trincea, si oscilla fra il senso di solidarietà e di fratellanza fra soldati sottoposti alla durezza della disciplina e agli imprevisti del destino, come in Ungaretti, o si scoprono il non-senso dell’esistenza e la frode di ogni umana intesa come nelle poesie dal fronte di Rebora.
Manca, in Italia, se si eccettua qualche spunto reboriano, una letteratura che denunci l’orrore della guerra, come faranno altrove Barbusse con Le feu e Remarque con Im Westen nichts Neues. I due libri italiani più risoluti nella critica del militarismo e delle ingiustizie della disciplina al fronte, Un anno sull’altipiano di Lussu e Con me e con gli alpini di Jahier, non giungono mai a porre in discussione le ragioni dell’interventismo. La crisi della identità sociale dell’intellettuale fu da noi così radicale da rendere impossibile persino quel minimo di autonomia che sarebbe stata necessaria per tale denuncia. Il fascismo, di lì a poco, avrebbe fatto il resto imponendo agli scrittori l’alternativa penitenziale fra il silenzio, il parlar d’altro, e la retorica.
___________
NOTE
IMMAGINE: Soldato seduto che fuma la pipa di Julien Le Blant
1 P. Jahier, Poesie in versi e in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1981, p.150.
2 P. Jahier, Poesie in versi e in prosa, cit., p. 149.
3 P. Jahier, Opere. Ragazzo. Con me e con gli alpini, Vallecchi, Firenze 1967, p.233.
4 P. Jahier, Opere. Ragazzo. Con me e con gli alpini, cit., pp. 181-182.
5 M. Isnenghi, introd. a P. Jahier, 1918 «L’Astico» – 1919 «Il nuovo contadino», Il Rinoceronte, Padova 1964, p. 26.
6 G. Boine, Plausi e botte, in Il peccato e le altre Opere, Guanda, Parma 1971, p.288.
7 G. De Robertis, La realtà e la sua ombra, in «La Voce», VII, 2, 1915, poi in La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, «Lacerba» e «La Voce» !915-1916, cit. p. 513 e sgg..
8 R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, in Scritti letterari morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974, pp. 526. Tutte le citazioni dell’Esame sono tratte da qui (pp. 523-548).
9 G. Guglielmi, postfazione a R. Serra, Esame di coscienza di un letterato. Edizione dell’autografo, a cura di E. Colombo, Pendragon, Bologna 2002, p. 97.
10 Su questo punto cfr. soprattutto M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna 2014 [1989], p. 121.
11 La giusta osservazione è ancora di G. Guglielmi, postfazione cit., p. 99.
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