Oltre i BES. Scienze dell’educazione e bene comune/Il dibattito sui BES 12
Bisogni educativi speciali o diritti specifici?
Ai fini del riconoscimento e del rispetto dei bisogni–diritti educativi di “tutti e di ciascuno”, non dovrebbe bastare la concreta applicazione delle indicazioni già contenute nei provvedimenti legislativi italiani emanati fin dal 1977 in materia di integrazione – i più avanzati al mondo – e in quelli internazionali, come l’ICF? Che bisogno abbiamo di “copiare” da chi è più “indietro” di noi in tema di inclusione? L’invenzione di una nuova categoria come quella dei cosiddetti BES è forse funzionale soprattutto, come stiamo tristemente constatando, allo scatenarsi di una feroce gara per accaparrarsi i proventi della formazione e dell’indotto editoriale. Perché scomodare un’ambigua traduzione italiana della definizione anglosassone di “Special needs”, definizione che – come ci fa notare giustamente il Dott. Versari dell’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna in riferimento al dibattito internazionale – in realtà richiama il principio dell’Educazione per tutti (Education For All – EFA) sancito in occasione del Forum mondiale dell’UNESCO sull’istruzione (Dakar 2000): “Ogni persona – bambino, ragazzo e adulto – deve poter fruire di opportunità educative specificamente strutturate per incontrare i propri basilari bisogni di educazione.” In questo senso, dovremmo interpretare “Special needs” non come “bisogni speciali” bensì come “diritti specifici”.
BES e ICF a confronto
Nella c.m. del Dicembre 2012, si legge:
A questo riguardo é rilevante l’apporto, anche sul piano culturale, del modello ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. In questo senso, ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali é necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione, e ciò anche mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della comunità educante. (Bisogni Educativi Speciali – Dir. 27 Dicembre 2012)
Con l’ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute, OMS 2001 – si abbandona, finalmente, il concetto di “handicap” a favore della descrizione di una condizione di salute (vale a dire, la menomazione delle strutture e delle funzioni del corpo, compresa la mente), la quale può influenzare la partecipazione sociale e l’attività di un individuo, in relazione ai fattori contestuali (vale a dire, i fattori ambientali e personali che possono funzionare come facilitatori o come barriere).
Tale cambiamento, finalmente, incoraggia a superare l’eredità di un modello strettamente clinico-patologizzante (il precedente ICIDH-International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps, 1980), non solo in quelle condizioni in cui è presente un effettivo deficit neuro-sensoriale od organico, ma, soprattutto, nelle situazioni di svantaggio educativo, socioculturale, economico o linguistico, situazioni ignorate – o non prese in sufficiente considerazione – dalla scuola e per questo delegate al mondo clinico e, spesso, medicalizzate da diagnosi e classificazioni.
I riferimenti all’ICF e ai provvedimenti legislativi italiani in materia di integrazione, individualizzazione e personalizzazione – a partire dal 1977 con la legge 517, la legge 104 del 1992, la legge 53 del 2003 e successive, fino ai giorni nostri – dovrebbero essere più che sufficienti per realizzare Piani o Percorsi Didattici Personalizzati, se la scuola venisse messa in grado di applicare realmente i principi legislativi in essi contenuti (i più avanzati al mondo!). Basterebbe, al limite, una circolare applicativa dei principi ICF-CY dedicata alla scuola per permettere ai Consigli di classe di programmare e mettere in atto strategie pedagogiche ed interventi didattici personali, cioè per rispondere ai bisogni-diritti specifici di apprendimento e di inclusione dei diversi “funzionamenti” delle diverse “condizioni di salute-socio-apprenditive” – condizioni che comprenderebbero “la salute apprenditiva” sia di coloro che non stanno al passo con tempi e modi, rigidamente programmati e standardizzati per tutti, dell’apprendimento della lettura, scrittura e calcolo, sia di coloro che si trovano in condizione di svantaggio socio-culturale e linguistico – ed evitare così la loro medicalizzazione con diagnosi di DSA o la loro stigmatizzazione in ulteriore categoria “BES”.
Etichette e categorie che, oltre a fare scattare la delega del proprio dovere e compito educativo da parte della scuola, sono funzionali al profitto degli “esperti del disturbo” e del mercato della formazione, espropriando gli insegnanti del loro ruolo etico, umano e deontologico: l’educazione.
Infatti, sia per le “condizioni di salute apprenditive” etichettate finora come “disturbi specifici di apprendimento” sia per lo svantaggio apprenditivo di tipo socio-culturale, economico, linguistico o comportamentale, inglobati, ora, insieme ai veri deficit e disabilità (certificati secondo la L.104, ) nella categoria “BES”, l’ICF permette di correggere l’ottica medicalizzante del disturbo facendo emergere l’istanza – finora sommersa ed invisibile – etica, pedagogica e sociale, del bisogno umano e del diritto da soddisfare.
L’ICF ha creato i presupposti per una maggiore attenzione al funzionamento fisico e mentale di ogni individuo in relazione sia ai bisogni di crescita dettati dalle biografie personali di ciascun allievo o studente che ai bisogni-diritti apprenditivi emergenti dalla storia dei loro corpi (cervello, mente, mani, emozioni…) immersi in uno specifico contesto ambientale, relazionale socio-educativo.
Il lessico ICF
Con l’ICF dunque, abbiamo già la possibilità di prestare maggiore attenzione alle diverse “condizioni di salute-socio-apprenditive”. Con l’ICF la disabilità viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra le condizioni di salute, i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo.
Alcuni indicatori dell’ICF risentono ancora del lessico utilizzato dalla psicologia clinica. Infatti, mentre la maggior parte degli items che servono per l’osservazione oggettiva e la rilevazione del funzionamento sono scientifici, ossia osservabili e condivisibili, altri sono soggettivi, ossia di ordine interpretativo-psicologico, quindi, in parte discrezionali per classificare il funzionamento.
Ritroviamo tale terminologia in particolare nelle Diagnosi Funzionali (DF) delle certificazioni ex L.104/92. Gli insegnanti, però, a nostro parere, non dovrebbero, ricorrere all’uso di tale terminologia per non conformarsi/appiattirsi sull’ottica del filtro psiologico, ma, al contrario, dovrebbero contribuire all’arricchimento della descrizione del “funzionamento” con il personale ed autonomo sguardo educativo, possibilmente più orientato al “bicchiere mezzo pieno”, cioè alle potenzialità e alla individuazione dei bisogni e dei diritti non ancora soddisfatti. Altri punti di vista, dunque, altri “fenomeni” da osservare, sono le emozioni, qualità e abilità, non contemplati dall’ottica diagnostica del disturbo o del bisogno speciale. Per questo é utile sottoporre le definizioni e le terminologie concettuali medicalizzanti ad una lettura pedagogica critica, per distinguere quanto è oggettivo e verificabile da quanto è soggettivo–interpretativo. Tale esercizio è utile per imparare a distinguere e riconoscere il linguaggio clinico-scientifico da quello psicologico e psichiatrico, così come abbiamo fatto noi docenti universitari nei Laboratori di professionalità dei corsi SSIS-Sostegno dell’Università di Modena e Reggio E. già negli anni 2001-2010.
Per una scienza dell’educazione bene comune
Certamente occorre un’attenzione mirata (non “un’attenzione speciale”!) alla condizione di salute di ciascun individuo appartenente alla specie umana, i cui membri possono, per diverse cause, non rispondere a tutti i criteri “standard” di efficienza fisica e/o mentale e di apprendimento, richiesti in quel dato periodo storico in quel contesto scolastico o sociale. Però, ancor prima di un accertamento di questa specificità e condizione di salute, e della cura in senso clinico, ci si dovrà preoccupare di “avere cura”, in senso solidale, del prossimo. Ma questo a chi dovrà essere affidato? Noi pensiamo, dovrà essere affidato agli “esperti di vita” – come lo siamo tutti noi, educatori e genitori, dovrà essere compito di una ricerca, di un’educazione collettiva, di una crescita e di una solidarietà popolare e umana che getti le basi di una nuova scienza della personalità. Una scienza dell’educazione “bene comune” perché “Educarci insieme significa trasformare il mondo circostante per poter trasformare se stessi” (A.Bernardoni, L’Attività Terapeutica Popolare, 1975).
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