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diretto da Romano Luperini

In modo apparentemente paradossale, il teorico della letteratura più adorniano dell’ultimo Novecento è stato anche uno dei maggiori critici del postmoderno: Fredric Jameson (1934-2024) che ha studiato a Yale con Auerbach e che ha insegnato alla Duke University. Fondatore del neomarxismo americano, Jameson è autore di libri importati come Marxismo e forma (1971), L’inconscio politico (1981) e del celebre Il postmoderno, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1991). Nel primo, in cui si recupera il pensiero di Sartre, Marcuse e di Adorno, è centrale la nozione di dialettica. La prassi viene spostata sulla testualità: l’interpretazione delle opere si presenta come atto allegorico e il testo come il campo di un conflitto. Il metodo dialettico della contraddizione e del rovesciamento antitetico abita lo stile stesso di Jameson e la sua teoria critica e interpretativa: ogni opposizione binaria viene destrutturata mostrando la convivenza dei contrari. In Inconscio politico si tenta di mettere in campo un’ermeneutica marxista, capace di smascherare i difformi progetti ideologici soggiacenti a creazioni letterarie come quelle di Balzac, Conrad, Stendhal e Manzoni, considerate come “atti simbolici” e luoghi emblematici della formazione del soggetto borghese, giungendo, proprio a proposito dei Promessi sposi, a una dichiarazione di metodo e a una lucida teoria della dinamiche contraddittorie e dei coesistenti paradigmi narrativi e visioni del mondo nel genere romanzo:

Frattanto Renzo vaga attraverso la grosse Welt della storia e dello spostamento di grandi masse armate, in cui si giocano il destino dei popoli e le vicissitudini dei loro governi. Le sue vicende personali, formalmente simili a quelle di un roman d’aventures, le sue disavventure di Candide campagnolo, forniscono quindi un registro narrativo del tutto diverso da quello, introverso e psicologizzante, della narrazione di Lucia (…) . Il romanzo è quindi non tanto un’unità organica quanto un atto simbolico che deve riunire o armonizzare paradigmi narrativi eterogenei provvisti di sensi ideologici specifici e contraddittori.1

Lo stile di Jameson, basato sulla reversibilità delle antitesi, “tende a moltiplicare le inconciliabilità”.2 Del resto, lo stesso Adorno, punto di riferimento teorico di Jameson, tendeva a difendere l’utopia nell’atto stesso di smentirla come forma di resistenza paradossale nel dominio dell’industria culturale. Jameson ha studiato la compiuta affermazione della profezia adorniana sulla cultura dei consumi come sistema totale e ne ha dato conto in un libro celebre, Postmodernism (1991), in cui si ipotizza che le costanti formali postmoderniste (citazionismo, perdita di profondità, indistinzione tra cultura alta e cultura bassa) siano la “logica culturale del tardo capitalismo” e in cui si elabora la metafora del cognitive mapping o cartografia cognitiva, realizzabile a partire dalla lettura critica e dialettica dei prodotti culturali del nuovo assetto del capitalismo globale.

Jameson ha messo a fuoco le categorie fondanti della logica culturale tardocapitalista, incentrate sulla liquidazione di elementi della cultura moderna:

  1. Scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh, pittore modernista, richiedevano un atto interpretativo, le scarpe da ballerina di Warhol, assunte come icona dell’arte postmoderna, restano superficiali, “non ci parlano affatto” e si configurano come oggetti feticisti.
  2. Scomparsa della storicità: alla fine del Novecento la memoria si è indebolita e i grandi memorialisti sono una specie estinta. Insieme a tutte le altre forme di autorità, l’autorità del passato si estingue.
  3. Scomparsa dello stile individuale: i soli “soggetti” visibili nel postmodernismo sono i media e il mercato.

La sua morte ci impone un bilancio radicale del suo e del nostro tragitto. Una riflessione impietosa sulla nostra impotenza e sui nostri destini di docenti: l’università è mutata a fondo e l’acquario dei campus, che ha concesso al neomarxismo accademico una mera sopravvivenza culturale, ha cambiato il suo linguaggio e le forme del suo potere. Ciò che la destra occidentale chiama oggi “cultural marxism” (quello che da noi si direbbe goffamente il “politicamente corretto”) ha poco a che vedere con il modello di Jameson: del resto, nella riproduzione dei saperi, è bandita sia la dialettica come strumento di smascheramento che l’implicazione concretamente materiale, politica e economica, della critica marxista. Dopo esserci baloccati con un concetto volgare e ilare di postmodernismo – che è stato il fondamento dell’impotenza riflessiva e del realismo capitalista – ora nel nostro lavoro universitario possiamo al massimo trastullarci con il Queer o con il Green nelle caselle della valutazione o dei progetti di ricerca formattati, per ricevere per i nostri “prodotti” qualche briciola di finanziamento sotto il cappello dell’”inclusività”.

Credo che il più famoso motto di Jameson (We cannot not periodize) vada ereditato così: alla luce della storia dei conflitti, novecenteschi e attuali, non si può più alludere all’utopia nell’atto stesso di smentirla. Se nel mondo segnato dal ritorno della guerra globale e dal disastro climatico l’inconscio politico egemone vieta di immaginare delle alternative al capitalismo globale, dobbiamo superare questo scacco e storicizzare la nostra impotenza, nella sola forma possibile: quella di una diserzione organizzata.

1 F. Jameson, L’inconscio politico, Milano, Garzanti, 1990, p. 174.

2 M. Ganeri, Fredric Jameson e il marxismo dell’ aporema, in «Moderna» 1, 2008, p. 43-60.

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