Scegliere il Romanzo al posto della Storia: a proposito de “La scelta” di Giovanni Dozzini
Le solite questioni, riviste e corrette: può un romanzo raccontare una storia realmente accaduta senza tradirla con quella sua brama di finzione? e un giornalista, come nel nostro caso e in tanti altri di cosiddetto New Journalism, non viene meno al suo mandato quando intesse attorno a fatti realmente accaduti tutta una trama di piccoli eventi, gesti, personaggi, nomi inventati? e dentro la sua coscienza non c’è qualcosa che rimorde se decide di riportare alla luce le vicende di miseri pescatori capaci di riscattare dalla morte un gruppo di ebrei durante l’ultimo conflitto mondiale, se decide cioè di restituire la meritata memoria a una storia di “giusti” scegliendo però di trapiantarla nel territorio dell’immaginazione?
La scelta di Giovanni Dozzini (Roma, Nutrimenti, 2016) è un romanzo che evoca questo genere di problemi, anche perché Dozzini (al suo secondo romanzo, dopo L’uomo che manca del 2011), oltre che editor, traduttore e organizzatore culturale, è appunto giornalista. Qui ha deciso di raccontare un episodio poco noto ai più, risalente a quel momento della Seconda Guerra mondiale che vede il progressivo spostamento del fronte italiano da sud a nord della penisola, con l’esercito germanico impegnato in un costante arretramento e in rabbiose rappresaglie, e con gli eserciti alleati che avanzano troppo lentamente per le aspettative di liberazione degli italiani.
Dozzini descrive bene il senso di questa attesa fatta di paura, fiducia e delusioni, per come viene vissuta dagli abitanti di un’isola del Lago Trasimeno – pescatori, per lo più, con le loro famiglie, e un prete – ai quali le notizie e gli effetti della guerra giungono assai ovattati. Il nucleo del romanzo attiene però al segreto che quell’isola protegge: nel suo castello sono rifugiati un gruppo di ebrei scampati all’arresto, inizialmente corpi estranei nel tessuto di affetti e conoscenze che cementano la comunità isolana, fino a che un fatto viene a sconvolgere l’equilibrio sospeso innescando così la narrazione. Ed è qui che l’autore, evidentemente affascinato dalla vicenda, una di quelle “storie impercettibili che la Storia non avrebbe registrato, mai considerato” (come recita a un certo punto la voce narrante), nell’indecisione se fare di questa storia l’oggetto di un reportage giornalistico nutrito dai racconti degli ultimi testimoni, oppure un romanzo, fa la scelta di tradurlo in un racconto di finzione. Sceglie cioè, come lui stesso scrive in una nota finale, di aggiungere le proprie fantasie alla realtà dei fatti avvalendosi del privilegio dei romanzieri, «autorizzati dalla realtà a prendersi tutte le licenze necessarie, perché il romanzo è un genere che non risponde alla realtà ma solo a sé stesso» (Javier Cercas, citato in quella nota).
La scintilla che indirizza le vicende verso una china tragica, e poi eroica, scocca quasi per caso. I tedeschi, che dalla terra ferma approdano di tanto in tanto sull’isola per prendere pesce e altro cibo, una mattina arrivano e si mettono a perquisire casa dopo casa alla ricerca di qualcosa di importante. Senza la mediazione di una lingua comune nascono inevitabilmente malintesi, sgarbi, poi degli alterchi, e infine c’è il fuoco delle armi a dirimere il conflitto lasciando sul terreno tre morti: due isolani e un tedesco. Da quel momento in poi sarà la paura a farla da padrona sull’isola, diventata anch’essa teatro di una guerra che non ce la fa a finire; e si dovranno prendere decisioni su come scampare alla probabile rappresaglia tedesca e su cosa fare degli ebrei rifugiati – proteggerli ancora, o denunciarli, oppure aiutarli a mettersi in salvo.
La scelta, a lungo dibattuta tra gli isolani e infine indirizzata dal loro parroco, sarà quella di portare fuori dall’isola e al riparo da una probabile cattura il gruppo di profughi ebrei, ed è questo che con le loro barche, avanti e indietro sulle acque del lago, i pescatori di Isola Maggiore faranno, guadagnando così la riconoscenza del popolo ebraico. Nel 2011 lo Yad Vashem nomina infatti don Ottavio Posta “Giusto tra le Nazioni”, esaurendo così, pur se con qualche ritardo, il debito della Storia nei confronti di questi prodi.
Ma basta questo, si sarà chiesto Dozzini, a rendere giustizia a degli eroi per quasi settant’anni dimenticati? E che non sia invece il codice romanzesco a conferire onorificenze più adeguate, avendo in tante occasioni mostrato pure come si fa a renderle più lustre e durature?
Riprendendo gli avvenimenti di quel lontano giugno 1944 su Isola, questo romanzo si incarica allora di rianimare la cronaca e i suoi fantasmi, e Dozzini fa la scelta forse più adeguata per restituirci il respiro dei fatti. È l’opzione di astenersi dal tono enfatico di tante narrazioni belliche, e poi quella di conferire ai gesti coraggiosi di certi giovani protagonisti il carattere della casualità, di avvolgerli dentro le incertezze e i dubbi dichiarati di alcuni personaggi, o di presentarli come risultato di spinte emotive anche indifferenti alle sorti degli altri. La decisione di non attribuire al coraggio un’intenzionalità a tutti i costi valorosa, assieme a uno stile pacato, a un registro tutto imperniato sul quotidiano, danno così a questo romanzo il suo specifico carattere: quello di un’epica umile, fatta da povera gente, eroi per caso che, proprio perché tali, risultano più generosi.
Tutti però inconsapevolmente protagonisti dell’epica comunque più grande: quella che narra di uomini che riscattano altri uomini dal Male. E proprio l’astensione da un registro ampolloso – caratteristico di molta letteratura che si è misurata con fatti del genere – produce pure un altro effetto, ideologico più che narrativo: alla Banalità del Male viene opposta la semplice “Banalità del Bene” – che poi è anche un titolo che qui merita ricordare, essendo di un libro di qualche anno fa dove Enrico Deaglio riportava alla luce una storia assai simile a questa: quella di Giorgio Perlasca, un altro Giusto capace di redimere tantissime vite dal loro olocausto.
La scelta si chiude con un sogno. Lo fa il più giovane dei protagonisti e forse sta lì a ribadire che la Storia è sempre avara di riconoscimenti per gli eroi umili e che la loro ricompensa può stare solo dentro un sogno, se si è bravi a sognarla. Oppure può stare dentro un romanzo come questo, dove al giovane pescatore capace di sottrarre delle vite a una morte imminente viene assicurato il premio comunque più grande: essere ancora in vita, anche lui. Ed essere soprattutto, lui, con “tutta la vita davanti”.
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Giustizia passata, giustizia futura
Bella recensione di quello che dev’essere un bel libro.
Suggestiva la domanda: Ma basta questo,. . . a rendere giustizia a degli eroi per quasi settant’anni dimenticati? Suggestiva non solo perché senza facile risposta ma anche perché suggerisce un’altra domanda. L’obiettivo di un libro di storia, sia di saggistica o o di narrativa, è di rendere giustizia agli eroi del passato o di rendere più probabile la giustizia per le vittime future? Certo i due obiettivi sono entrambi degni e importanti ma per me pesa di più l’effetto futuro della memoria piuttosto del suo effetto compensatorio per qualche mancanza del passato. Forse aa scelta di Dozzini quindi — e di altri come lui — tra romanzo e storia può essere formulata diversamente- non quale genere per meglio rendere giustizia al passato ma quale genere per meglio fare giustizia in futuro?