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diretto da Romano Luperini

La pigra potenza. Filmare Sandro Penna tra documento, cinema sperimentale e televisione

La vita … è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba…

“La poesia di Sandro Penna e il cinema nascono da una stessa matrice, un elemento che permette di riconoscere in essi un’affinità genetica: il treno”. Il riferimento fatto da Gianluca Della Corte nel suo breve saggio Una «trasognata apertura di obbiettivo cinematografico». La poesia di Sandro Penna (in “Aura”, 1.2021) va ovviamente a L’Arrivée d’un train à La Ciotat dei fratelli Lumière; peraltro Jean-Louis Leutrat, ne Il cinema in prospettiva: una storia (Le Mani, 1997)osserva: «il treno è soprattutto un luogo in cui il viaggiatore immobile è seduto e guarda scorrere davanti a sé uno “spettacolo” chiuso in una cornice». Il legame tra Penna e il cinema riaffiora nelle poesie e nelle prose con una certa ricorrenza: come sappiamo, il poeta cerca nelle sale buie un punto di osservazione privilegiato del mondo e l’icona dell’eros, quel fanciullo assorto che vorrebbe eternare nel mito proprio come fa la pellicola con i suoi protagonisti.

Ma qui il compito che ci si pone è quello di organizzare una ricognizione del Sandro Penna “agente” di cinema e TV, filmato da amici e giornalisti, consapevoli della fortuna di accedere in un luogo mitizzato, una specie di antro segreto: la casa e ancora meglio la camera di un poeta unico. Peraltro questo ci resta di lui ed è già tanto. Se Sandro Penna avesse seguito il suo amico Pier Paolo Pasolini nelle terre del Sud, magari oggi lo vedremmo forse tra gli apostoli accanto ad Alfonso Gatto ed Enzo Siciliano in quel capolavoro senza tempo che è Il Vangelo secondo Matteo (1964), sicuramente trasformato in Giotto alcuni anni dopo nell’altro film pasoliniano Il Decameron (1971). Ma quel ruolo, dopo il rifiuto anche di Paolo Volponi, toccò per necessità allo stesso regista. Come osserva Elio Pecora, suo biografo, era davvero improbabile vedere Penna imbarcarsi in un viaggio in aereo o in auto e predisporsi al trucco lontano dalla sua Roma, dal suo fiume, dai suoi ragazzi. Il “pigro Etrusco”entrò infatti nel cinema da una porticina di servizio e solo per essere sé stesso, nella sua casa di Via della Mola dei Fiorentini, non-attore compiaciuto di tanta attenzione, re(litto) (a)sociale e sovrano assoluto nella sua infinita libertà di vivere e morire a modo suo.

Prime apparizioni nel mondo dell’arte

Prima di essere filmato da protagonista, incontriamo Penna in due brevi Settimane Incom dell’Istituto Luce recuperate da Tommaso Mozzati nella magnifica mostra perugina Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative curata dallo stesso Mozzati insieme a Roberto Deidier e Carla Scagliosi e collocata alla Galleria Nazionale dell’Umbria dal 6 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024. Il primo documentario, del 1947, si intitola Una bottega di pittori della serie Nel mondo dell’arte. Nella breve rassegna romana, presumibilmente dedicata al “Tempo del Futurismo”, sfilano opere di Boccioni, Savinio, De Pisis, Morandi, Mafai, Guttuso, De Chirico alla presenza di alcuni di questi pittori, mentre Ungaretti e Moravia sembrano assistere curiosi e ammirati. Sandro Penna viene inquadrato, dopo una ripresa in gruppo, in un primo piano laterale, che lo presenta maliziosamente (come accadeva spesso in questi cinegiornali, anche con Pasolini) autore di una “gallina addomesticata con un cane”, e subito dopo viene mostrata un’altra “gallina dalle uova d’oro”, scultura inglese contenente un priapetto “niente male”. La seconda Settimana Incom, datata 23 maggio 1951, è dedicata alla Mostra personale di Maria Grazia Bornigia tenutasi a Roma alla Galleria Il Pincio in Piazza del Popolo e della quale vengono inquadrati alcuni dipinti e una scultura, prima che la macchina da presa riprenda gli scultori Mazzacurati e Leoncillo e in successione un Sandro Penna coi baffi accanto a Miss Italia e all’attrice Cosetta Greco. Rapide e “borghesi” testimonianze che raccontano di un poeta ben inserito nel gruppo romano degli artisti e soprattutto attento estimatore e amico di pittori che sapranno essere con lui piuttosto generosi, come la citata mostra perugina ha ampiamente dimostrato, grazie anche alla disponibilità della nipote ed erede Letizia Coppotelli.

Un francese a Roma: il Sandro Penna di Jean-Claude Biette (1968)

Dopo un’intervista Rai di Geno Pampaloni del 1962, al momento irreperibile e forse irrimediabilmente perduta (inserita nel programma del secondo canale Rai Conversazioni con i poeti e trasmessa a inizio settembre), è il giovane parigino Jean-Claude Biette a restituirci il più antico film su Sandro Penna, probabilmente il corto più “narrativo” e sorprendente, vista anche la sua recente riscoperta ancora per merito di Tommaso Mozzati, che lo ha riproposto nell’ambito della già ricordata mostra perugina. Già collaboratore dei Cahiers du Cinéma, Biette fugge dal servizio di leva francese per approdare a Roma nel 1965, legando subito col gruppo dei cineasti e intellettuali romani intorno a Pasolini. Diventato amico di Bernardo Bertolucci e di Adriano Aprà e neo-collaboratore della rivista Cinema & film, Biette diventerà nel tempo regista di lungometraggi e attore per registi come Pasolini, Straub-Huillet, Eustache, Rivette, Rohmer e Vecchiali. Dopo aver partecipato come attore e aiuto regista nell’Edipo re pasoliniano (1967), il cineasta parigino si appoggia alla IDI Cinematografica di Gian Vittorio Baldi per produrre due documentari, il primo su Attilio Bertolucci in 35 mm. e il secondo su Sandro Penna in 16 mm.

Lungo circa 14 minuti, il corto di Biette sembra iniziare con un “rientro a casa” del poeta (siamo a Roma in Via della Mola dei Fiorentini), che chiede al compagno Raffaele Cedrino se abbia telefonato qualcuno. Subito dopo troviamo Penna nella sua camera intento a togliersi il soprabito e la sciarpa, prima di iniziare il suo classico monologo seduto sul letto. Alternando piano americano a primi e primissimi piani, il regista lo lascia al suo racconto, messo in fuori campo da un paio di immancabili panoramiche sulla stanza gremita di quadri, libri e medicine in ordine sparso. Penna rievoca la famosa e amatissima sua prima poesia, scritta “al buio perché c’erano le zanzare”, lo stupore di Saba nel leggerla. Poi accenna al suo lavoro di recensore di liriche per Alfonso Gatto e Delio Tessa, “finito in manicomio”, attività degli anni Trenta subito naufragata. Nel suo racconto c’è spazio per l’apprezzamento della semplicità di Vincenzo Cardarelli e poi di Saba e Montale, mentre Quasimodo viene “rifiutato” quale ermetico indigesto. Penna ribadisce, a costo di apparire “antiquato”, l’importanza fondamentale dell’ispirazione, la cui assenza sembra “giustificare” un blocco creativo che dura ormai da quindici anni. A tale proposito curiosa è la citazione di una intervista di Manlio Cancogni a Moravia, che non solo sembra rivalutare ampiamente la spinta inconscia della creatività ma anche rivalutare Penna, che pure “non esprime tutta la sua vita ma una parte di sé”; è la dimostrazione che il feeling tra i due non fosse così pieno e limpido. La penultima inquadratura ritrae il poeta che esce di casa e inizia a scendere le scale, seguito da Raffaele che ha il compito di chiudere “bene” la porta con varie mandate (come si è visto, la casa è piena di opere d’arte). Il piano conclusivo ci mostra i due, ombre nella notte appena illuminata da fanali e luci di strada. È questo l’unico documento che coglie Penna in un rapporto, ancorché brevissimo, tra interno ed esterno notte, rivelando un poeta non ancora del tutto “imprigionato” nella clausura lamentosa di alcuni anni dopo, quando non ci sarà più Raffaele e nemmeno un cane “che ti lecca la mano”.

Fotogramma da “La vita come poesia”, RSI, 1969

1969. Da “Umano non umano” alla TV svizzera.

Un anno dopo le riprese di Biette, il poeta perugino partecipa a un esperimento cinematografico diretto dall’amico pittore Mario Schifano. Il film, prodotto nel periodo della contestazione sessantottina, uscirà ufficialmente nel 1971 col titolo Umano non umano. Opera seconda di una trilogia dedicata alla condizione dell’artista nel mondo “non umano” del capitalismo, questo film sperimentale è cadenzato nel sonoro dai battiti di un cuore e intervallato dalle immagini di uno sciopero che muove da Piazza Colonna, nonché da spezzoni televisivi di sfilate militari (il Vietnam, ma non solo). Nei vari segmenti scorrono le presenze di Jean-Luc Godard, Adriano Aprà, Franco Angeli, Alberto Moravia, Mick Jagger, Carmelo Bene. Nell’ultima parte un ampio spazio viene lasciato al ritratto più famoso e più visto di Sandro Penna (preferito a Ungaretti, secondo la testimonianza del co-produttore Ettore Rosboch), ripreso in casa tra i suoi quadri e il consueto disordine, in una sorta di buio “oltraggiato” dalla potente luce del riflettore cinematografico. Penna si rivolge all’amico pittore parlando compiaciuto dei propri gusti artistici nella camera della madre gremita di tele, poi legge alcune poesie seduto sul proprio letto accennando commenti curiosi, a volte aneddotici, lamentando infine una malattia profonda e indicibile che va oltre il disagio psicologico. Schifano lo inquadra con macchina fissa, obbiettivo grandangolare e rarissimi stacchi di montaggio (in tutto sei inquadrature dal totale delle due camere al piano americano e al primo piano per circa quindici minuti di pellicola), lasciando al poeta la libertà “umana” di esprimere sé stesso, persino di rispondere al telefono all’amico “Pupino”; sarà Penna a dire “basta, mi sono stufato”, per poi immalinconirsi quasi smarrito su quello stesso letto dove, nel gennaio 1977, lo avrebbero trovato senza vita. La presenza di Sandro Penna nel cinema finisce qui, almeno nei dati ufficiali. Ma è evidente che nel biennio 1968-69 l’iconografia penniana accumula i suoi documenti più preziosi, rafforzando la mitologia del poeta bohémien che troverà la sua consacrazione negli anni Settanta.

La conferma arriva nella tarda estate di quello stesso anno, quando alla porta di Via della Mola dei Fiorentini bussa perfino la Radiotelevisione Svizzera Italiana. Si tratta di un’intervista realizzata da Ippolito Pizzetti (e regìa di Grytzko Mascioni) per il programma “Incontri. Fatti e personaggi del nostro tempo” e intitolata Sandro Penna: o la vita come poesia, che sarà trasmessa il 16 novembre. Pizzetti, allievo di Sapegno e figlio del compositore Ildebrando, è ben inserito nell’ambiente intellettuale romano e, al contrario di Biette e Schifano, interagisce con il poeta in modo serrato, provocando e stimolando risposte, avanzando opinioni in cui Penna trova condivisione e linfa per procedere nel suo personalissimo teatro domestico. Nei 23 minuti del montaggio, i primi tre sono preparatori: mentre una voce over illustra la particolare fortuna critica del poeta, le immagini scorrono nello spazio del soggiorno, dove in piedi Pizzetti conversa con Raffaele Cedrino, mentre Penna si rivolge a un ragazzo “angelico”, dai capelli biondi e ricci, toccandogli affettuosamente una guancia come si fa con i bambini. Per il nucleo più consistente dell’intervista (circa 14 minuti) il poeta è disteso nel suo letto con l’interlocutore seduto accanto ai suoi piedi. L’operatore muove la telecamera quasi irrequieto, ritraendo anche il bric-à-brac della stanza, gremita di quadri, libri, fogli sparsi in terra, medicine, scarpe e pantofole appoggiate sopra i volumi, un barattolo di marmellata e molto altro, fino a tornare sempre sul volto di Penna in primissimo piano o in dettaglio. Pizzetti interagisce pieno di ammirazione, “Sandrino” si racconta consapevole dell’egocentrismo tipico dei poeti. Così dal suo candore escono le osservazioni più asprigne contro chi, comunque, gli vuole bene: la Morante che fa solo “letteratura vuota” anche se “capisce di poesia”, Moravia che non sopporta dopo i primi romanzi, Betocchi che “non è un poeta”. Anche Pasolini e Garboli vengono visti in chiaroscuro per i loro giudizi: Penna (e su questo insisterà più tardi Elio Pecora) non si sente poeta della nevrosi ma della felicità: “quando son venute le poesie era un eccesso di felicità (…) sentivo una calma interiore”. E, come ormai sappiamo, salva solo Saba e Montale, anche se qua e là dice che lo hanno copiato (Montale nei Mottetti, come ricorderà Cesare Garboli). Gli ultimi minuti sono girati nel soggiorno iniziale: Penna, seduto, ne ha ancora per Kavafis, che chiama “una checca schifosa” perché “veramente parla del vizio”, tornando infine al suo “primo amore”, quel Saba che è stato inizialmente un punto di riferimento e che, in buona sostanza, lo ha fatto sentire un grande poeta. È indiscutibile che, nei ritratti filmati, Sandro Penna si senta a proprio agio nel raccontare una sua dimensione esclusiva, una percezione critica particolare tanto della letteratura quanto dell’arte; quando dice all’interlocutore “sbaglierò io” in realtà prende le distanze dalla comune opinione esegetica, isolandosi in una prospettiva personale antiborghese e aliena dall’ufficialità letteraria. Più che un bambino dispettoso, Penna segue il proprio gusto mettendo il mondo esterno tra virgolette, come fa con le parole di uso comune nelle prose di Un po’ di febbre.

Fotogramma da “La mosca e il miele” (1977), RAI

Penna muore, si rivede la RAI

Sandro Penna muore il 21 gennaio del 1977 e appena venti giorni dopo Raidue trasmette il documentario più bello realizzato post mortem. Diretto da Claudio Barbati e Francesco Bortolini, lungo poco meno di un’ora, mantiene ancora oggi una lirica freschezza e soprattutto restituisce due aspetti che ci sembrano molto penniani: la lentezza del tempo e la socialità anonima di cui parla Giovanni Raboni nell’intervista che precede la sequenza finale. Le poesie di Penna vengono recitate sulle immagini di ragazzi e giovani che attraversano le vie di Roma, dopo che alcuni scolari in apertura hanno commentato i versi più noti, su tutti “E poi come una mosca / impigliata nel miele”, da cui discende il titolo del documentario, La mosca e il miele: Sandro Penna. La voce over ci racconta i dati essenziali della vita, la fortuna critica, con quelle pause che oggi farebbero inorridire un autore del montaggio ma che in realtà restituiscono il senso di una vita dispersa tra il rumore delle vie, messa in pausa dalla folgorazione poetica, dall’incanto improvviso, dai tempi morti dell’osservazione e del sonno. La telecamera si sofferma spesso su quella finestra sbarrata al quarto piano, oltre la quale si è consumata una vita, sulla cupola della Chiesa dei Fiorentini, sulle strade intorno. E c’è perfino spazio per una breve intervista a un artigiano del luogo che sottolinea come Penna fosse spesso solo e dopo morto tutti ne parlano, tutti lo scoprono, vecchio e ben noto ritornello. Tenero anche il ricordo della giovane vicina di casa, “la fidanzatina di Sandrino”, in realtà una ragazza semplice che a volte cenava con lui e lo aiutava a lavare i piatti, a sbrigare alcune faccende e a tenergli compagnia. E anche quando era presente col suo ragazzo, Penna stava tantissimo al telefono ad ogni ora del giorno e della notte; ma stare con lui era piacevole perché si parlava di tutto liberamente. Non mancano, poi, i ricordi dei poeti. Prima Attilio Bertolucci, poi Andrea Zanzotto e infine il citato Raboni, che ricorda come Penna da “minore” sia passato a un livello più alto dopo la pubblicazione delle Poesie garzantiane, e lui stesso ne ha fatto oggetto di studio scoprendo nella limpida grazia il mistero delle “trasgressioni metriche”, delle piccole “frane” di “vertiginosa profondità”. Tutti concordano sulla difficoltà del contatto umano, dei soprassalti d’umore di un uomo mutevole a seconda dei presenti, pronto alla sincerità come a una forma di nascondimento teatrale. Il film di Barbati e Bortolini, restaurato e archiviato nelle Teche Rai, include anche il medaglione integrale di Umano non umano prima di giungere al suo bellissimo finale, con le parole di Natalia Ginzburg:

Non conoscendo egli, nel suo mondo, né classi sociali né impalcature ideologiche e mantenendo sempre una piena e limpida indifferenza nei confronti del potere, egli è uno fra gli esseri umani più liberi che siano mai esistiti. Non chiese mai la felicità, ma di essa solo briciole e centesimi, avendo la facoltà di contemplare, nelle briciole e nei centesimi, l’infinità dell’universo e il senso della vita

e il sonoro d’ambiente sul ragazzo che vende mimose lungo una via trafficata, sorta di realistico e vago “calco” dell’episodio pasoliniano La sequenza del fiore di carta incluso nel film Amore e rabbia (1969).

Sempre la RAI, sul finire del secolo scorso e in una progressiva accelerazione della conoscenza di Penna in ambito europeo e americano, progetta una serie di ritratti di autori italiani con finalità didattico-culturali, attingendo al vasto archivio storico dell’emittente. Non a caso la collana di DVD intitolata Poeti e scrittori italiani del Novecento è stata poi diffusa nelle biblioteche delle nostre scuole, e al poeta perugino è stato riservato il volume n.5. Si tratta di un lavoro di montaggio di circa 38 minuti, regia di Gianni Barcelloni su testo di Gabriella Sica, dal titolo Sandro Penna. Croce e delizia. La biografia del poeta viene ripercorsa senza l’uso della voce narrante, ma attraverso immagini e testi in sovraimpressione. Molte le foto utilizzate, soprattutto di Perugia e Roma, ma anche di dipinti classici, mentre il materiale audio-video di repertorio è quello in buona parte citato nei paragrafi precedenti, con rare e interessanti eccezioni: brani tratti da un’autobiografia dettata al magnetofono e selezionati da Elio Pecora; alcune osservazioni rilasciate da Mario Luzi; un breve frammento video del Premio Viareggio 1957 con Penna accanto a Pasolini e, soprattutto, un’intervista di Luciano Luisi al poeta vestito con maglia e giaccone invernale, quella in cui afferma, citando D’Annunzio, che “la poesia è nell’aria”, bisogna solo catturarla senza mettersi a costruirla a tavolino (cosa che vale certo più per lui che per il pescarese). Il montaggio scorre fluido su tappeto sonoro di Mozart, considerato un adeguato commento musicale a versi leggiadri e pieni di grazia.

Nell’ambito della stessa linea didattico-culturale, le Storie della letteratura curate da Isabella Donfrancesco hanno riservato un capitolo a Sandro Penna raccontato da Elio Pecora (2018). Tornano qui i materiali preziosi delle Teche rai, con immagini tratte dal filmato del 1977 e le immancabili letture dell’autore nel quarto d’ora di Schifano, con la vera novità del narratore d’eccezione, ovvero il poeta e scrittore Elio Pecora. Con l’usuale, limpido eloquio di colui che trovò Penna addormentato nella morte, il racconto si snoda dalle prime poesie ed esperienze perugine all’incontro con Saba, dal rapporto con Montale a quello con Pasolini, fino agli ultimi anni di non accettazione della vecchiaia e di chiusura al mondo esterno in quella camera al quarto piano diventata famosa. È un assoluto piacere ascoltare questo ritratto ricostruito con intelligenza e affetto, con la partecipazione di un poeta verso la riconosciuta grandezza di un altro, spiegata con parole chiare e persuasive. Peraltro alla paziente opera di Pecora dobbiamo la ricognizione non facile all’interno dell’appartamento in Via della Mola dei Fiorentini, il ritrovamento e la raccolta delle carte che hanno permesso, quarant’anni dopo, la nascita del Meridiano Mondadori curato dal poeta e filologo Roberto Deidier.

2007: “Ma come il vento muove il mare” di Francesca Bartellini

Il documentario più lungo lo scrive e dirige l’attrice e regista Francesca Bartellini nel 2007. Costruito a ritroso, cioè partendo dalla morte fino alla nascita, questo Ritratto del poeta Sandro Penna arriva nel trentennale della scomparsa, dura 83 minuti e non si serve dei materiali Rai ma recupera l’intervista di Pizzetti per la TV svizzera e il celeberrimo film di Mario Schifano. Tra le parti inedite, l’opera è percorsa dal filo rosso del racconto di Elio Pecora a tratti affiancato da Roberto Deidier. Belle le immagini della tomba, non ancora ripulita e restaurata, al cimitero di Prima Porta; superflue, a nostro avviso, le interviste alla gente comune del luogo, mentre il filmato si era aperto con la lettura di testi da parte di alcune donne davanti a una stazione romana, certo più intuitive nel commentarli. Il lavoro della Bartellini ci mostra anche molte foto ed ha qualche bella pagina lirica, nonché interessanti nuove testimonianze: la famiglia dei vicini di casa (Franca, Pietro e Felice Lacchè), che offrono un ritratto della madre di Penna; il critico Renzo Paris; il gallerista Giuliano de Marsanich; il produttore di Umano non umano Ettore Rosboch; la voce del musicista Sylvano Bussotti. Interessante anche la breve ricognizione sui luoghi romani del poeta come appaiono nel nuovo secolo: il Tevere con i suoi ponti, Piazza del Popolo e la trattoria “Cesaretto” ritrovo di intellettuali prestigiosi, ovviamente Via della Mola dei Fiorentini con la sua chiesa. Ma è ancora la testimonianza di Elio Pecora a illuminare il racconto, quando ci ricorda le ultime visite a Penna di Natalia Ginzburg con cibo e medicinali, o tenta di spiegare i motivi per cui il funerale andò semideserto o, sul piano delle intuizioni critiche, dà il giusto e meritato spazio a Bobi Bazlen che vide nel poeta perugino un’ascendenza persiana. Con la tenerezza che affiora quando i Lacchè ricordano la disperazione di Penna dopo l’addio di Raffaele che gli sottraeva l’amato cane lupo chiamato la “Battini”. Proiettato alla Casa del Cinema di Roma l’anno successivo, questo film della Bartellini non offre certo riletture nuove o una struttura particolarmente originale, ma resta un prezioso aggiornamento della videografia penniana, con un primato di non poco conto: è il primo lungometraggio dedicato interamente alla figura di Sandro Penna.

Fotogramma da “Un’educazione parigina” (2018) di Jean-Paul Civeyrac

Vicende della ricezione e un nuovo progetto

“Scusa, ma come fai a conoscere Sandro Penna?” Lo chiede il padre a Giorgio, figlio tredicenne di colpo entrato nei fallimenti amorosi della giovinezza, aprendo i festeggiamenti per i 40 anni della moglie Laura (Stefania Sandrelli). È la parte finale della folgorante opera prima di Francesca Archibugi, Mignon è partita (1988), bel racconto di formazione ambientato in una Roma popolare che già forse non esiste più. Le tre sceneggiatrici si sono ricordate di questo bel testo del 1957: “Amore, gioventù, liete parole, / cosa splende su voi e vi dissecca? / Resta un odore come merda secca / lungo le siepi cariche di sole.” Lo hanno inserito quasi a commento della giovinezza che svanisce per tutti, sopraffatta dall’età e dal peso delle esperienze, che a poco a poco ci sottraggono un po’ di cielo, il piacere di immaginarsi in un “confuso sogno”. Quello coltivato da Giorgio intorno alla figura di Mignon. È il primo esempio della ricezione di Sandro Penna nel cinema italiano di finzione, seguito nel 1994 da un’altra opera prima di un regista che ha fatto poi parecchia strada, Paolo Virzì. Ne La bella vita, ambientato a Piombino, Rossella (Paola Tiziana Cruciani), l’amica sindacalista del metalmeccanico Bruno (Claudio Bigagli), si rammarica che gli operai una volta ispiravano i politici e i poeti come Sandro Penna, che ovviamente Bruno non conosce. E Rossella allora aggiunge: “Ma dai! ‘Eccoli gli operai sul prato verde a mangiare: non sono forse belli?’” È una breve citazione, utilizzata dagli sceneggiatori Francesco Bruni e lo stesso Virzì per sottolineare il declassamento della figura dell’operaio, ormai scomparso anche dai notiziari televisivi; quasi un rimpianto di quella Italia postbellica che Penna ha ritratto con i suoi “quadretti in movimento”, per citare un’espressione di Giacomo Debenedetti che calza bene con l’idea di un rapporto stretto tra cinema e iconografia penniana. Venti anni dopo, nel 2014, un documentario di Gianni Amelio esce con il titolo Felice chi è diverso, noto incipit, in cui l’attore Paolo Poli racconta divertito e divertente le sue origini e il rapporto con i genitori, tenendo in mano il volume garzantiano di Tutte le poesie, da cui inizialmente legge proprio la famosa quartina della quale condivide il senso di una gioiosa unicità omosessuale: “Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”. Da ultimo, segnaliamo una curiosa testimonianza della ricezione del poeta perugino in suolo francese, in un film bellissimo di Jean-Paul Civeyrac, cineasta da noi purtroppo misconosciuto. L’opera, del 2018, si intitola Un’educazione parigina (Mes provinciales) e a quanto ci risulta è l’unica del colto regista uscita nei cinema italiani. In uno stile che oscilla tra Eustache e Garrel e in un bianco e nero suggestivo, ci racconta l’educazione sentimentale e culturale di Etienne, giovane che lascia la provincia per studiare cinema a Parigi. Molto penniane le sue peregrinazioni in autobus, dove rimane spesso incantato dal fascino di volti femminili, ma assai indicativa è una foto di Sandro Penna che lui ha appeso alla parete accanto al letto e che vediamo in quattro inquadrature, in particolare in una che lo coglie intento a leggere uno dei libri-chiave del film: Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini.

Oltre che in queste testimonianze del cinema europeo, l’opera di Sandro Penna si è radicata nell’immaginario di vari filmakers che hanno voluto interpretare la poesia del poeta perugino, restituirne una loro prospettiva sostenuti anche dalle istituzioni. In Umbria, ad esempio, dopo il notevole convegno di studi del 1990, la Regione ha prodotto il documentario Un fiume in Penna di Paolo Liberati, mentre l’attivo Comune di Corciano ha finanziato l’opera di Giulietta Mastroianni La città vuota – Sandro Penna e Perugia. Sono piccole iniziative che testimoniano, insieme ad altre ben più sostanziose e importanti ma anche alla presenza di lettori che recitano Penna sul web, la penetrazione mediatica piuttosto profonda di questo poeta straordinario, quando ormai si avvicinano due ricorrenze che lasciano presagire ulteriori iniziative di varia natura: i 120 anni dalla nascita e, in particolare, il cinquantenario della morte. Su tutte, il progetto di una docufiction da realizzarsi entro il 2026, dal titolo provvisorio Sandro Penna. Se la vita sapesse il mio amore (Zivago Film, Cinecittà Luce), un’opera molto attesa, sorta di suggello decisivo a una videografia essenziale ma già affascinante. La firma, di per sé una garanzia, è di Massimiliano Palmese, che ha già dedicato a Dario Bellezza un documentario molto bello e apprezzato dopo aver diretto, sempre insieme a Carmen Giardina, il premiatissimo Il caso Braibanti (2020). Il cuore di questo film saranno gli anni giovanili romani, raccontati entro la cornice di una vecchiaia vissuta praticamente nella clausura di una stanza. Il lavoro su documenti rari e inediti, raccolti insieme allo studioso Marco Beltrame attingendo all’archivio degli eredi, è già una promessa: quella di restituire i bagliori di una vita unica e di una poesia luminosa. Ma Palmese, da noi interpellato, aggiunge una sua idea forte sul rapporto tra Penna e i media italiani:

“Credo che la saggistica ci abbia consegnato un solo lato della figura di Sandro Penna, quello del poeta “appartato”. Ma lo sapevano bene i suoi amici Pasolini, Moravia, Morante, Ginzburg, Bellezza: Penna aveva una personalità brillante. Ironico e autoironico, si fingeva modesto ma nei giudizi letterari e umani era puntuale, caustico, all’occorrenza sprezzante. Questo si evince dai pochi ritratti televisivi, ma nelle interviste ai giornali, di cui con Marco Beltrame sono andato a caccia in questi anni, il carisma di Penna emerge in purezza.

Ma perché le videointerviste in italiano (un paio andate perdute e una svizzera) sono così poche? Perché per un ritratto indimenticabile dobbiamo aspettare il 1968 e Mario Schifano? Quello di cui mi sono convinto è che l’Italia non era pronta per l’apparire di Sandro Penna e del suo canzoniere scopertamente omoerotico, così come decenni dopo non sarebbe stata pronta – né da destra né da sinistra – per l’apparire di un intellettuale della statura di Pasolini. Credo che la televisione italiana non sapesse bene come presentare e gestire Penna, quest’oggetto misterioso. Non va dimenticato che per gli italiani di allora l’uomo Penna era “un pederasta”, era “il poeta degli orinatoi”, i suoi erano “versacci”, “ode ai vespasiani, ai vizi, alle lordure, alle schifezze”, come scrisse Domenico Triggiani a proposito del Premio Viareggio 1957, assegnato a Penna solo grazie alle insistenze di Ungaretti.

Penna non era un poeta “appartato”, Penna si è appartato. Penna è stato bullizzato da un’Italietta aggressiva e offensiva. Penna è stato discriminato, censurato, oscurato. E questa violenza ha finito per isolarlo, per renderlo ancora più fragile. E poi per ucciderlo”.

Abbiamo scritto: “Penna muore, si rivede la RAI”. Forse non a caso.

Fotogramma da “La mosca e il miele” (1977), RAI

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