Perché leggere “La clandestina” di Lars Gustafsson
Interessi, tasse, disoccupazione, imposte sui fabbricati che mandavano sul lastrico le persone oneste. Loro non potevano farci più niente. Non c’era più un governo. C’era solo più una cricca di politici di mestiere che comparivano nei programmi televisivi e che non avevano più la minima idea dei problemi della gente comune, né di cosa la gente comune pensasse. Ma il peggio era che non sapevano governare.
Dick era abituato a discutere con i tassisti di tutti i paesi. Erano sempre le persone più pessimiste. Potevano infuriarsi veramente, se si stava zitti. Era peggio che contraddirli.
Ma se verrà il fascismo, sarà comunque in forma diversa? Non con stivali e via dicendo? E vessilli al vento?
“Verrà dall’interno”, rispose il tassista con fare misterioso. “Dall’interno, Tutti resteranno sorpresi, Anche i fascisti”.
O quell’uomo era un pazzo o era uno sciamano, uno di quelli capaci di scrutare nel futuro. Forse personaggi del genere esistevano davvero.
Lars Gustafsson, “La clandestina”, Iperborea, pag. 137
Perché spinge a ragionare sul mercato del dolore
Dick Olsson, il protagonista del libro e alter ego dell’autore, è un famoso pubblicitario, consulente di campagne commerciali e politiche. Proprio questa sua veste di “venditore di sentimenti” lo rende particolarmente attuale, e conferma la capacità di Gustafsson di cogliere – come sanno fare i grandi scrittori – aspetti profondi del sentire di un’epoca, anche anticipandone gli sviluppi storici e sociali.
Gustafsson/ Olsson sa bene che nel 1996, quando il romanzo fu pubblicato, categorie come “corretto” o “positivo” non hanno alcuno spazio nel teatro delle strategie commerciali:
Un tempo la pubblicità si basava su associazioni positive. “Il cacao Ogon dà energia e sicurezza a tutta la famiglia”. Forti associazioni positive dovevano essere connesse con merci e servizi. Quasi contemporaneamente, un certo numero di creativi sparsi un po’ in tutto il mondo aveva scoperto che bastavano associazioni forti. Bambini denutriti con il ventre gonfio, malati di AIDS, tutto ciò che catturava l’occhio in un certo modo.
Dick era uno di quelli che se ne erano resi conto. Con un buon anticipo. Per questo si avviava adesso verso la sessantina provvisto di un solido patrimonio. (pag. 30)
Allo stesso modo, già allora, questa modalità si era imposta nel campo della comunicazione politica e culturale. Ed è in questo mercato che si gioca, nel momento in cui è collocata la storia, la sua professionalità e la capacità di convincere le istituzioni internazionali, attraverso i media, ad abbracciare la causa dei separatisti della Repubblica del Transdnestr:
Si trattava ovviamente di farsi venire in mente qualcosa di diverso da villaggi incendiati, bambini con gli occhi incavati e vecchie donne moribonde portate via in barella con la sporta in mezzo ai piedi. Era un genere che non era servito a molto, negli ultimi tempi. C’erano troppe foto di bambini sanguinanti e di vecchie donne portate via morte e afflosciate come stracci da case bombardate, da villaggi incendiati (…) Il mondo delle immagini stava conoscendo una certa brutalizzazione. Faceva l’effetto di un altoparlante che immette hard-metal rock in una stanza con tale violenza da far tremare i vetri delle finestre. Alzare la voce in un ambiente del genere non era il modo migliore per farsi sentire. Questo era pacifico. (pag. 44)
Il personaggio è caratterizzato da simpatia, acutezza e cinismo, e dedica spesso la sua attenzione alle dinamiche della comunicazione contemporanea, cogliendone elementi che sarebbero diventati, con il passare degli anni e lo straordinario incremento delle tecnologie comunicative, fondamentali per il nostro vivere. In particolare, colpisce la profondità delle sue riflessioni sulla nuova idea di spazio e di socialità che gli strumenti elettronici veicolano: “Il luogo in cui si era non aveva più grande importanza, al giorno d’oggi. Finché era possibile collegarsi”. (pag.33)
Perché dà valore all’alterità
Dick Olsson ha creato un delicato equilibrio di frammenti di vita e di realtà, per tenere lontano gli altri e la parte più profonda di sé stesso; si tratta di una situazione tanto lussuosa, vista dall’esterno, quanto precaria, nel suo tentativo di impedire di essere visto e di vedersi davvero. Di questo sistema fondato sul vedere tante persone senza incontrare realmente nessuno, è simbolo il rapporto con la domestica che lavora nella sua lussuosa casa della periferia di Austin, in Texas, dove Dick ha la sua base, fra un viaggio e l’altro; un patto commerciale che esclude la presenza fisica, e si limita a comunicazioni di servizio e scambio di prestazioni: lavoro, denaro, lavoro, denaro. Una relazione con una donna che si chiama Eleonora per sfuggire all’ufficio immigrazione, e nasconde dietro questo nome fittizio la sua identità e la sua vita. Ma un giorno i due si incrociano e si parlano: e quest’incontro travolge le fragili difese erette da Dick.
Era proprio vero che gli esseri umani non vivevano tutti nello stesso mondo. Ce n’era uno per i congressisti, gli uomini d’affari, gli esperti che viaggiavano in continuazione, gli ospiti degli alberghi, quelli che andavano in giro con il cellulare. E un altro dove tutti erano in fuga attraverso dei confini. E il primo di questi due mondi andava perfino in giro a tenere conferenze sull’altro. (pag. 60)
Il caso, elemento preponderante nelle vite dei protagonisti – nella poetica di Gustafsson come in tanti altri libri del Nord che Iperborea ci ha regalato in questi decenni – fa sì che d’improvviso il protagonista sia costretto a misurarsi con due donne che rappresentano diversamente l’irruzione dell’alterità in un’esistenza apparentemente sotto controllo: ai sentimenti confusi e forti che nascono in lui per la domestica colombiana si accompagna infatti il peso dei ricordi e di un’innominabile nostalgia di fronte alla morte della madre lontana. Questa perdita spezza il facile ritmo regolare delle visite e delle telefonate in Svezia, e impone quella presenza fisica che per il protagonista costituisce uno sforzo immane. Anche il tempo di Dick ne esce stravolto: a lui, uomo che vive nella sola dimensione del presente in un pacato e comodo carpe diem di persone e sentimenti, il caso impone nuovi viaggi. All’esplorazione del passato che la perdita della madre porta con sé si accosta la paura di un futuro appena immaginato, di amore e passione per la sua piccola colombiana, la cui condizione di clandestinità la espone a rischi gravi e palpabili. Nella distanza fisica – alberghi, sale d’aspetto, aeroporti, taxi -, la condizione naturale cui le sue scelte di vita lo conducono in ogni relazione, il protagonista riscopre allora una forma antica per comunicare le sue emozioni alla donna che forse ama. Scrive e riscrive una lettera per rendere visibile sé stesso. La stesura di questa lettera occupa alcuni frammenti lirici significativi:
Io non ho motivo di lamentarmi della mia vita. Soprattutto se la paragono a quella che devi vivere tu. E della quale non so assolutamente nulla. Ma il confine fra il reale e l’irreale nella mia vita è sempre stato un po’ fluttuante. A volte la base si è staccata dalla realtà più o meno come una lastra di ghiaccio diventata porosa per il protrarsi delle piogge. E a volte ho avuto la sensazione di potere io stesso creare la realtà. Non so esattamente che cosa intendo con questo. Ma è così. (pag. 162)
Ci sono dei deserti, delle grandi regioni morte e vuote dentro di me. E tutti gli anni, soprattutto intorno a Natale, devo intraprendere per qualche ragione dei viaggi verso queste terre deserte, per vedere cosa vi posso trovare. Sono spaventosamente vuote, e ancora più spaventosa è la sensazione che un tempo dev’esserci stata la vita. E che forse c’è ancora. (pag. 171)
Il vuoto, la fessura, il muro: sono le metafore utilizzate dal protagonista per cercare di chiarire a sé stesso ciò che percepisce. E sono le immagini ideate da Gustafsson per creare una profonda intimità con chi legge, spinto inevitabilmente a proiettare sulla propria vita le domande esistenziali di Dick.
Perché ragiona sul nuovo fascismo
A trent’anni di distanza dalla pubblicazione del romanzo, la riflessione del tassista sull’avvento di un “nuovo fascismo” appare tristemente profetica, a conferma della risorgente tendenza di fascisti e fascismi a ammantare di nuove forme e colori (in apparenza liberali e democratici) il ritorno di una sostanziale autocrazia. Su questo argomento di stretta attualità, il libro propone considerazioni significative e aperte, dettate proprio dalla particolare prospettiva adottata dal protagonista: Dick infatti incarna al meglio l’ideale di un uomo disposto a vendere qualsiasi cosa, in un mondo disposto a comprare qualsiasi cosa. In un certo senso, leggere “La clandestina” diventa quindi un’esperienza di archeologia di un passato recente alla ricerca delle ragioni che hanno portato allo sdoganamento di genocidi, guerre e apocalissi.
In particolare, colpisce il modo in cui Gustafsson affronta il tema della clandestinità e le politiche poliziesche del governo americano di quegli anni:
La foto (…) mostrava una lunga coda di immigrati clandestini arrestati, curiosamente tutte donne. (…) Nell’avvicinarsi al pullman, che chiaramente le avrebbe ricondotte in Messico, le donne passavano davanti a una sorta di veicolo ufficiale che distribuiva cibo e bevande. Il tutto in maniera pulita e umana.
Ma sotto la superficie visibile dell’immagine ce n’era un’altra. Si Trattava di una deportazione. Alcune persone erano state scelte in mezzo a quelle normali ed erano state messe da parte per essere deportate. Non aveva nessuna importanza che la coda ricevesse un cestino da viaggio e una Coca-Cola. Quello che si vedeva nella fotografia era una Selektion e Die Selektion conduce a una deportazione.
Dick si domandò se quel messaggio riuscisse ad arrivare al lettore medio dell’Austin American Statesman. Probabilmente sì. Chiarissimo. Contro tutte le previsioni. Non perché Dachau e Auschwitz fossero particolarmente attuali, ma perché immagini quasi identiche dalla Bosnia avevano riempito gli schermi televisivi negli ultimi due anni. Proprio le stesse file di gente, che salivano sui pullman. Peggio vestiti, più logori, e file più lunghe. Niente cestini da viaggio lì, no. (pag. 99)
Sono parole che si potrebbero scrivere oggi.
Ed è questo il secondo dubbio che la lettura del romanzo ci lascia: se saremo capaci di ascoltare la storia, invece di ripeterla. O se invece, come scrive Montale, “la Storia non è magistra di niente che ci riguardi”.
Il primo dubbio invece è se Eleonora sarà in casa al ritorno di Dick, se il loro amore nascerà davvero, se l’uomo infine accetterà quella parte di sé che non aveva mai voluto considerare.
Spinti dallo stile originale e coinvolgente di Gustafsson a immedesimarci nel protagonista, cercheremo la risposta insieme a Dick Olsson, fino all’ultima pagina.
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