Perché leggere Bartleby, lo scrivano di Herman Melville
Sono un uomo piuttosto avanti negli anni. La natura della mia professione mi ha portato, nel corso degli ultimi tre decenni, in contatto, e non soltanto nel solito contatto, con una categoria di uomini interessante all’apparenza e in qualche modo singolare, sui quali, per quanto ne so, finora non è stato mai scritto nulla: mi riferisco ai copisti legali ovvero agli scrivani. Nella mia vita professionale e privata ne ho conosciuti moltissimi e, se volessi, potrei raccontare varie storie che farebbero sorridere i benevoli e piangere i sentimentali. Ma per qualche brano della vita di Bartleby, il più strano che abbia mai visto o conosciuto, rinuncio alla biografia di tutti gli altri. Mentre di molti scrivani potrei narrare l’intera vita, non si può fare nulla del genere per Bartleby. Non esiste materiale – ne sono convinto – per comporre una biografia completa e soddisfacente di quest’uomo. È una perdita irreparabile per la letteratura. Bartleby fu uno di quegli individui sui quali non si riesce ad accertare nulla […]. Quello che videro i miei occhi attoniti: ecco ciò che so di Bartleby […]. (H. Melville, Bartleby, lo scrivano, traduzione G. Lonza, Garzanti, 20203, pag. 15)
Incontriamo subito un narratore «avanti negli anni», che – in un ufficio al primo piano di Wall Street – di mestiere fa l’avvocato, «uno di quegli avvocati privi di ambizioni», che non frequentano i tribunali, e che si occupano discretamente di titoli, obbligazioni e ipoteche. Un uomo senza qualità, le cui virtù sono «la prudenza» e «il metodo», vale a dire un essere mono-tono metodicamente prudente e prudentemente metodico. Un narratore di tal fatta, dedito alla routine del suo quieto vivere, potrebbe raccontare agevolmente biografie complete e rivolgersi a lettori «benevoli» e «sentimentali» da far «sorridere» e «piangere». Piuttosto che confezionare un ben fatto prodotto letterario, secondo i consolidati criteri di metodo fondati prudentemente sulla storia di una vita, il narratore si fa testimone oculare e dismette la toga per essere ascoltato dal pubblico: corre il rischio di raccontare un personaggio che rompe l’orizzonte d’attesa e che supera i confini della letteratura. Per questo Bartleby, lo scrivano è un capolavoro.
Perché bisognerebbe preferire di no
In risposta ad un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane – la porta infatti era aperta, perché era estate. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby. (pag. 28)
L’apparizione del protagonista è segnata dalla prevedibilità degli aggettivi, che rendono Bartleby un normale appartenente alla categoria ‘scrivano’, mentre gli avverbi, che modulano e modificano il significato degli aggettivi, lo connotano come perturbante. Non si tratta, infatti, di semplice stranezza, di cui degni rappresentanti sono i due scrivani, individuati solo da nomignoli, già presenti nell’ufficio: Tacchino (Turkey) e Pince-Nez (Nippers). Le bizzarie dei due sono assolutamente ‘normali’ e tollerate dall’avvocato in quanto compensate da utili qualità professionali. Inoltre, secondo un processo circadico personalizzato, Pince-Nez, afflitto da cattiva digestione, risulta inaffidabile al mattino ed efficiente il pomeriggio, e Tacchino, invece, lavora alacremente il mattino e combina pasticci il pomeriggio. L’incastro perfetto è definito, perciò, dal narratore «una buona intesa naturale», che ribadisce come i due appartengano alla fauna (‘nippers’, oltre che ‘pinzette’, potrebbero essere ‘chele’) degli uffici. Si tratta dunque di comuni «eccentricità», niente a che vedere con Bartleby, che risulta non catalogabile nei suoi comportamenti e specialmente per la frase, che appare ben presto una formula, pronunciata ogniqualvolta gli viene chiesto di fare qualcosa: «I would prefer not to», «Preferirei di no». Scandalosa presa di posizione di un subalterno che rifiuta di fare quello che deve fare, scrivere e controllare le copie, in nome di una preferenza: avere una preferenza non si addice ad uno scrivano, e quand’anche ne abbia qualcuna, non gli dovrebbe impedire di continuare il suo lavoro meccanico di scrittura copiatura e controllo. Bartleby esce, invece, dalla meccanicità ripetitiva del lavoro, dalla prevedibilità della vita subalterna, non protesta, non teorizza alcuna rivolta, si astiene dal fare, nel momento in cui lo attraversa come un fulmine la certezza che avrebbe una preferenza. Anche l’uso del condizionale sembra (o sembrerebbe) uno scarto linguistico, rispetto all’asciuttezza della comunicazione burocratica, che mal si addice ad un normale giovane scrivano, che si rivolge al suo datore di lavoro, avvocato, avanti con gli anni. Quella di Bartleby, lo scrivano che preferisce non scrivere, è la resistenza passiva al mondo degli altri, di quelli che a Wall Street, ieri come oggi, pretendono di determinare, come in realtà fanno, i nostri comportamenti e i nostri bisogni. Per questo la formula di Bartleby riempie di soddisfazione il lettore del Novecento, forse più consapevole dello sfruttamento di quello dell’Ottocento, ed il lettore degli anni Duemila, immerso nella realtà virtuale: finalmente qualcuno ha il coraggio di affermare «I would prefer not to» e al diavolo la produttività.
Perché… tutto ha inizio il terzo giorno, secondo le scritture?
All’inizio, il nuovo scrivano svolge un’enorme quantità di lavoro, tanto da apparire «ingordo di avere qualcosa da copiare», addirittura «pareva volesse rimpinzarsi di documenti» senza sosta, come accade a tutti i golosi, infatti: «Non c’era pausa per digerirli.» (pag. 30) Notte e giorno, mastica le sue copie senza alcuna allegria, come una tetra macchina senz’anima. Finché, forse per una improvvisa indigestione che lo satura definitivamente, pronuncia la sua formula e silenziosamente si apparta, lasciando attonito e sgomento il suo datore di lavoro. «Era con me, credo, da tre giorni», l’avvocato è incerto, ma il lettore sa che, sotto la leggera patina di dubbio formale, l’espressione vuole semanticamente affermare, e riconosce il valore del tre, visto che coincide con la rivelazione e la parola. Bartleby preferisce non controllare le copie, come dovrebbe fare qualsiasi scrivano, ma per un certo tempo continua a copiare, pur evitando la più piccola commissione o il più semplice incarico. Si nutre sporadicamente di dolcetti allo zenzero, non pranza, non esce dall’ufficio, che ha assunto come suo unico domicilio, essendo stato sorpreso in maniche di camicia di domenica, non parla e non dice niente di sé, neanche, a specifica domanda, dove è nato. Di lui sappiamo, come affermato all’inizio, soltanto ciò che vede l’avvocato. Si è annidato in quello che il narratore definisce un «eremo», e che è un luogo precario arrangiaticcio, una sorta di cellula di sopravvivenza, essendo specificatamente un non-luogo angusto e monoposto. L’ufficio è diviso in due spazi da porte pieghevoli: da un lato stanno i due scrivani, dall’altro l’avvocato, che apre e chiude le porte secondo il suo umore. Bartleby non è sistemato con gli altri scrivani, ma dalla parte del suo datore di lavoro: in «un angolo accanto alle porte pieghevoli», la sua scrivania è collocata accanto «a una finestrina laterale», che si affaccia «su nulla» avendo a meno di tre piedi «un muro». La luce cola dall’alto, tra le due pareti vicine, come da «un pertugio di una cupola» e penetra stentatamente dalla finestra. Infine, «un alto paravento verde» nasconde Bartleby alla vista dell’avvocato, pur lasciandolo «a portata di voce». I due animali da studio, Turkey e Nippers, da un lato, narratore e protagonista dall’altro. Ma perché nascondere dietro un paravento il protagonista a cui tocca di diritto il proscenio? In realtà, rispetto al narratore, chi sta nascosto è l’autore e forse Bartleby, lo scrivano, è in realtà lo scrittore. Ma che fa un autore che non scrive? Bartleby «non faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestra, perso nella fantasticheria ispiratagli dal muro cieco» e irrevocabilmente dichiara di «aver smesso di copiare per sempre». Niente più realismo come copia della realtà. Niente da vedere dalla finestra. Eppure, nel muro cieco si annida l’ispirazione che dà luogo alla «fantasticheria»: la via per l’infinito è aperta.
Perché allegoria e metanarrazione fanno parte della modernità
L’autore, stanco della riproduzione en plein air, preferisce non scrivere più come fanno gli altri, non attinge alla biografia o all’esperienza di fatti realmente accaduti, e non controlla più la verosimiglianza della sua scrittura rispetto all’originale. Questo potrebbe essere un significato della vicenda che conceda spessore allegorico al personaggio: è una possibile chiave di accesso al testo, che – ovviamente – resta aperto a molteplici interpretazioni. Melville, nel 1853, potrebbe occuparsi in questo racconto della trasformazione, percepibile in Italia nel primo Novecento (Pirandello, Tozzi, Svevo), del lavoro impiegatizio che assume le caratteristiche alienanti del lavoro ripetitivo, meccanico, subordinato di fabbrica. L’impiegato diventa perciò figura dell’intellettuale declassato, ridotto a semplice esecutore di mansioni anonime dettate da un datore di lavoro altrettanto anonimo (l’avvocato-narratore non ha un nome, infatti). L’ufficio, luogo naturale dell’impiegato, è il cronotopo del tempo ciclico insignificante della burocrazia, è lo spazio stretto in cui si occulta ed esprime, dietro un paravento, la frustrazione dello scrittore alla ricerca della espressione di se stesso e di una gratificazione impossibile da raggiungere. Nella modernità tutto è commisurato al successo, che si traduce in denaro. Lo scrittore-scrivano, alle dipendenze di qualcuno, e afflitto da autocensura, deve svolgere diligentemente il suo lavoro, deve assumere un metodo riconoscibile di scrittura, deve usare quella prudenza necessaria a non scandalizzare il pubblico pagante, se vuole mantenere il suo ruolo. Melville, dal suo osservatorio statunitense, racconta con estrema semplicità del potere del denaro, di cui più tardi si tratterà in Europa, ed è certo che il lettore di questo primo quarto del primo secolo del nuovo millennio riconoscerà, meglio di quanto potesse fare il lettore ottocentesco, in Wall Street l’emblema concreto della speculazione finanziaria, svincolata dalla produzione di cose. Di fronte alla prepotenza del sistema economico, alla necessità del profitto e del lavoro come processo disumanizzante, la libertà dell’artista consiste, meglio, consisterebbe nell’opporre il proprio rifiuto. La protesta diventa disallinearsi rispetto al sistema, alla normalità di chi esegue passivamente operazioni insulse. Al modello della necessità si oppone quella di una eventuale seppure capricciosa preferenza. La scandalosa ribellione dello scrittore sarebbe non scrivere più e perdersi in piedi a guardare un muro o il nulla o se stesso, imbambolato di fronte ad una finestra cieca. La libertà dell’artista diventa inazione, reclusione, emarginazione, prigione, morte. Se il processo di disumanizzazione legato al profitto omologa gli individui, allora il destino dello scrittore è analogo a quello dello scrivano. Lo scrittore scomparso si fa personaggio per avere l’unica possibilità di esistenza: è il paradosso della scrittura che affida a se stessa la denuncia della sua inutilità. Anche se preferirebbe di no, lo scrittore alla fine scrive.
Perché preferirei non dire perché
Esasperato dalla totale inerziadi Bartleby, l’avvocato prova a licenziarlo e gli offre dei soldi perché lasci lo studio, ma il giovane ignora il denaro, che rimane sotto il fermacarte sulla scrivania. Bartleby diventa anche per i colleghi del narratore una oscura presenza, «il fantasma dell’ufficio»(pag.69), di cui bisogna urgentemente liberarsi. Poiché lo scrivano non vuole lasciare il suo spazio, è l’avvocato a trasferirsi. Il giorno del trasloco
Per tutto il tempo lo scrivano se ne rimase in piedi dietro il paravento che ordinai di portare via per ultimo. Fu tolto e, piegato come un enorme foglio, lo lasciò inquilino immobile di una stanza spoglia. […] dovetti fare uno sforzo per strapparmi da lui […]. (pagg. 71-2)
Nonostante ci sia un nuovo avvocato ad occupare i locali, Bartleby non abbandona l’edificio: di giorno sta seduto sulla ringhiera del pianerottolo e la notte dorme dietro la porta dell’ufficio, con grande preoccupazione del proprietario dello stabile che teme, a causa di questa presenza inquietante, di perdere affitti e clienti. Nonostante tutti i tentativi del narratore, Bartleby non si allontana, finché, denunciato per vagabondaggio, viene arrestato e tradotto in carcere: le Tombe, l’antico carcere giudiziario di New York, dallo stile egizio, e dal nome, per il racconto, prefigurante l’inevitabile conclusione. Data la sua mansuetudine, a Bartleby viene concesso di
aggirarsi liberamente per la prigione e soprattutto nei cortili erbosi interni. Fu quindi lì che lo trovai, da solo, in piedi nell’angolo più tranquillo, con il volto verso un alto muro […] (pag. 79)
Dopo pochi giorni, Bartleby, che non parla con nessuno, che non mangia, che in piedi sta a guardare il muro e che dorme nel cortile su una «soffice erbetta prigioniera», muore silenziosamente.
Rannicchiato in una strana posa ai piedi del muro, con le ginocchia piegate, disteso sul fianco, la testa appoggiata sulle pietre fredde, […] mi chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano aperti; per il resto, sembrava immerso in un sonno profondo. (pag. 83)
Come per un santo eremita (il capo appoggiato alle pietre, il digiuno, il silenzio sono tutti segni inequivocabili) la morte è un passaggio e non una fine: come il sonno promette un risveglio, la posizione fetale sembra rimandare ad una rinascita. Ogni lettore lo riporterà in vita e ripeterà sorridendo la sua formula.
L’avvocato prima di concludere il suo racconto ci fornisce tra mille esitazioni un’ultima incerta notizia su Bartleby:
Ecco la notizia: Bartleby era stato un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all’improvviso licenziato per un cambiamento dell’amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? (pag. 84)
Bartleby diventa scrivano dopo avere maneggiato le lettere smarrite di uomini morti. Meglio copiare che distruggere. Meglio sparire che scrivere?
Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O Bartleby! O umanità! (pag. 85)
Il cortocircuito della scrittura tra oblio e eternità è il medesimo dello scrittore e del personaggio. Ma il destino di ogni uomo comune è quello delle lettere smarrite. Anche se ognuno preferirebbe di no.
Articoli correlati
No related posts.
Commento
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
A che serve la poesia? Parole da Gaza -
La pigra potenza. Filmare Sandro Penna tra documento, cinema sperimentale e televisione -
La Cina nelle pagine di un dissidente letterario: Yu Hua -
La trasformazione di un mito: Robinson da Defoe a Vittorini -
-
La scrittura e noi
-
Inchiesta sulla letteratura Working class /5 – Matteo Rusconi -
Storie di famiglie. Su Una famiglia americana di Joyce Carol Oates -
Inchiesta sulla letteratura Working class /4 – Fabio Franzin -
Sono comuni le cose degli amici. Su “Platone. Una storia d’amore” di Matteo Nucci -
-
La scuola e noi
-
QUASI DISCRETO = 6/7 = 6.75 = VA BENINO? -
Tradire Manzoni? Una proposta didattica su “The Betrothed” di Michael Moore -
Costruire un laboratorio di scrittura interdisciplinare: diritti del lavoro e diritti umani al centro della formazione critica -
Vivere e riappropriarsi del territorio -
-
Il presente e noi
-
Su Il sentiero azzurro (O Último Azul) di Gabriel Mascaro -
Un “collegio” dei docenti nazionale per Gaza -
Fermiamo la scuola: la protesta degli insegnanti dell’Alto Adige -
“Un crimine impefetto” (Franck Dubosc) -
Commenti recenti
- Stefania Meniconi su La trasformazione di un mito: Robinson da Defoe a VittoriniGrazie a te, Barbara! Come pensi di lavorare su questi spunti? Mi hai incuriosito…
- Rinaldo su QUASI DISCRETO = 6/7 = 6.75 = VA BENINO?Questo è un articolo magistrale. Chissà se Corsini lo leggerà mai.
- Il Giorno della Memoria ai tempi di Gaza – La porta su Viviamo ormai dentro una logica di guerra? Su Antisemita. Una parola in ostaggio di Valentina Pisanty[…] LEGGI L’ARTICOLO […]
- PAOLO MAZZOCCHINI su Fermiamo la scuola: la protesta degli insegnanti dell’Alto AdigeSottoscrivo ogni parola del comunicato sindacale di questi coraggiosi colleghi e auguro alla loro iniziativa…
- Veronica su Vivere e riappropriarsi del territorioCaro Matteo, ti ringrazio per il tempo che hai voluto dedicare alla lettura del mio…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Giulia Falistocco, Orsetta Innocenti, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore

La sua morte è un segno di grande coerenza: quella di non scendere a compromessi. Bartleby è riuscito a mettere a nudo l’assurdità del sistema. Dovremmo tutti avere il coraggio di dire “I would prefer not to” ogni volta che ci viene chiesto di omologarci.
Eppure mi accorgo che ci sono tante pecorelle smarrite, persone corrotte che, per sete di potere, si vendono per quattro soldi. Io auspico che le poche pecore nere, quelle che hanno il coraggio di affermare “I would prefer not to”, riescano un giorno a cambiare le sorti di questo sistema.
Grazie per la piacevole lettura.