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diretto da Romano Luperini

DalBianco

Intervista a Stefano Dal Bianco

 A cura di Daniele Lo Vetere

Il poeta Stefano Dal Bianco ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sulla sua poesia. Pubblichiamo l’intervista che gli è stata fatta in quell’occasione dal nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.

1. La sua poesia si avvale della sua profonda perizia di studioso di metrica. I suoi versi danno l’impressione di una grande naturalezza metrica e ritmica, mentre sono versi “artificiosissimi”. Durante l’incontro è emerso quanto gli studenti pensino alla poesia prevalentemente come a una forma chiusa (sonetti, rime, terzine, …), che deve “esibire” la sua struttura, e quanto, per questo, restino spiazzati da testi in cui quella struttura, pur rigorosa, è tuttavia celata. Ciò dipende certamente da un’abitudine contratta a scuola, ma questo bisogno di rassicurazione stupisce comunque, perché veniamo da un secolo che ha quasi idolatrato il verso libero (parlo almeno al livello della vulgata), al punto da far pensare a versificatori non professionisti di poter andare a capo quasi a piacimento. Ha qualche suggerimento didattico da dare ai docenti per lo studio della metrica e in generale degli aspetti formali della poesia, proprio allo scopo di andare oltre questa idea un po’ libresca del genere? Come far percepire agli studenti la musica e il ritmo anche in assenza di una forma tradizionale e riconoscibile? Come, insomma, introdurli alla poesia moderna e contemporanea, dove le forme esistono ancora, ma sono più difficili da scovare e sono fondate sulla declinazione del tutto privata della tradizione?

Temo di non avere ricette, e non solo per la scuola, ma anche per l’insegnamento in università. La tradizione dell’endecasillabo è fatta di ritmi e di figure prosodiche che possono essere ben presenti anche (e aggiungerei: soprattutto) in un testo composto in ‘metrica libera’. La coscienza di questi fatti formali nelle poesie che si leggono si è andata perdendo, o non c’è mai stata. Ciò che dovrebbe restare comunque è la loro percepibilità a dispetto della coscienza dei lettori. Insomma: se una poesia ‘funziona’ o meno, ciò dovrebbe accadere al di là del fatto che noi siamo coscienti del come e del perché. A volte la ‘corrente’ passa, a volte no. Mi sento di dire due cose. La prima è di insistere in classe sulla lettura ad alta voce, anche ripetuta più volte; la seconda è di lasciar perdere l’analisi ritmica se non si hanno gli strumenti e la sensibilità per farla: meglio insistere su livelli più abbordabili come lessico, sintassi, figure foniche. Queste ultime sono spesso molto presenti in testi contemporanei che a prima vista sembrerebbero ripudiarle…

 2. Nel corso dell’incontro ha definito alcuni suoi componimenti “volutamente sgradevoli”, credo in ragione del contenuto così prosaico da sembrare non poetabile. Il Novecento è stato il secolo che ci ha insegnato che quasi tutto (tutto?) può diventare materia di poesia, che non esistono territori impuri. Che cosa, allora, trasforma un’esperienza banale (o fin spiacevole) in poesia, oltre alla messa in forma? È una questione di intensità dell’esperienza? Di un particolare sguardo su di essa? O di cos’altro ancora? Come e perché lei decide, ad esempio, di dedicare una poesia della sua ultima raccolta Prove di libertà al gesto di trasferire suo figlio «dal lettone al lettino» o di parlare della cattiva digestione, come fa in un’altra?

La ‘sgradevolezza’ di cui parlavo in realtà si riferiva soprattutto all’atteggiamento di chi scrive verso il lettore. In Prove di libertà molto spesso il mio atteggiamento non è affatto empatico, ma piuttosto sarcastico e ‘fustigante’ nei confronti delle consuetudini esistenziali del lettore (e anche delle mie, ovviamente). Del resto, come farebbe la poesia a cambiare il mondo se ogni volta si desse in pasto al lettore esattamente ciò che già sa e che vuole sentirsi dire? Tuttavia, per agire sulla sensibilità di chi legge, mi pare preferibile far leva su aspetti della vita quotidiana che possano essere di esperienza comune, così come è meglio ‘parlare come si mangia’, correndo il rischio paradossale di vedersi innalzare un muro da parte del lettore, che non riconosce più come forma d’arte ciò che gli parla direttamente di ciò che non vuole sentirsi dire, e preferisce sentirsi dire cose che avvallano la sua percezione del mondo, ma in forma oscura e ‘poetica’ appunto. Mi sono spiegato?

3. La questione del rapporto tra poesia e canzone d’autore è emersa più volte, nel corso dell’incontro. La mia impressione è che dopo decenni di discussione sui rispetti valori di questi due generi, la questione sia stata di fatto risolta alla radice dal pubblico: mi pare, infatti, che l’ascolto dei cantautori in funzione propedeutica alla lettura di poesia sia oggi statisticamente irrilevante, nel senso che pochi adolescenti ascoltano Guccini, De André, De Gregori…, dunque pochissimi “arrivano” alla poesia. Che cosa pensa del rapporto fra queste due forme artistiche ed è d’accordo che il vecchio legame fra di esse, per quanto conflittuale o discusso, si sia indebolito?

Sono d’accordo, il legame si è indebolito. Può darsi che ciò sia un bene. Ne va del riconoscimento delle rispettive specificità. La poesia, del resto, non ha mai giocato sui grandi numeri.

4. Benché si tratti di una formula un po’ sciocca, leggendo le sue poesie capita di pensare quanto esse siano “filosofiche”: ci sono molti versi icastici e sentenziosi, come se lei cercasse di fissare in forma definitiva il senso di un’esperienza, magari, come si è detto, quotidiana e semplice («Chi non ha niente in sé sta nella paura / e chi ha paura si difende aggredendo»); alcune poesie, poi, articolano in modo evidente una riflessione – o forse, per dirla con Luzi, un “infrapensiero”, una meditazione non sistematica e quasi subliminale. A questo riguardo vorrei citare il componimento, in prosa, che chiude Prove di libertà, Essere umani: «Interrogare è importante qualora si preveda l’eventualità di una risposta e qualora si preveda l’eventualità di darle credito, qualora si preveda l’eventualità di dare in noi un seguito a ciò che potremmo intravedere. Interrogare è importante qualora si preveda l’eventualità di dover dare ascolto ai barlumi intravisti. L’interrogare senza conseguenze pratiche non è un interrogare. È un gioco di criceti ingabbiati. Interrogare negando a priori l’eventualità di una risposta positiva è un vizio da poveretti. Interrogarsi sul come delle cose evitando il perché è un vizio da meccanici. Come una cosa funziona non può andare disgiunto dal suo scopo. Perché noi sempre ci spacchiamo la testa sulla funzione e mai sulla finalità? Per carità, per amore, per grazia di Dio diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo.». Oggi la specificità della poesia, intesa come forma di conoscenza, sta in questa attenzione per la «finalità», in contrapposizione alla concentrazione esclusiva sulle cause e al determinismo tipici della scienza (cioè, in ultima analisi, della modernità)? In che senso l’attenzione alla finalità si configura come «ascolto» (di notte, nel bosco)?

In Prove di libertà si tenta di parlare dei massimi sistemi (diciamo così) attraverso l’esperienza quotidiana di ciascuno. In generale, il libro non dà molto credito alla ‘poesia’ in sé, così come la si intende di comune accordo. Per molti versi, si tratta di un libro che va contro la poesia. Il testo che hai citato, Essere umani, non parla di poesia ma di noi, e nasce da una insofferenza verso una parola di moda nel lessico intellettuale, letterario e filosofico degli ultimi decenni, che è ‘l’interrogazione’. A volte sembra che l’importante sia l’interrogare di per sé, e si dà per scontato che una risposta non esista, restando ancorati al come delle cose. Da questo punto di vista, che definirei razionalmente trascendente, la causa e la finalità del nostro stare al mondo stanno dalla stessa parte: sono ciò che la falsa razionalità del nostro tempo costantemente rimuove, e non ha nemmeno il coraggio di guardare in faccia. La possibilità che ci è data è di allargare gli spazi di silenzio per fare chiarezza. E la chiarezza può venire soltanto da un ascolto della natura e del cielo stellato.

5. Quali libri di poesia consiglierebbe a un adolescente che desideri avvicinarsi a questo genere ma che se ne senta intimorito?

Ci si dimentichi della scuola e si prenda in mano l’Orlando Furioso, che è il più bel romanzo di avventure che sia stato scritto in lingua italiana. Lo si legga tutto, divertendosi. Garantisco la nascita progressiva della famosa coscienza ritmica. Il resto verrà da sé.

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