Guerra e pace: retorica e miopia del Governo
Nelle comunicazioni al Senato del 24 giugno 2025 la presidente del Consiglio dei Ministri ha fatto sfoggio di una citazione latina per spiegare la sua adesione subalterna al piano di riarmo europeo, che ci sta spingendo verso un nuovo conflitto planetario, probabilmente nucleare. «Sul tema del riarmo… insomma sì, dicevano che è stato alla base della guerra, io la penso come i Romani: ‘Si vis pacem para bellum’» (YouTube, Agenzia televisiva nazionale, consultato il 24.08.2025). L’imbarazzo esitante, che traspare dall’espressione non verbale, si traduce anche nella costruzione sintattica contorta. Ella sente di muoversi su un campo minato – e poi credo che il latino non sia un terreno per lei così agevole.
Una retorica neofascista
Il riferimento agli antichi romani è la spia semantica della natura retorica del suo pensiero. Rappresenta il riferimento alla grandezza di Roma, di mussoliniana memoria, che risplenderebbe ancora sui sette colli della città eterna. La retorica nasconde l’assenza di un reale pensiero strategico sull’attuale situazione geopolitica. A questo proposito ricordo il giudizio di Umberto Eco (Il fascismo eterno, 1995, ed. 2019, p. 22) sulla natura del fascismo ed. 2019, p. 22: «Mussolini non aveva alcuna filosofia: aveva solo una retorica».
Vegezio, chi era costui?
A questo punto è cominciata la ricorsa della stampa nostrana alla ricerca della “nobiltà” delle fonti del pensiero presidenziale. La massima è attribuita a un poco noto scrittore latino del basso impero (IV-V secolo d.C.), Publio Flavio Vegezio Renato, il quale sembra non avesse alcuna esperienza militare. Nel terzo libro della sua Epitoma rei militaris (quindi un riassuntino a scopo divulgativo) scrive una variante della citazione che gli viene attribuita: «Qui desiderat pacem, preparet bellum», appunto ‘chi desidera la pace, preprari la guerra’ (L’arte della guerra romana, Rizzoli, 2003). Siccome la fonte non è così “nobile”, sono stati scomodati Platone, Tucidite e il Cicerone della settima Philippica contro Marco Antonio (Beatrice Barbato, «’Si vis pacem, para bellum’ cosa significa e che origini ha la frase pronunciata da Meloni», Sky TG24, 25 giugno 2025).
Due millenni di storia smentiscono la massima di Vegezio
La storia antica, medioevale e moderna, che ci viene insegnata a scuola, sbugiarda Vegezio. Da più parti viene sottolineato che la storia di tutti i tempi può essere ridotta al susseguirsi di una serie infinita di guerre e di battaglie cruente. Se la questione stesse nei termini attribuiti a Vegezio, l’umanità avrebbe conosciuto periodi di pace prolungati. Nell’antica Roma – per venire incontro alla ricostruzione cara a Giorgia Meloni – c’era un tempio, di cui è significativo che non esista alcun vestigia, dedicato a Giano, il dio bifronte di tutte le porte e di ogni inizio, divinità della pace, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, ovviamente perché non era necessario pregarlo, e aperte in tempo di guerra, quando le preci erano indispensabili. Secondo Svetonio (Vite dei Cesari, Rizzoli, Vol. 1, 1982), dalla fondazione di Roma il tempio venne chiuso solo quattro volte.
Volendo rimanere alla storia della latinità, a proposito di riarmo si potrebbe riportare una citazione opposta, il famoso incipit della decima elegia del primo libro di Tibullo: «Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?», tradotto ‘Chi fu colui che per primo inventò le spade orrende?’ (Albio Tibullo, Elegie, Zanichelli, 1948, p. 116). Tibullo con una riflessione ancora attuale connette la guerra all’invenzione delle armi, dettata dal desiderio del potere e della ricchezza, contrapposto alla semplicità della vita agreste, cioè al suo ideale di pace. Siamo all’apice della storia romana, delle virtù repubblicane, prima dell’avvento dell’impero e all’imposizione armata della pax romana, più volte paragonata alla pax americana del secondo Novecento.
Se, poi, vogliamo rimanere alla storia contemporanea, il riarmo europeo, in particolare quello tedesco, ha prodotto le ultime due guerre mondiali.
Il rapido excursus storico attesta l’insipienza della retorica meloniana. Ma veniamo alla cogenza del presente.
La fine attuale dell’equilibrio del terrore o deterrenza nucleare
Nella seconda parte del retorico discorso a favore del riarmo Giorgia Meloni sostiene in termini semplificatori: «la pace è deterrenza, lo condividiamo no? … se si hanno dei sistemi di difesa solidi, si possono più facilmente evitare dei conflitti … ». Ella nel video sembra riferirsi con tono dialogante alle “opposizioni”, contando sul comune riferimento a vecchi paradigmi. Il punto maledetto del discorso è la cosiddetta dottrina della deterrenza atomica, anche se la presidente del Consiglioocculta opportunisticamente il riferimento alla Bomba. Si rivela qui la profonda miopia strategica, sua e di tutti coloro che continuano a riferirsi più o meno consapevolmente al paradigma della Guerra Fredda. Vi è anche la sottostante ignoranza delle dinamiche indicate dalla teoria dei sistemi riguardo all’escalation, che acceca gli umani e che riguarda pure la competizione nucleare. L’escalation, cioè il progressivo aumento dell’intensità dello scontro, può avere effetti distruttivi devastanti se non si riesce a trasferire il conflitto a un livello superiore, dove può trovare una composizione. Questo vale per tutti i sistemi umani complessi (coppie, famiglie, gruppi, comunità, istituzioni, nazioni, alleanze ecc.).
La Guerra Fredda era caratterizzata da due superpotenze, che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale. USA e URSS dal 1945 al 1989 si sono divise il pianeta in un sostanziale equilibrio concorrenziale in tutti i campi (cultura, ideologia, politica, economia, sistemi di difesa e offesa atomici, balistici, spaziali e convenzionali). Era l’equilibrio del terrore. La situazione geopolitica oggi è radicalmente cambiata. Non vi è più un bipolarismo, bensì un multipolarismo conflittuale, che ho qui indicato già nel marzo del 2022, all’inizio della guerra russo-ucraina. La situazione planetaria è frutto della rivoluzione elettronica, della conseguente globalizzazione e della lotta imperialista per la conquista del mercato globale. Il bipolarismo era un equilibrio stabile, il multipolarismo conflittuale è di per sé instabile, soggetto a continui tracolli commerciali e bellici. Nella situazione precedente le due superpotenze potevano scontrarsi in conflitti regionali controllati, che non minavano l’equilibrio complessivo, compresa la guerra prima coreana e poi vietnamita, che pure segnarono l’inizio del declino statunitense. Oggi i conflitti regionali, dal Kossovo (1998-1999) in poi fino all’Ucraina e alla Palestina, tendono a essere di lunga durata e a creare schieramenti internazionali a geometrie variabili. Va segnalata la tendenza a ripristinare un equilibrio bipolare, che, però, non riesce a cristallizzarsi: da una parte la superpotenza americana declinante con i satelliti europei, l’Occidente, dall’altra il blocco dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), che comprende all’interno altre due superpotenze (Russia e Cina) e che non riesce a trovare una più solida convergenza di interessi. Il dollaro ha sostituito l’oro come base delle transazioni commerciali internazionali, ma l’altro blocco non riesce a dotarsi di una moneta unica adatta allo scopo, anzi procede molto cautamente in questa direzione.
Recentemente Limes, la rivista italiana di geopolitica, ha dedicato il numero 6 del 2025 monograficamente alla “Corsa alla Bomba”, indicando con nettezza nel sottotitolo di copertina che “la guerra Israele-Iran cancella la deterrenza”. Nell’articolo di apertura della Parte I dedicata a “Bomba o non Bomba” Agnese Rossi sostiene la tesi generale della rivista: la guerra dei dodici giorni fra Israele e Iran «ha sancito la fine della deterrenza nucleare basata sulla mutua distruzione assicurata» (p. 7). Tale deterrenza è stata la «ricetta relativamente efficace all’epoca di un ordine bipolare e stabile basato sulla simmetria russo-americana, oggi scricchiolante sotto il peso di attori sempre più autonomi e determinati a giocare secondo le proprie regole. A dotarsi dell’arma totale ma a usarla a modo loro. La proliferazione delle dottrine atomiche, prima ancora che quella degli armamenti, evidenzia le crepe del regime nucleare ereditato dalla guerra fredda, insieme alla pace che esso contribuiva a garantire» (p. 51). È ovvio che dove i detentori della Bomba sono un numero limitato (due principalmente) i rischi sono minori rispetto alla situazione attuale in cui sono nove (USA, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord), a cui vanno aggiunti i cosiddetti “paesi nucleari latenti”, cioè quelli che potrebbero dotarsi della bomba atomica a breve termine (Paesi Bassi, Germania, Canada, Brasile, Argentina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e l’Iran stesso). Vanno aggiunti a breve termine Turchia e Arabia Saudita. Secondo l’editoriale anonimo di questo numero di Limes «persino in Italia potrebbero riaffiorare sepolte velleità nucleari, espresse nel programma segreto franco-germanico-italiano del 1957, bloccato dagli americani (poi da De Gaulle) e nell’altrettanto riservato scontro al vertice nella nostra adesione o meno al Trattato di non proliferazione nucleare, vinto in extremis dagli ortodossi del convenzionale» (p. 8). Insomma: siamo seduti su una polveriera atomica con diversi detonatori disponibili. Siamo di fronte a quella che Agnese Rossi chiama «proliferazione senza deterrenza». Il caso dell’Iran ha una dinamica specifica, su cui vale la pena soffermarsi perché segna un punto di passaggio decisivo.
Il caso iraniano e la guerra dei dodici giorni
L’Iran ha giocato per molto tempo il ruolo di “paese soglia”, cioè a cui mancava poco per dotarsi della Bomba. Questo gli ha permesso di mantenere un dialogo difficile con gli Stati Uniti e l’Occidente, aderendo al Trattato di non proliferazione e accettando anche i controlli dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che alla fine lo ha tradito, dando il pretesto per scatenare l’attacco israeliano e statunitense. Così otteneva due risultati: manteneva attivo il programma nucleare civile e sottotraccia continuava ad arricchire uranio per il programma militare (oltre 400 tonnellate per costruire circa dieci ordigni nucleari). L’attacco israeliano è stato un azzardo che ha rotto l’equilibrio precario con l’obbiettivo della vittoria finale, cioè mettere a tacere definitivamente il nemico mortale, l’Iran, che sta dietro tutti i fronti, su cui Israele sta attaccando (Gaza, Gisgiordania, Libano, Yemen, Siria e Iraq). Si capisce meglio la ferocia genocidaria contro i Palestinesi di Gaza: l’obbiettivo del “grande Israele” dal mare al fiume e anche oltre è isomorfo a quello della vittoria finale sull’Iran. È la hybris di Eschilo ne I Persiani, la tracotanza che acceca gli umani, che supera ogni limite. Nel codice culturale della più antica tragedia greca il limite è quello sacro sancito dagli dei. Nel codice moderno della teoria dei sistemi la hybris, che supera ogni limite, cioè che sfugge al controllo, è l’escalation senza fine. Netanyahu ha ottenuto di trascinare nella guerra dei dodici giorni il riluttante socio Trump, che ha cercato, però, di limitare i danni. In realtà l’Iran è uscito vincitore dal confronto e ha festeggiato con manifestazioni di giubilo la fine del conflitto, mentre a Tel Aviv i lumi sono rimasti spenti. Infatti non è stato conseguito l’obbiettivo di distruggere il deposito di uranio arricchito iraniano di Fodorow, forse spostato per tempo su indicazione occulta degli statunitensi, che così hanno lasciato aperto uno residuo spiraglio futuro di trattativa. Ma l’effetto planetario è stato ancora più devastante. Giustamente il già citato editoriale di Limes sostiene: «La guerra dei dodici giorni fra Israele e Iran con la partecipazione straordinaria degli Stati Uniti non sarà ricordata per i modesti esiti tattici ma per lo sconvolgimento che ha innescato su scala globale. Perché ha sancito la fine della deterrenza nucleare basata sulla mutua distruzione assicurata. Gli arsenali nucleari effettivi o latenti non assicurano più la vita di chi li possiede, per esempio Israele, o potrebbe presto dotarsene, come l’Iran» (p. 7). Così gli iraniani non protetti dalla Bomba sono oggi spinti a fabbricarsela. È un episodio della proliferazione senza deterrenza. Si insinua, viceversa, l’idea di un uso “tattico” di un ordigno nucleare capace di distruggere il bunker di Fodorow, impresa impossibile anche per le bombe antibunker convenzionali, usate dagli USA, che Israele non possiede. Insomma: la Bomba è stata sdoganata come un’arma tra le altre da più punti di vista: tattico, strategico, addirittura preventivo (scrive Limes: «Paranoia delle guerre preventive di Stati atomici contro presunti aspiranti», p. 7). Infine, l’aumento del numero delle potenze nucleari incrementa il rischio della guerra nucleare per errore a causa dei sistemi di difesa preposti ad avvistamenti veri o presunti di attacco atomico.
Debolezza attuale e necessità di un movimento per la pace internazionale
Se l’analisi di cui sopra è corretta, ne esce rafforzata dal punto di vista razionale l’idea che la situazione planetaria di multilateralismo conflittuale implica la necessità di un livello superiore, in cui i conflitti possano essere compensati e mediati e possa essere bloccata l’escalation atomica. Ciò implica il riconoscimento e il rafforzamento delle istituzioni internazionali, prima fra tutte l’ONU, e del diritto internazionale su cui si fonda. Ma l’ONU deve essere liberata dai vincoli legati all’uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, in particolare dal diritto di veto delle cinque potenze vincitrici. Mi rendo conto di quanto la proposta possa essere accusata di utopismo, ma da più parti si invoca una “riforma dell’ONU”, in particolare dalle potenze concorrenti della supremazia statunitense. Recentemente l’ha fatta lo stesso Putin, per quanto la proposta possa essere strumentale contro gli USA. Per mettere la proposta con i piedi per terra è necessario un robusto movimento per la pace coordinato internazionalmente, che costringa i governi ad accettare la logica razionale. Nell’attuale debolezza del movimento per la pace convergono tre fattori, che si rovesciano uno nell’altro: 1. la sconfitta epocale delle ragioni del movimento dei primi anni 2000 (i No Global, intrappolati e distrutti dai servizi segreti del G7 a Genova); 2. la mancanza di un punto di vista politico comune (una sorta di “teoria della pace”); 3. la mancanza di un vero coordinamento internazionale dei movimenti per la pace. Auspicavo a suo tempo un movimento analogo a quello sul cambiamento climatico di Friday for Future. In questo senso trovo importante l’iniziativa della Global Sumud Flotilla, che il 31 agosto è partita da Genova e da Barcellona e successivamente prenderà il mare da altri porti del Mediterraneo con imbarcazioni provenienti da 44 paesi, che proveranno via mare a rompere pacificamente il blocco navale israeliano di Gaza con il duplice obbiettivo di far entrare gli aiuti umanitari nella Striscia e di rompere il silenzio su Gaza. L’iniziativa va sostenuta in tutti i modi perché, per quanto possa apparire parziale, avviene sotto gli occhi del mondo, creando grosse difficoltà al governo reazionario di Tel Aviv ad attaccarla militarmente, e perché può dare un significativo contributo all’uscita dall’enpasse dei tre fattori che siglano la debolezza del movimento per la pace.
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