Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Matta impresa di Antonio Minutolo letteratore italiano – un estratto

È uscito di recente presso Castelvecchi Editore il romanzo “Matta impresa di Antonio Minutolo letteratore italiano” di Roberto Contu, di cui pubblichiamo un estratto. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

*****

(segue dal Capitolo quinto)

Fu il burattino di legno Pinocchio, con i suoi strepiti, a rompere il piccolo miracolo di serenità che le parole di Oscar Selvaggio, proprio come a falde dilatate e come neve in alpe senza vento, avevano fatto calare su noi tutti, ridestandoci con i suoi: «Ci siamo! Ci siamo, siamo infine giunti! Siamo arrivati! È qui! È qui, è qui sotto!».

«Ma cosa dici, maledetto», gli ringhiò Fosca la fosca la quale, spintasi poco più avanti sul margine di pietra, s’era poi come immobilizzata e stava tornando indietro come per aggredire il burattino di legno Pinocchio che s’era rifugiato tra le gambe di ’Ntoni Toscano, il quale, non so per quale misteriosa alchimia delle elezioni personali, sembrava avere preso a proteggerlo e custodirlo.

«C’è il vuoto laggiù!», continuò a urlare Fosca la fosca. «Un burrone di cui non si vede fondo! Ci ha fregato di nuovo! Ci hai fregato di nuovo, maledetto demonio di legno! Ma ora ti ci butto dentro, quanto è vero che sono Fosca la fosca!».

Nel parapiglia del Conte Luigi Sperelli-Fieschi d’Ugenta che – io credo per buona creanza, ma anche per il miele rimasto dell’incontro appena goduto – tentava di frapporsi a Fosca la fosca e il burattino di legno Pinocchio, con il fantolino Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta che saltellava come una cavalletta posseduta da un lato all’altro del margine, ebbi io modo di affacciarmi infine sulla proda dove esso terminava e dove in effetti l’acqua fosca del fiumiciattolo precipitava in un buio senza fine, un burrone interminato, senza nemmeno si potesse sentire lo scroscio finale che cozzava su un qualsiasi letto che l’accogliesse.

A quel punto impetrai anche io e, per un attimo, come Fosca la fosca, fui pervaso dalla rabbia che il burattino di legno Pinocchio – nei fatti un assurdo e irreale pezzo di legno animatosi di una vita che non conosceva ragioni – ci avesse di nuovo ingannati, ma a questo punto davvero perduti, ché mai saremmo riemersi da quell’abisso nel quale c’eravamo volutamente cacciati.

Eppure, il burattino di legno Pinocchio continuava a strepitare tra le gambe di ’Ntoni Toscano: «È qui! È qui, è qui sotto!», tanto che a un dato momento, sorprendendo tutti, ma in particolare Fosca la fosca che stava per ghermirlo, sgattaiolò via tra le loro gambe e poi – ho in mente ancora l’orrido e sordo rintoccare di quei piedi di legno sulla roccia del margine – con una corsa a scapicollo verso il basso io lo vidi, horribile visu, spiccare un salto altissimo, sì che per un istante me lo ritrovai in volo, come già in piazza del Campo, ma questa volta in un tuffo orribile e tremendo in quel burrato buio e infinito, intanto che lo contemplammo tutti precipitare nel vuoto e in un battito di ciglio sparire in basso, sotto i nostri occhi.

Saltato, precipitato.

Sparito, perduto.

Io non so quanto durò la progressione di quegli attimi, di quel tempo. Ma poi, che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più[1]. So che quell’istante durò più del dovuto, sì che perso il burattino di legno Pinocchio, mi vidi perso anch’io, persi tutti noi che eravamo degenerati in quella scellerata impresa, ovvero noi che avevamo perso il genere stesso della nostra identità, della nostra realtà, della nostra medesima esistenza.

È così che mi ricordo ora in quel frangente, come mi scrutassi da fuori, come fossi altro corpo: le mie ginocchia piegarsi per la disperazione, ma lentamente, le mie mani portarsi al capo per la costernazione, ma ancor più lentamente, il grido d’orrore soffocato che si affaccia oltre l’orbita della mia bocca, ma oltremodo e più di ogni altro movimento, ancora più lentamente.

Quel grido, che volli infine fare esplodere, come fosse la liberazione ultima di tutto lo strazio, ma anche l’ago che avrebbe perforato la bolla dell’irrealtà nella quale ero stato segregato e che scoppiando mi avrebbe restituito al mio passato, a prima che quanto scritto in questo memoriale fosse inverosimilmente accaduto, che avrebbe cassato una volta per tutte ciò che avvenne dopo essermi imbarcato sull’Africa, ecco, quel grido che infine riuscii a fare deflagrare non sortì rumore alcuno, poiché venne affogato da una folata spaventosa di vento e da un buio proveniente dal basso, che per un attimo mi oscurò la vista, come se una tromba d’aria risalente dalle viscere della terra mi avesse investito.

Del tutto stordito, ebbi la forza per un attimo di riavermi, sì che trovai i miei compagni tutti sulla proda di quel burrato infinito, a scrutare anche loro verso il basso, come se quel lampo nero li avesse anche loro colti di sorpresa.

Mi avvicinai come ubriaco e ora davvero, oh lettore che hai avuto pazienza di seguire il racconto di questo memoriale fino a codesto punto, io ti giuro che ciò che scrivo corrisponde alla verità di ciò che vidi, ovvero ciò che mi impegno a raccontarti.

Mi inginocchiai e mi sporsi sul burrone orrido e infinito. Per quel buio assoluto vidi un puntino, poi una forma che si accresceva sempre di più, quindi nuotare per l’insù una figura, così come riemerge il marinaio che si è tuffato per andare a liberare l’ancora incagliata in qualche impedimento in fondo al mare, e nella parte superiore del corpo si distende e ritrae a sé le gambe per darsi la spinta[2].

Quella figura divenne sempre più grande, infine immane, della stessa proporzione dell’ombra buia che poco prima mi aveva ottenebrato, fino a salire al nostro livello, fino a portare a stazionare una immensa, orrida creatura, orribilmente nel vuoto, di fronte agli occhi pietrificati dallo sbalordimento di noi tutti.

Restammo così, ad ammirarla, trasecolati per un tempo io credo prolungatissimo, ma scandito dall’ondeggiare lento e ritmico di quelle ali enormi di pipistrello, grandi come vele di un bastimento, che vorticavano tanto l’aria che era difficile tenere gli occhi aperti per il vento mosso, il collo lunghissimo che dondolava docilmente come quello di un cigno ma terminava in un gigantesco e fuori dal comune volto di uomo, bellissimo e crudelissimo, poi il tronco lungo, flessuoso, ma damascato di nodi e rotelle, come di un immane serpente con quattro zampe brevi di coccodrillo, e infine quell’orrida coda, che nel vuoto guizzava, torcendo in su la velenosa forca che a guisa di scorpione armava la punta.

E Pinocchio, il burattino di legno Pinocchio, era lì, in groppa a quel mostro.

Il burattino di legno Pinocchio cavalcava nel vuoto quel drago gigantesco, che con nessuna altra natura avrei potuto definire quell’essere spaventoso, il quale sembrava, inorridisco a dirlo, rispondere come il più nobile dei palafreni al semplice tocco dei talloni del burattino di legno Pinocchio, dalla cui espressione serafica sembrava si sapesse donno assoluto di quell’animale straordinario.

Dico di più.

Dico che a un certo punto il volto del burattino di legno Pinocchio si aprì in un sorriso radioso, e iniziò a chiamarci, con l’entusiasmo del bambino che vuole mostrare la cosa più bella al proprio parente: «Visto che c’era! Visto che c’era! Ecco Gerione! Ecco Gerione! Con lui voliamo dove vogliamo!».

Con la coda dell’occhio provai a saggiare le emozioni dei miei compagni, e devo dire che per la prima volta in quell’oramai lungo viaggio vidi il Conte Luigi Sperelli-Fieschi d’Ugenta sinceramente intimorito se non sconcertato, Fosca la fosca pareva avere trincerato il proprio sconcerto in occhi che mi si presentarono di un nero assoluto, come se le pupille si fossero dilatate per lo sgomento, fino a invadere di nero l’intera sclera dell’occhio. Lo stesso ’Ntoni Toscano mi parve allibito, nel suo ripetere con un filo di voce: «… Scattiatu sugnu… scattiatu sugnu»[3].

L’unico che davvero pareva fuori dalla grazia, se di grazia si potesse dire in quel luogo e quella circostanza, era il piccolo decerebrato Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta il quale, come se nulla lo sfiorasse, del tutto disinteressato all’incredibile apparizione del mostro, era intento a lanciare sputazzi e scatarri nel burrone buio, io sono convinto con la speranza di colpire, su un ipotetico fondo, un non so proprio chi in testa.

Lentamente e senza che dapprima me ne accorgessi, il burattino di legno Pinocchio si prodigò per accostare con la testa e il tronco quell’immane creatura alla proda dove ci eravamo affacciati, sì che come tal volta stanno a riva le barche che parte sono in acqua e parte sono in terra, o come là, nei territori degli ubriaconi abruzzesi il castoro s’assetta per fare la sua guerra ai pesci[4], così l’orrendo animale galleggiava sull’orlo di pietra che serrava il sabbione sul buio burrone.

«Avanti, amici, salite tutti, che c’è posto in abbondanza!», squittì con voce eccitatissima il burattino di legno Pinocchio, ma nessuno, dico nessuno avrebbe avuto animo di fare quella follia. Il burattino di legno Pinocchio volle insistere: «Siate forti e arditi! Sono queste le scale che ci porteranno fuori, a Genova, a Torino, dal mio babbino, dove vi pare, dove volete andare!».

Nessuno sembrava veramente volere consegnare la propria vita a quella scellerata e irreale follia se non che, rabbrividisco ancora, dopo l’ennesima scatarrata verso il basso, quell’intemerato esserino molesto dell’Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta alzò lo sguardo, si accorse del burattino di legno Pinocchio dondolante su quello che io credo reputò un immane cavallo a dondolo e, né tre né quattro, dopo avere puerilmente esclamato: «Bello! Anche io!», spiccò un salto che lo issò senza fallo alle spalle del burattino di legno Pinocchio, in groppa a quel mostro dal burattino di legno Pinocchio nomato Gerione.

A quel punto fu un precipitare.

Prima e legittimamente il Conte Luigi Sperelli-Fieschi d’Ugenta volle issarsi accanto al figlioletto, per tutelarlo si direbbe, ma io dico per imitarlo, poiché credo mosso dal medesimo puerile desiderio di goder di codesta mirabile novità. Quindi ’Ntoni Toscano, che prima imprecò, poi esclamò: «I guai da pignata ’i sapi ’u cucchiaru ca l’arimmina»[5] e infine saltò sull’orrida creatura, la quale, a dirla tutta, mostrò nel volto di uomo bellissimo e crudelissimo la smorfia come di chi rischia lo stramazzo per il carico troppo pesante. Infine, Fosca la fosca, che si voltò verso di me e mi ammonì: «Non c’è scelta, avanti, vigliacco», spiccando poi un salto leggiadro che la pose guardinga proprio in prossimità della coda di scorpione, a controllarla con manifesta diffidenza.

«Avanti, don Minutolo!», mi urlò a quel punto il Conte Luigi Sperelli- Fieschi d’Ugenta, apparentemente e inspiegabilmente a suo agio, e sebbene l’orrore per quella creatura spaventevole fosse in me cresciuto a dismisura, l’imminente arrivo del Minotauro, ma soprattutto la paura di rimanere solo lì su quella proda furon maggiori, sì che, dopo un atto di affidamento alla santa protezione di San Gennaro, mi lanciai anche io sulla groppa del mostro Gerione.

E che dire di quanto poi avvenne?

Come la barca esce dall’approdo in dietro in dietro, lo stesso fece il mostro, e poi che del tutto si sentì a suo agio, là dove era il petto rivolse la coda e quella tesa, come fosse un’anguilla, mosse, mentre con le ali l’aria a sé raccolse[6].

Cosa provai in quei momenti?

Io credo davvero che fece bene l’Alighieri a domandare se fosse stata maggiore la paura di Fetonte quando i cavalli gli presero la mano, o quella di Icaro quando si sentì spennare le ali di cera riscaldata dal sole. Mi chiedo anche cosa provò l’Alighieri stesso, l’onore e il lume di tutti i poeti per cui spero mi valga il lungo studio e il grande amore che mi fece cercare il suo volume, aggrappato al buon Virgilio quando visse quel medesimo spavento.

So per certo che quando fu buio in ogni parte e vidi spenta ogni vista, se non quella del mostro e dei miei cinque compagni, non avrei potuto usare altre parole se non quella della Commedia per dire del movimento, del nuotare lento lento, a larghe ruote nella discesa, di cui mi accorsi solo per il vento che da sotto, dal buio assoluto, mi blandiva il viso[7].


[1] Agostino, Le confessioni, G. Barbera Editore, Firenze 1869

[2] D. Alighieri, La Divina Commedia, I – L’Inferno, G.C. Sansoni Editore, Firenze 1897.

[3] «Sono impazzito».

[4] D. Alighieri, La Divina Commedia, I – L’Inferno, cit.

[5] «I problemi della pentola li conosce solo il cucchiaio che mescola il suo contenuto».

[6] D. Alighieri, La Divina Commedia, I – L’Inferno, cit.

[7] Ivi

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore