
L’invettiva ambivalente: Trevisan polemista
Il testo che segue è un estratto dal volume collettaneo “Una (non prospettiva). Percorsi intorno all’opera di Vitaliano Trevisan” curato da Matteo Giancotti e Alvaro Barbieri per Mimesis editore. L’opera raccoglie e distribuisce in sezioni tematiche gli interventi pronunciati presso il DISLL dell’Università di Padova e presso l’Accademia Olimpica di Vicenza in due momenti di pubblica discussione succedutisi nel 2023. Si ringraziano i curatori dell’opera e l’editore per la gentile concessione.
1. Credo occorra partire da un dato preliminare e macroscopico: la difficoltà e il disagio, e insieme la sfida, inevitabili per chi si accinga a dar conto criticamente dei testi di Vitaliano Trevisan. I linguaggi della critica entrano fatalmente in un rapporto di ostilità, o di falsificazione, rispetto agli intenti della sua scrittura, risultando inadatti o vuoti. Più in generale, l’habitat accademico nelle sue forme attuali non sembra concedere alcuna cittadinanza alla categoria della contraddizione, che invece risulta consustanziale alla ricerca e alla prassi di questo autore.
Nella scrittura di Trevisan abita un campo di forze i cui vettori sono organizzati in una forma che ne permette la coesistenza: fra verifica dello spazio e verifica delle parole, a esempio, ma anche fra bisogno di condivisione e appartenenza e necessità invettivale e aggressiva. Da questa coesistenza contraddittoria derivano l’energia e la verità della sua prosa. Non si può dunque apprezzare la forza della scrittura di Trevisan se ci si limita a ridurla a questioni settoriali e tematiche (la rappresentazione dello spazio veneto o del lavoro) o a forme generiche convenzionali (non finzione, autofinzione). È del tutto evidente, a esempio, come un medesimo spazio torni ricorsivamente nei Quindicimila passi (2002), in Il ponte. Un crollo (2007), in Tristissimi giardini (2010) o come il lavoro sia tema centrale in Works (2016). Non è affatto scontata, invece, la tensione e la saldatura fra verifica ossessiva del paesaggio o del lavoro e verifica critica delle parole e delle ideologie: tra i diversi “temi”, la prosa idiosincratica del polemista istituisce continui cortocircuiti e collisioni.
Com’è noto, tra i filosofi del Novecento è Ludwig Wittgenstein a ipotizzare la lingua radicata nel mondo come uno degli aspetti costitutivi dell’agire specifico che caratterizza la specie umana1: nella scrittura di Trevisan si verifica impietosamente ciò che resta di quel radicamento, istituendo continue e inattese corrispondenze tra la metropoli diffusa e il mondo dei segni, tra l’architettura delle “villette” e la dittatura del nuovo linguaggio. Dunque, il vero bersaglio dell’invettiva di Trevisan è il pensiero dominante: oggetti dell’invettiva sono le parole e i luoghi comuni dei vincitori. L’aggressività tuttavia – nella forma a spirale che assumono queste prose – implica ambivalenza e duplicità: comprende a un tempo un disgusto chirurgico, più o meno esplicito, e una segreta passione per ciò che resta dei luoghi o dei gesti lavorativi mutilati e mutati. Il sarcasmo coesiste con un bisogno tanto acuto quanto negato di ascolto e con la ricerca di persuasione.2
2. Iniziamo daTristissimi giardini, uscito nel 2010 per la collana “Contromano” di Laterza. È un libro facilmente rubricabile nella categoria pass partout di “ibrido”, oggi fin troppo utilizzata per definire le scritture dell’estremo contemporaneo. A ben guardare, tuttavia, non si tratta di mescolanza o giustapposizione ma di tensione fra generi: fra autobiografia autoriflessiva e descrizione geografica si istituiscono cortocircuiti contraddittori, in modo tale che “il saggio narrativo diventa un luogo di rettifiche, di sarcasmo”.3 Qui, infatti, si mette a tema «il rapporto tra l’autore e la terra che lo sostiene» (p.10) Anche le note a piè di pagina, frequenti nella scrittura di Trevisan, in Tristissimi giardini assumono due differenti funzioni, in frizione reciproca: l’una a numeri arabi, di rincaro e sottolineatura di quanto si sta narrando, l’altra a numeri romani, a carattere in apparenza oggettivo e bibliografico. Gli autori citati, contrariamente a quanto succede nelle convenzioni degli studi accademici, sono soggetti a torsioni e a maltrattamenti, come accade nel capitolo iniziale, dove troviamo un vero e proprio détournementdella fortunata formula concettuale di Marc Augé (“non luoghi”). Come Debord4 anche Trevisan aggredisce i termini in voga presso le mode accademiche, rovesciandoli, e riconvertendoli alla propria guerriglia linguistica:
Personalmente, l’autore ritiene che la letteratura, così come la vita, o è ricerca o non è. Così, lo scopo del nostro viaggio non potrà che essere l’esplorazione di quelle zone di resistenza all’evidenza di cui parla l’inventore del non-luogo […], con la sostanziale differenza che della loro esistenza, fuori e dentro di noi, abbiamo coscienza come di qualcosa di affatto concreto, per niente effimero, assolutamente reale (p. 11).
La retorica del polemista, insomma, è travestita dal sistema delle note e potenziata dalla finta oggettività. Viene aggredita l’ideologia vincente postmodernista dell’effimero, dell’immateriale, dell’irrealtà, della rappresentazione. Ma al contempo quella finta oggettività è indizio dello statuto generale dell’intera prosa di Trevisan: fare “dell’estraneità (…) una scienza”; perché, lapidariamente, con stile dilemmatico e disgiuntivo, per questo autore “la letteratura, così come la vita, o è ricerca o non è” (p. 40).
Nel capitolo di Tristissimi giardini dal titolo Centro le parole e le cose, il linguaggio dominante e lo spazio mutato, entrano in un cortocircuito tendenzioso: qui si mette a tema l’urto tra la funzione originaria dei palazzi del centro storico vicentino e la loro attuale destinazione d’uso. Trevisan indaga con precisione nomenclatoria ciò che resta di Palladio dopo la sua trasformazione in brand: l’aggressività stilistica si basa sull’accumulo di tutte le aziende, le attività private, i negozi e le società che si sono appropriati dell’identità palladiana per darsi una patina di nobiltà e di appartenenza o di radicamento al territorio. L’elenco dei “marchi” desunto dalle oggettive Pagine Gialle consultate in rete (ma impercettibilmente ritoccato con malizia stilistica) prosegue per due pagine, assumendo la forma di una vera e propria litania distorsiva che fa cozzare il nome illustre con le sigle commerciali più triviali:
Palladio Impianti S.r.L, Centro Medico Palladio S.r.L., Palladio Industrie Grafiche Cartotecniche S.p.A., Palladio Leasing S. p. A., Palladio Scale, Hotel Palladio S.n. C. Di Girolami Novella & C., Palladio 2002 S.r.L., Palladio Karting S.r. L., Centro Sport Palladio, Palladio Servizi S.r.L., Palladio Pulizie di Meloni Gianluca, Palladio Stufe In Maiolica, Hotel Palladio, Profumerie Palladio di E Castello, Infortunistica Palladio S.a.S. di Matteazzi P.I.M. & C, Centro Edile A. Palladio (…)Pizzeria Ristorante Palladio, Scatolificio Palladio S.r.L. Scatole per Imballaggio, Scuola Media A. Palladio, Istituto Privato Palladio, Istituti Palladio, Studio Palladio di Ugolini Fabio, Studio Palladio S.r.L. A Socio Unico, Teckno Palladio Immobiliare S. r. L. Agenzia Immobiliare, Immobiliare Palladio Di Vittorio Mottola & C. S.A.S., Centro Medico Palladio S. r. L. Ambulatorio Terapie Fisiche. (pp. 90-92)
Dopo questo elenco iterativo, il capitolo culmina con l’affermazione lapidaria “Vicenza è bernhardiana da ben prima di Bernhard” (p. 94). Si tratta di un elogio appassionato di ogni soccombente5 poiché il trionfo del nome di Palladio a cui, per trascinamento, si adeguano tutti i nomi dei marchi immobiliari, degli studi dentistici, delle pizzerie, delle palestre, degli hotel, rivela il vizio fagocitante dei vincenti, la smisurata inclinazione a colonizzare le parole e le cose. Tutta la simpatia dell’autore (p. 95) è rivolta infatti all’architetto cinquecentesco vicentino Vincenzo Scamozzi, opacizzato dal successo di Palladio, a cui l’onomastica stradale odierna riserva solo i vicoli periferici.
Nel campo di forze della scrittura, al disgusto per forme di vita politico-culturali dominanti si associa – per controspinta archimedica – la pietas per ciò che è estraneo, rimosso e senza più voce. È in questo senso che lo stile di Trevisan “dell’estraneità fa una scienza” (p. 40): grazie a questa coesistenza, la scrittura si pone come costante antidoto alle “polveri sottili” delle parole più pervasive: eccellenza, produttività, merito, progetto, comunicazione, evento…
3. L’edizione ampliata di Works (2022), uscita postuma, comprende una parte inedita dal titolo Dove tutto ebbe inizio che condensa, con il massimo grado di lucidità lapidaria, questa accanita ricerca di “zone di resistenza” alle parole dominanti:
…e in effetti, penso, in rapporto ai concetti di «produttività», «meritocrazia», «eccellenza», «capacità di gestione» e altre simili amenità, i conti non tornano affatto; tornano invece le parole; e continuamente, ripetutamente, ossessivamente queste dette e ridette parole non smettono di ritornare nella cosiddetta odierna narrazione, che è narrazione soprattutto industriale, o meglio economica, la cui pervasività è tale da aver ormai allungato e dilatato la sua ombra sulla totalità della cosiddetta «narrazione», che non a caso è sempre più «comunicazione», al punto che i termini sono ormai interscambiabili, pervasività, allungamento e dilatazione acquisita per tramite di una schiera di insaporitori, veri e propri esaltatori di sapidità, che si sono attribuiti il compito, più o meno ben retribuito, di comunicare, ossia vendere, essa «narrazione», che sia sempre cosiddetta, amen. (p. 680)
Anche il trattamento del tema del lavoro è dunque intimamente bifido. Works si presenta come un resoconto autobiografico delle esperienze lavorative affrontate dal narratore tra i quindici e i quarant’anni ma tutti questi mestieri sono trattati in modo duplice, fra scambio economico, insofferenza per l’autorità, abilità operativa e acume nell’osservazione.
Da un lato è indubbio che, per Trevisan, il mito del lavoro – celebrato fino al parossismo nella provincia veneta – sia in primo luogo una maledizione e una prostituzione, senza mediazioni:
Come se fosse possibile, penso ora, venire a patti con una maledizione che, almeno a leggere la Bibbia, ci meritiamo tutti per il solo fatto di essere venuti al mondo, oltretutto in un Paese che su detta biblica maledizione pretende di fondarsi, e, di nuovo oltretutto, in una regione, il Veneto, e in una provincia, Vicenza, che fa del lavoro una religione – ma ora, forse, più mito che religione. (p. 14).
Eppure, dall’altro lato, tra le pagine di Works ve ne sono alcune in cui l’autore racconta quanta promessa di vitalità e di pienezza potrebbe esserci in un lavoro ben fatto. La scrittura di Trevisan oscilla infatti tra l’invettiva antisociale e la celebrazione del piacere e della perizia operativa, in modo tale che, a esempio, l’opera del lattoniere che lavora sui tetti e sulle lamiere delle grondaie, può ricordare quella del montatore di tralicci leviano, Libertino Faussone in La chiave a stella (1978).
Questo bisogno di libera attività e d’invenzione è sempre mortificato, ostacolato e condizionato dal senso comune e dal linguaggio dominante, come accade nel capitolo di Works intitolato La caduta, dedicato all’esperienza di lavoro come quadro in un’azienda di mobili. L’autore, pur accettando questo impiego solo per denaro, non si esime dal mobilitare la sua intelligenza nell’ideazione di un nuovo montante ad angolo per armadi. La sua proposta viene però seccamente rifiutata dal direttore generale “Collo Che Non C’è”, perché quel montante di legno nella sua essenzialità “non ha abbastanza contenuti” e non è abbastanza “tecnicale”.(p. 330) Il direttore, una volta bocciata la proposta dell’autore in base a una rozza idea di estetizzazione del prodotto, ottiene dal Presidente che sia messo in produzione un “montante d’angolo in profilato di alluminio estruso laccato nero goffrato” (p. 331), un progetto che costa cento volte di più, e che porta alla messa in liquidazione dell’azienda e “il sottoscritto in mobilità”. L’ invettiva di Trevisan smaschera in tal modo l’ottusità egemone e ne mette a nudo i tic linguistici tecno-aziendalisti (Tecnicale, Contenuti) ma, al contempo, valorizza in modo sapiente il linguaggio specifico del ciclo di produzione(calandratura, goffrato, laccato).
[…]
Se nessuno scrittore del nuovo millennio ha saputo narrare, con la stessa forza e la stessa precisione apprezzabili in Works6 le mutazioni territoriali o la “mobilità” dei processi lavorativi contemporanei, altrettanto si deve dire a proposito della “dicibilità” delle contraddizioni e rimozioni su cui si fonda il nostro presente. A esempio, la rimozione di tutto ciò che non celebra il trionfo della ‘comunicazione’ e del modello neoliberale postdemocratico e non ne condivide i luoghi comuni. Trevisan, grazie alla sua ricerca polemica e invettivale, si configura come il maggior prosatore politico italiano contemporaneo. In modo solo apparentemente paradossale, è la negazione di “una qualsiasi prospettiva” a permettere la sola radicale prospettiva possibile alle scritture oggi: l’opera di demistificazione. Grazie alla quale è possibile – come nel postumo Black Tulips (2022) – verificare quanto ciò che è stato mercificato custodisca una solitudine e una nostalgia o una ferita non redimibili: vale a dire una indocile creaturalità.
Ogni invettiva di Trevisan è perciò ambivalente, proprio perché, tornando a Tristissimi giardini, libro da cui siamo partiti, la messa in forma dei bersagli del polemista comprende – celato – l’attimo o l’interstizio di resistenza e di pietà per tutto ciò che il luogo comune egemone continuamente cancella e distrugge:
quell’insieme di luoghi comuni, così noti che è persino fastidioso e superfluo elencarli, che contribuiscono a comporre l’immagine del cosiddetto Nord-Est, che è ormai anch’esso un luogo comune il quale, sommato a tutti gli altri, forma quel gigantesco agglomerato di luoghi comuni che è la nostra povera patria. (p. 75)
1 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 2009, p. 25.
2 Per la retorica dell’invettiva si rinvia al volume Il discorso polemico. Controversia, invettiva, pamphlet (Atti del 33° Convegno Interuniversitario), Bressanone/Brixen 7-10 luglio 2005, a cura di G. Peron e A. Andreose, Padova, Esedra 2011.
3 L. Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction?, Macerata, Quodlibet 2019, pp. 108-109.
4 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, Sugarco 1995.
5 Il soccombente è il titolo del primo romanzo della Trilogia sulle Arti di Thomas Bernhard, pubblicato da Adelphi nel 1985.
6 T. Torraca e M. Santi, La procedura di Mobilità e la sua rappresentazione letteraria: Mobilità e Mobilità n. 2 inWorks (2016) di Vitaliano Trevisan, in «Forum italicum», vol. 53( 2), 2019, pp. 461-487.
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