
Dal Convivio di Dante suggestioni di attualità
L’intellettuale divulgatore
Il compito dell’intellettuale è sempre stato al centro della riflessione pubblica[1]. Qualifiche come “organico” o “disorganico” hanno sempre caratterizzato il dibattito attorno al suo rapporto con il potere, soprattutto quando il potere ha assunto, più o meno velatamente, il volto del regime. Con l’avvento della società di massa l’intellettuale, dovendo fare i conti con i nuovi registri comunicativi adottati prima dalla tv e poi dalla rete, si è confrontato con la necessità della divulgazioneper consentire l’accesso alla cultura a strati sociali che ne erano nel passato irrimediabilmente esclusi.
Con tutta evidenza un compito decisivo a questo livello è stato svolto, nel secondo Novecento, dalla scuola pubblica, ed i suoi insegnanti hanno assolto la funzione di mediazione culturale che ancora al giorno d’oggi li accomuna ad altre figure quali giornalisti, opinionisti, conduttori televisivi, blogger ecc. nella stessa responsabilità di fare da ponte tra la cultura alta ed i bisogni formativi e culturali della base sociale. Negli anni Sessanta del secolo scorso figure come Don Lorenzo Milani, o, in tv, Alberto Manzi hanno cercato di interpretare quest’esigenza. Si potrebbero aggiungere anche Piero e Alberto Angela.
Il Convivio dantesco
Il tempo di Dante presentava caratteri analoghi, mutatis mutandis, a quelli dell’Italia postbellica, ed il poeta fiorentino sembra affrontare la questione del ruolo dell’intellettuale nell’introduzione al suo incompiuto trattato scritto in volgare nei primi anni del suo esilio, il Convivio, il cui titolo adotta la metafora del banchetto per dare spessore “nutritivo” al processo dell’acculturazione di cui Dante vuole farsi carico, e quel che resta del trattato dantesco (quattro dei quattordici trattati previsti) è sufficiente per valutare il ruolo che l’Alighieri volle esercitare come intellettuale nel suo tempo. Esaminando proprio l’inizio dell’opera infatti è possibile estrarre una sorta di modello che a mio parere offre suggestioni importanti per il nostro tempo, con particolare riferimento al possibile profilo di un insegnante intellettuale.
Riporto le battute iniziali dell’opera.
Convivio, I, 1,1-13
1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.
2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima.
3. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile.
4. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.
5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione.
6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati.
7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!
8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando.
9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.
10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.
11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.
12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.
13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la farò loro e gustare e patire. […]
L’agire divulgativo di Dante
Dante, sulla scorta di Aristotele, dice che tutti gli uomini nascono con il desiderio della conoscenza, e l’esaudimento dello stesso è viatico per la felicità terrena. Rileva però che ci sono persone che per varie ragioni, alcune scusabili altre no, non possono accostarsi alla cultura. C’è chi ha menomazioni fisiche oppure seri impegni familiari e sociali che fanno da ostacolo; ma c’è anche chi persegue l’abiezione morale oppure chi vive in un ambiente privo di stimoli. Dunque non sono molti quelli che possono beneficiare della cultura, ma Dante afferma che questa circostanza deve responsabilizzare ogni uomo acculturato, affinché, parafrasando Boccaccio, «s’ammendi il peccato della fortuna»[2], compensando quel che il destino ha sottratto a coloro che avrebbero desiderio di nutrirsi del sapere. Lui stesso si incarica di far questo, precisando che il suo è un agire divulgativo: egli non fa parte dei dotti, ma è capace di trarre dai dotti quel che serve per consentire l’acculturazione del popolo. E fa questo per spirito di “misericordia”. Perciò imbandisce un banchetto a uso di coloro che hanno fame di conoscenza, ma precisa che alla tavola non sono ammessi, in quanto indegni, coloro che perseguono i vizi, mentre i pigri possono soltanto mettersi ai piedi dei volenterosi, questi ultimi ammessi pienamente al convivio.
Un compito di mediazione culturale
L’intellettuale, che pur non si considera un dotto, assume la fatica dello studio, della “raccolta” e della traduzione di quanto da altri prodotto per consentirne la comprensione ad un pubblico più vasto[3]. E lo fa assumendo consapevolmente un codice comunicativo accessibile ai più, così come fece il poeta fiorentino che preferì l’uso del volgare a quello, tradizionale nella comunicazione dotta di quel tempo, del latino. È dunque, quello che assume Dante, un vero compito di mediazione culturale, lo stesso che permette fino ad oggi il rispetto dell’art. 3 della Costituzione centrato sulla rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Il testo fa ripetutamente chiaro riferimento a chi non è degno: nella prospettiva dantesca si tratta di chi conduce una vita immorale, insegue intrattenimenti effimeri e quindi non è capace di apprezzare la cultura, anzi la considera cosa vile. L’intellettuale non è disposto ad imbandire la tavola della divulgazione per persone che mostrano di avere un’altra gerarchia di valori. La saldatura tra cultura ed etica è forte.
L’insegnante intellettuale
Il discorso di Dante interpella l’educazione e l’istruzione. Il primo mediatore culturale nel nostro tempo è l’insegnante, che esercita l’intelletto secondo tre dimensioni: cultura, professione ed educazione. Il costrutto che può fare da sintesi probabilmente è quello di formazione. Ripropongo un passaggio cruciale, che sintetizza la prospettiva dalla quale Dante guarda al compito dell’intellettuale.
10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.
La conoscenza diffusa
“Fuggito de la pastura del vulgo”. Pars destruens. Egli prende le distanze da una cultura superficiale, fatta probabilmente di stereotipi e superstizioni. Fa cioè un percorso personale di emancipazione culturale, costellato di studi e di ricerca. Memore della “misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati” e che si cibano di “bestiale pastura”. Appare ambivalente la valutazione che Dante esprime nei confronti degli “innumerabili” che sono “affamati” di conoscenza, perché da un lato ne giustifica i vari impedimenti che possono fare da ostacolo alla loro crescita culturale, dall’altro non fa mancare loro il monito di carattere etico: alla mensa predisposta da Dante non si segga “alcuno assettatore di vizi”. È chiamata in causa la cosiddetta cultura di massa. Da quando le porte dell’istruzione pubblica hanno consentito largo accesso a strati sociali che prima ne erano esclusi, è vivo il dibattito pubblico sulle sorti dell’istruzione. A chi rimprovera la scuola democratica di eccesivo buonismo e di scadimento della qualità degli studi, Dante sembra rispondere che la scuola deve accettare la sfida della conoscenza diffusa, ma che d’altra parte il “vulgo” deve prendere le distanze da ogni lassismo e da ogni superficialità.
Uno sguardo bifronte
“Non seggio a la beata mensa, ma […] a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade”. Pars construens. Cos’ è questa “beata mensa”? In precedenza essa è stata definita “mensa dove lo pane de li angeli si manuca”. È un’ “alta mensa”. Ad essa siedono in pochi, e Dante dichiara di non farne parte. Gli insegnanti, pare poter inferire, non siedono con coloro che elaborano il sapere accademico, ma con essi intrattengono comunque un rapporto, sintetizzato da questa azione del ricogliere “quello che da loro cade”. Che genere di azione è questa? Cosa cade da quella mensa? Cade con tutta evidenza ciò che non rimane sul tavolo e che sul tavolo deve rimanere. Come dire che Dante si dichiara capace di trarre dalla cultura alta ciò che serve a coloro che sono rimasti indietro, da cui egli stesso ha tratto le mosse. È l’azione di chi con fatica distilla, sintetizza e offre. È notevole che egli provi “dolcezza” in questa azione di raccolta. Ama le cose che studia. Non si tratta di briciole, ma di elementi preziosi del sapere. Un insegnante riflessivo questo lo fa ogni giorno, ma forse, attualizzando, può assumere un ruolo più attivo. Può farsi invitare a mensa, e prendere direttamente dal tavolo, senza aspettare che “cada”. Cosa è degno di essere trasmesso? E con quale criterio? Questo è il suo spazio di ricerca.
La nuova mensa
“In ciò li ho fatti maggiormente vogliosi”. Feedback. La sua opera divulgativa è capace di creare motivazione, perché quel che raccoglie è raccolto con un criterio che non ignora i bisogni formativi dei lettori. La parola chiave è “misericordia” che Dante usa per delineare il suo compito di mediatore culturale e di agente educativo. Proprio perché “misericordievolmente mosso” egli può compiere un’azione educativa che consiste nell’allestire una nuova mensa, un “generale convivio”, che rappresenta proprio quel che avviene a scuola, in cui tutti sono invitati a cibarsi di quanto l’insegnante è riuscito a ricogliere dalla cultura alta. Come dire che sono due le mense di cui ogni docente è chiamato a far parte: quella “alta”, che in qualche modo lo rende partecipe del mondo della ricerca, e quella da lui stesso allestita, che a sua volta pare poter ospitare la platea dei discenti, distinti però in coloro che sono “degni di più alto sedere” ed in coloro che devono stare “a li loro piedi”, cioè “tutti quelli che per pigrizia si sono stati”. Sarebbe interessante, quale spazio di riflessione, poter approfondire il tema della pigrizia intellettuale tra gli studenti….
Questi tre passaggi testuali a mio parere sono riconducibili rispettivamente alla dimensione culturale, intesa certamente come presa di distanza dal nutrimento delle masse, non certo in chiave snobistica, ma come istanza di scrupolo scientifico; a quella professionale, intesa come umiltà intellettuale e impegno nell’individuazione degli aspetti della cultura alta più meritevoli di attenzione; e a quella educativa, intesa quale sensibilità etica capace di intercettare i bisogni formativi dei discenti. Si tratta di dimensioni costitutive dell’azione formativa di quel che amiamo definire l’insegnante intellettuale perché assume il proprio compito onorando la complessità posta dalla loro profonda interrelazione.
[1] Suggerisco qui soltanto il saggio di F. Brevini, Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali?, Cortina, Milano 2021 ed il numero 1/2022 della rivista “Il Mulino”, dal titolo La vocazione intellettuale.
[2] G. Boccaccio, Decameron, Proemio.
[3] Illuminanti a questo proposito le preoccupazioni di Franco Fortini nell’ambito di una riflessione sul concetto di “classico”, così come riportate in L. Tommasini, Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 257-264.
Articoli correlati
Comments (2)
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
Pavese nell’oceano di Walt (passando per Spoon River): I mari del Sud
-
Su Atti umani di Han Kang
-
Romance e social reading. Comunità in rete tra piattaforme e algoritmi
-
Nei dintorni di Franco Fortini
-
-
La scrittura e noi
-
Matta impresa di Antonio Minutolo letteratore italiano – un estratto
-
«Mia madre puzza». Su “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini
-
“Buchi neri” di Alessandra Sarchi – Un estratto
-
Perché leggere Allegro ma non troppo di Carlo M. Cipolla
-
-
La scuola e noi
-
L’eroismo del precario: “Oltre l’ora di lezione” di Jacopo Zoppelli
-
LAUDATIO TEMPORIS ACTI
-
Un percorso sulla forma: il sonetto in classe
-
Disegnare un elefante di Marco Vacchetti
-
-
Il presente e noi
-
Si vis pacem para bellum? Sulla manifestazione del 15 marzo
-
Elon Musk novello Zapparoni. Ri-Leggere Ernst Jünger per capire il presente
-
Di cosa parliamo quando parliamo di valori (Il bisogno di un nuovo Umanesimo – parte II)
-
Il latino è reazionario e classista?
-
Commenti recenti
- Gabriele Piras su Storia di un impiegato. Il ’68 di Fabrizio de Andrédi tutto ciò che ho letto, con affanno, di De Andrè per capire come mai,…
- Eros Barone su Si vis pacem para bellum? Sulla manifestazione del 15 marzoL’iniziativa militare della Russia di Putin e l’iniziativa politica degli Stati Uniti di Trump dimostrano…
- Luigi Proia su LAUDATIO TEMPORIS ACTISono ormai tredici anni che sono in pensione e guardo al passato con occhi, orecchie…
- Laila Rocchi su LAUDATIO TEMPORIS ACTIlascio un commento perché ho sempre amato e amo ancora( pur essendo in pensione da…
- Sara Picchiarelli su Un percorso sulla forma: il sonetto in classeGrazie davvero, Marcella, per le belle parole e per questa riflessione sulla scuola, ma soprattutto…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Ho letto il pezzo, ma l’ho trovato piuttosto fumoso. Mi sarebbe piaciuto trovare un riferimento alle implicazioni, anche sociali, del vedere il docente come intellettuale. E prendere posizione se la divulgazione sia operazione intellettuale o mercificazione della cultura, perché spesso ho questa sensazione.
In sostanza, ho preferito le riflessioni di Roberto Contu, apparse sempre qui
https://laletteraturaenoi.it/2017/08/18/linsegnante-e-un-intellettuale/
ottimo lavoro di divulgazione della modernità di Dante sulla funzione docente.