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Su Poesia e critica nel Novecento. Da Montale a Rosselli di Niccolò Scaffai

La relazione tra poesia e critica

Agli inizi del 2024 è uscito, per Carocci editore, Poesia e critica del Novecento. Da Montale a Rosselli, di Niccolò Scaffai, un libro prezioso e originale (continuazione, come sottolinea lo stesso autore nella introduzione, del libro precedente, Il lavoro del poeta, «sia in senso cronologico, sia in senso teorico») che, attraverso «sondaggi mirati e metodi di indagine molteplici (lo studio dell’intertestualità, il rilievo stilistico, l’analisi delle fonti)» (Federica Barboni, Sereni, Fortini, Rosselli… A ciascuno il suo Montale, «Alias», 7 aprile,) indaga il complesso rapporto tra poesia e critica nella produzione di alcuni tra i più rappresentativi autori novecenteschi (Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli, Franco Fortini), l’idea di fondo, infatti, è che «gli autori presi in considerazione non si sono limitati a scrivere un’opera poetica e, oltre a quella, un’opera critica e saggistica […], ciò che li caratterizza […] è che i loro libri poetici sono anche forme critiche» (p. 11).

Soprattutto il libro di Scaffai conferma definitivamente il ruolo fondamentale svolto da Eugenio Montale nella tradizione letteraria del secolo scorso, l’ingombrante eredità lasciata, «che si sviluppa per diramazioni complesse e, a volte, pure per antitesi» (ancora Barboni). La prima sezione, Incontri e codici, è dedicata, infatti, alle «diverse forme di montalismo» che non devono essere ridotte affatto a «una derivazione» (letteraria e formale), quanto a un «riconoscimento» esistenziale e storico, e in alcuni casi ad una dichiarazione di appartenenza «identitaria» (Giorgio Orelli, Federico Hindermann, «poeti italofoni ma attivi fuori dai confini politici nazionali»).

Nella seconda parte, Oggetti e tradizioni, si analizzano, attraverso un sistema di relazioni, di incontri, le connessioni, anzi le interdipendenze che si creano tra poesia, critica e tradizione, occasioni che innescano il processo della scrittura e danno corpo all’immaginario: si parla dunque di Sereni e di Isella, il suo critico più penetrante, il primo ad «avere illustrato l’habitus compositivo del poeta, rivelandone la complessità, tale da cambiare radicalmente l’idea stessa di lavoro che le raccolte sereniane […] avevano fino ad allora trasmesso» (p. 115); di Fortini (grande protagonista di questa seconda parte), dei suoi Saggi italiani, e del rapporto stilistico e concettuale con Dante («la funzione-Dante», p. 118), letto attraverso l’idea di figura di Auerbach (p. 16); del topos dell’anti-idillio nella poesia del Novecento, argomento che consente di riflettere su come «la trasmissione e l’investimento di un’eredità storica nel Novecento non riguardi solo la componente formale dello stile, ma anche un repertorio di temi e oggetti» (p. 146); di «tradizione» come «un modello interpretativo, un dispositivo storico-formale» e, quindi, di Tradizione del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo.

Significative, infine, le pagine conclusive, dedicate agli studi montaliani di Luigi Blasucci, da cui emerge l’assoluta esemplarità della poesia di Montale, «un’esemplarità […] che si impone sia rispetto al linguaggio della lirica moderna, sia rispetto alla condizione dell’uomo novecentesco», di cui il poeta dà una rappresentazione emblematica» (p. 201).

Sereni e Montale

Scaffai mette in evidenza la capacità di Montale di confrontarsi con la storia del suo tempo, riflettendola nella propria poesia, a volte persino anticipandola; per i suoi contemporanei ha costituito una chiave di volta fondamentale, ma anche, da un certo momento in poi, un problema critico aperto e delicato, soprattutto dopo Satura, che gli valse le stroncature (per motivi diversi) di Fortini e di Pasolini «che vedono deluse le loro aspettative e non riconoscono il loro autore» (Romano Luperini, Montale e il canone poetico del Novecento, in R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, p.120)

La centralità dell’esperienza montaliana nella nostra poesia e persino nella nostra cultura ha contribuito in modo decisivo a determinare i caratteri della poesia lirica italiana del Novecento in modo netto, e non si tratta, come viene più di una volta sottolineato nel testo, di «richiami intertestuali», né di «maggiore o minore adesione al modello, oppure alla più o meno tempestiva emancipazione da quello». In Poesia e critica del Novecento, Scaffai «non mira a rintracciare Montale in Sereni, in Orelli e così via, ma a leggere quegli autori con Montale, cioè attraverso l’incontro con i suoi oggetti e la sua poetica»: «l’importanza di Montale […] è data dalla sua capacità di farsi attraversare […], un attraversamento che ha permesso ai poeti successivi di scrivere il proprio “romanzo”, anche ricorrendo in parte al codice montaliano», p. 14. Sono queste anche le riflessioni di Sereni, in Dovuto a Montale («[…] Leggevo poesie di altri e vi cercavo qualcosa che impropriamente potrei chiamare romanzo; Strideva Adios muchachos, compañeros / de mi vida il tuo disco dalla corte […]. Cercavo dunque quel che qui chiamo romanzo ma col desiderio che fosse la poesia a suggerirmelo o a farmelo supporre; che la vicenda adombrata o sottintesa si sviluppasse al di là, al di fuori delle righe che sono i versi», ora in V. Sereni, Poesie e prose, p. 1032) che si distingue nella prima parte del libro come l’erede più diretto e naturale del poeta genovese, capace addirittura, con Gli strumenti umani, di continuare e superare il maestro («È qui, in questo snodo storico e stilistico insieme, che Sereni supera Montale: Gli strumenti umani sono la vera continuazione, l’esito che la poesia montaliana non dà, e che avrebbe potuto invece conoscere senza la svolta scettica della sua ultima fase, dagli anni Sessanta in poi», p. 34).

Montale offre una «chiave per affacciarsi sull’esistenza, in certi casi per inventarla», indica una direzione, determina uno sguardo, come più di una volta ha sostenuto Sereni («[…] Montale con i suoi primi versi precorreva in noi la presa di coscienza del mondo circostante e dei suoi stessi lineamenti fisici: nella misura in cui ci avvertiva che lo spazio immediatamente a noi vicino e nel quale già stavamo muovendoci con la nostra esistenza non solo poteva ma era già abitato dalla poesia»; «Era così. Fin dentro gli anni di guerra la poesia di Montale ci aveva offerto una chiave, fu la chiave più naturale per noi, non dirò per leggere l’universo, ma per affacciarsi sull’esistenza che era nostra e viverla: in certi casi, inventarla», V. Sereni, Ognuno riconosce i suoi, in V. Sereni, Poesie e prose, p. 1008, 1011).

Blasucci (e Montale)

Le ultime pagine sono un omaggio a Luigi Blasucci, e l’analisi dei suoi studi montaliani sembrano essere un pretesto per parlare del suo singolare approccio critico e del suo acume: «Blasucci ha regolato il tempo della sua attività e della sua esistenza, sulla durata delle opere, non sull’urgenza dei metodi o sull’aggiornamento dei canoni. In questo senso, la sua leggendaria memoria […] era anche una forma di adesione alla tenuta storica dei suoi autori (e, di conseguenza, l’espressione implicita di un giudizio di valore affermato in prospettiva non militante)», p. 186. Il suo stile, «ispirato dal principio di chiarezza, […] non indulge al tecnicismo» e non mira alla «discesa nelle strutture profonde del testo», alla «decifrazione dei significati nascosti», ma alla «definizione di quelli esposti», nel rispetto rigoroso della parola scritta. Testualità è una delle parole chiave di Blasucci, ossia fare parlare i testi senza gravarli di responsabilità eccessive e, soprattutto, di una coerenza forzata, saperli fare dialogare tra loro con concretezza tautologica e solo per reali e autentiche esigenze interpretative. E poi la sua scrittura, che si nutre (almeno nel caso di Montale) di «vocaboli di ascendenza filosofica, ma pertinenti anche al campo visivo percettivo» («disforico», «attimale», «attimalità») – «blasuccismi li chiama Scaffai -, «formule familiarizzanti» che contribuiscono alla “vivacità espositiva e alla qualità palpitante”» dei saggi («Qui il povero è Leopardi e il ricco è Montale», «l’infinito leopardiano è passato dalla parte del nemico», p. 188). Lontano da qualsiasi estetismo, da tecnicismi o da impunture professorali, il suo obiettivo, come spiegava lui stesso in un’intervista del 2019 (pubblicata nel 2021), era di essere compreso chiaramente («Devo dire che l’esperienza delle scuole medie mi è giovata, ho conservato da universitario quella preoccupazione di essere capito, non sono mai andato per conto mio, lasciandomi ascoltare, ci tenevo molto alla condivisione anche dei miei piaceri e delle mie passioni. Non volevo essere bravo, volevo essere capito. Questo mi è rimasto persino nella scrittura, quest’aspetto palpitante, di chi sta parlando di cose vive, non sta parlando il burocrate delle scienze letterarie. Cose vive e cose chiare, a costo di essere semplificatori. Ho imparato la semplificazione: a costo di una leggera forzatura, mi preme più che si capisca l’essenza», Conversazioni pisane. A proposito di un incontro con Luigi Blasucci, in «Le parole e le cose», a cura di Roberta Priore). Per questo, forse, l’attenzione critica di Blasucci nei confronti di Montale, come conclude Scaffai, si rivolge soprattutto alla «figuralità di secondo grado che conserva all’oggetto un valore concreto, irriducibile a un’idea generale, a un simbolo, a un’allegoria». In questo risiede il carattere fondamentale della poesia montaliana e della sua idea di critica.

L’importanza di Poesia e critica del Novecento sta non solo nella ricchezza delle idee ma anche nella naturalezza con cui Scaffai si pone in contatto con i contenuti più significativi della poesia del secolo scorso, con chiarezza e partecipazione, senza distacco o astrazione intellettuale (ma la stesso accade per gli altri libri dell’autore). Lo sguardo è quello di chi possiede una visione lucida e dinamica della storia delle forme poetiche, una esperienza istintuale e tattile, frutto anche di «una lunga fedeltà» agli argomenti trattati.

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