Antifascismo working class. Intorno all’ultimo libro di Alberto Prunetti
Possa su queste vite dopo tanto tempo tornare la luce, possa il vento del racconto portar via la polvere che ha tenuto prigioniere queste esistenze nei faldoni degli archivi di polizia […]. Solo questa è la giustizia poetica che ha spinto la mia penna ad agitarsi con un po’ di metodo e tanta foga in queste pagine, in vent’anni di letture e riscritture.
[Alberto Prunetti, Troncamacchioni. Novella nera con fatti di sangue, Milano, Feltrinelli, 2024, p. 139]
Una storia senza eroi, una tragedia senza catarsi
L’ultimo libro di Alberto Prunetti è strano come il suo titolo: Troncamacchioni. È, questa, un’espressione usata a Piombino, dove Prunetti è nato, e in Maremma. Per chi non è di quelle parti, l’espressione risulta ostica: cercando un po’ in giro (non nei vocabolari italiani, dove la parola latita) sembra di capire che riguardi l’agire di chi affronta una situazione con spavalderia e un po’ di avventatezza, senza pensarci troppo, e facendo affidamento un po’ sull’istinto e un po’ sull’esperienza, come quando si attraversa un bosco, una macchia, senza seguire il sentiero segnato, ma lanciandosi direttamente fra gli arbusti, spezzando rami e saltando ostacoli, col rischio in ogni momento di ferirsi o di cadere.
I protagonisti della storia raccontata da Prunetti sono ciabattini, minatori, facchini che si muovono così, a troncamacchioni, nella Maremma dei primi decenni del Novecento, e nella storia di quegli anni, fra Prima Guerra Mondiale e Fascismo: sono uomini e donne marginali, clandestini, spesso in fuga. Popolani che hanno iniziato il loro tortuoso percorso di vita negli anni della Grande Guerra, una carneficina a cui molti, istintivamente, hanno cercato di sottrarsi, nascondendosi nei boschi, e che da lì non sono più rientrati nei ranghi, sono diventati degli sbandati: banditi, renitenti alla leva, sovversivi. E quando il potere assumerà le vesti violente del fascismo, diventeranno antifascisti di un antifascismo viscerale, vissuto come istintiva rivolta all’ingiustizia e alla sopraffazione.
Il libro di Prunetti racconta storie vere, le vicende sono documentate con puntiglio da storico e le biografie dei protagonisti sono ricostruite partendo dagli unici documenti capaci di catturare, a modo loro, storie di vita così ingarbugliate e sfuggenti: i casellari politici delle pubbliche autorità di sicurezza. È dai freddi documenti archivistici indagati nel corso di più di vent’anni che parte Prunetti per ricostruire la storia di personaggi come Marchettini Domenico detto il Ricciolo, Maggiori Giuseppe, Biancani Robusto, Innocenti Albano e tutti gli altri che in questa storia vivono e muoiono «al costume delle basse genti, senza esibire sulla pagina scritta alcuna emozione».
Le vicende di questi uomini girano intorno ai “fatti di Tatti”, un episodio di violenza e di vendetta – a cui fanno seguito ulteriori violenze – avvenuto nel maggio del 1922, quando ormai sul territorio della provincia italiana le squadracce fasciste imperversavano nell’impunità e nella connivenza del potere costituito. I fatti hanno il ritmo di una tragedia in tre atti: la sera del 20 maggio 1922 alcuni militanti comunisti abitanti del paesino di Tatti contestano dei fascisti che cantano Giovinezza, ne nasce un tumulto a cui partecipano anche i carabinieri, e uno di questi uccide un comunista e ne ferisce un altro. Due giorni dopo, i morti comunisti vengono vendicati con un agguato mortale a un possidente fascista e al suo nipote ingegnere, uccisi lungo una strada non lontana dal paese. La sera stessa, infine, una squadra fascista entra a Tatti devastando tutto e dando fuoco alle proprietà di chiunque fosse in odore di sovversione. E per i protagonisti inizia da quel giorno una vita di fughe, nascondimenti ed espatri.
È il racconto, come scrive l’autore in un commosso epilogo, di una tragedia a cui manca la catarsi: le vicende dei protagonisti si sfilacciano, ognuno di loro va incontro al suo destino, ma sono destini senza redenzione, che non liberano né l’autore né il lettore dal turbamento che li ha accompagnati nel narrare e nel leggere:
La tragedia non è cosa per poveri, pensavo un tempo. Ai poveri si addice la commedia. Ma la realtà è che anche il tragico si addice agli ultimi, quello che a loro manca è la retribuzione finale, la compensazione, la catarsi alla fine della novella nera.
Una lunga ossessione, alla ricerca di una voce onesta
Come già accennato, Prunetti non si confronta con queste vicende ora per la prima volta; anzi, proprio col racconto dei “fatti di Tatti” era iniziata, più di vent’anni fa, la sua carriera di scrittore: il libro si chiamava Potassa ed ha avuto una storia editoriale complicata che inizia nei primi anni 2000 (una delle diverse edizioni del libro, quella per Stampa Alternativa, è disponibile in rete); ed era nata, come racconta l’autore nella postfazione, da un fallito progetto di scrittura a quattro mani in bilico fra ricostruzione storica e narrazione.
Prunetti, dunque, è stato per più di vent’anni ossessionato da questa storia, di cui sentiva l’urgenza ma che non riusciva a risolvere definitivamente nella scrittura. Ora la soluzione trovata è proprio quella di tenere insieme la documentazione storica e la presenza diretta, spesso in prima persona, della sua voce e della sua storia di uomo, di scrittore, di intellettuale di questo tempo. Una scelta che non solo rende più vive le figure raccontate, ma più urgenti le domande che pone all’oggi.
Il problema che si è trovato di fronte l’autore nello scrivere questo testo è antico. È, in fondo, lo stesso che si poneva Manzoni rispetto ai componimenti misti di storia e di invenzione: cosa resta da fare allo scrittore di fronte ai fatti storici? Dov’è il posto della poesia? La soluzione trovata è antica e originale al tempo stesso: l’autore mette in scena sé stesso e le sue difficoltà nel ricostruire le storie e giudicarle, ma anche la ferma volontà di non ridurre quelle persone, alla cui vicenda umana contraddittoria e imperfetta Prunetti si sente vicino e solidale, alla freddezza dei documenti d’archivio o, peggio, all’anonimato a cui sono condannate quasi sempre le persone umili e non istruite, la working class senza tempo dei diseredati:
No, non voglio togliere i ribelli dal Casellario politico per metterli nella fossa comune dell’erudizione. Voglio ricordarli sulla soglia tra memoria e leggenda, tra novella criminale e romanzo storico [p. 104].
È dunque questa la tensione che tiene in piedi il libro: la volontà di condurre nel territorio dell’epica (un’epica magari stracciona e disgraziata) e della leggenda (una leggenda magari nera e senza morale) una delle tante vicende quasi anonime che hanno caratterizzato la storia dell’antifascismo e delle lotte per l’emancipazione delle classi popolari. Storia che è stata raccontata per lo più da una prospettiva borghese: era borghese Lussu, erano borghesi Fenoglio e Pavese, erano borghesi tutti i registi del neorealismo. L’epica minima di contadini e operai, di minatori e ciabattini, è stata dunque spesso raccontata dall’alto, oppure è stata ricostruita freddamente dagli storici “eruditi”, in cui i protagonisti diventano solo nomi e cognomi, se non addirittura numeri e statistiche. Non mancano le eccezioni, naturalmente: a volte abbiamo testimonianza straordinarie di storia popolare raccontata da dentro (si pensi ad un libro come Il romanzo della vita passata del bracciante siciliano Vincenzo Rabito, Einaudi, 2022; prima edizione, col titolo Terra matta, Einaudi, 2007). Oppure ci sono storici che hanno provato a dare uno spessore narrativo a storie vere che avevano già in sé una dimensione in qualche modo romanzesca. Mi viene in mente un libro di qualche tempo fa, dello storico Matteo Petracci, intitolato Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini, 2020) che ricostruisce la storia avventurosa e incredibile di un gruppo di uomini etiopi portati dal regime fascista in Italia, quasi come trofei delle conquiste coloniali italiani, che con lo scoppio della guerra furono abbandonati a sé stessi e finirono poi per unirsi, nel 1943-44, alla Resistenza sulle montagne dell’Appennino marchigiano. E, in qualche caso, per morire da partigiani.
Rispetto alla testimonianza diretta di Rabito e al lavoro storico di Petracci, citati qui a titolo di esempio di due modi diversi con cui la storia degli ultimi ha trovato strada nella trasmissione della memoria, Prunetti gioca però più direttamente le sue carte di scrittore; e in particolare di scrittore che ha fatto della sua storia di intellettuale proveniente dalla classe operaia, a lungo lui stesso operaio e lavoratore precario della conoscenza, la cifra della sua azione culturale: che sia nelle vesti di scrittore, di storico e saggista, di intellettuale militante o di organizzatore culturale, Prunetti è sempre prima di tutto un teorico e un praticante della letteratura working class.
Cosa resta dell’antifascismo?
Ecco allora che anche quando parla di antifascismo la chiave è questa: l’antifascismo recuperato da Prunetti è un antifascismo working class raccontato da uno scrittore che da quel mondo proviene e a cui sente ancora di appartenere, con tutto quello che ne consegue a livello di consapevolezza politica e di scelte stilistiche, che in effetti non sembrano dialogare più di tanto con la tradizione del romanzo storico che ha raccontato l’antifascismo e la Resistenza, quanto con la tradizione del racconto orale o del canto popolare. Canti popolari come quello riportato nel libro e attribuito ad un anonimo oste anarchico di Prata, in Maremma:
Al mattino il Ventuno di maggio
Si ritrovano al cerro Balestro
Gente che aveva avuto il coraggio di
Disertare la guerra mondial
Tutta notte il figliol del Biancani
Col Maggiori vendetta prepara
E con Ricciolo all’indomani
Ai fascisti la faran pagar
Per gli sbirri, i fascisti, gli agrari
La Maremma ‘un è luogo sicuro
Ogni forra, ogni pezzo di muro
Un pericolo celan per lor
Finché verrà il dì della riscossa
Per i neri non resterà scampo
La Boscaglia e la Camicia rossa
In Maremma giustizia faran!
Come spesso capita coi canti popolari, sono parole semplici, che esprimono concetti altrettanto elementari: desiderio di giustizia e di libertà, speranza di un tempo migliore e di un mondo non più in mano ai peggiori.
A leggere oggi i versi della canzone dell’anonimo oste anarchico, così come a leggere le storie degli antifascisti straccioni di Prunetti, è impossibile forse non immalinconirsi un po’, e non chiedersi cosa dicano queste storie al nostro tempo così fuori sintonia rispetto a quel futuro sognato, e così poco generoso verso qualsiasi forma di working class. E viene anche da chiedersi perché autori come Prunetti continuino ad essere ossessionati da queste storie, a considerare necessario raccontarle e raccontarle ancora. Ancora non basta? La storia non ci ha ancora detto abbastanza chiaramente che erano tutte utopie? La volontà dichiarata di salvare dall’oblio queste storie minime di ribellione fra le innumerevoli a quell’oblio inevitabilmente destinate, è una motivazione sufficiente? E ancora: possiamo ragionevolmente pensare che in quell’antifascismo straccione, un po’ illuso un po’ disperato, di quei fuorilegge maremmani possa esserci un qualche messaggio, un qualche modello di lotta politica per l’oggi? Chi scrive non sa bene cosa rispondere. Però una cosa forse si può dire: questa epopea degli ultimi, e il modo in cui Prunetti ce la racconta, ci invita quantomeno a non avere noi, sull’oggi, un occhio troppo accondiscendente e disincantato (Prunetti probabilmente direbbe “troppo borghese”); ci ricorda che la lotta contro le ingiustizie ci riguarda un po’ tutti e che c’è ancora da sporcarsi le mani, c’è da andare un po’ tutti, anche noi che scriviamo, leggiamo, insegniamo, a troncamacchioni, giocando un po’ d’esperienza e un po’ d’improvvisazione, col rischio di farsi male ma anche con la voglia forse infantile di provarci, a capire e a cambiare questo mondo sempre in movimento, anche se quasi mai – sembrerebbe – un movimento che va nella direzione giusta.
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