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diretto da Romano Luperini

Nonna Camilla e le life skills

LN si prende una pausa estiva. Nel prossimo mese e mezzo ripubblicheremo alcuni articoli usciti quest’anno. Auguriamo a tutti i nostri lettori e lettrici buone vacanze. Ci rivediamo i primi di settembre.

Antefatto

Da molti anni, una delle esperienze didattiche che realizzo con una classe che sto imparando a conoscere è legata al ricordo della mia nonna paterna, Camilla. Consiste nel lavorare con gli studenti sui suoi motti e proverbi, attinti alla cultura piemontese del Novecento (come lei proclamava a gran voce, in età avanzata, mi sun del ‘dui, “Io sono nata nel 1902”) e al suo vissuto personale e sociale. L’attività, episodica ma seriale, si struttura come competenza linguistica di ricezione (ascolto e comprensione letterale), di produzione (recitazione e ripetizione, in lingua originale, delle parole della nonna) e storico-filologica (interpretazione del testo e ricostruzione del contesto culturale e della mentalità dalla quale nascono proverbi e modi di dire).

Le notevoli difficoltà che incontrano tante persone del gruppo, piemontesi ormai senza capacità di parlare dialetto o “stranieri al Piemonte” alle prese con suoni bizzarri e ostici da riprodurre, si rivelano un prezzo basso da pagare, in confronto ai risultati individuali e sociali conseguiti: la promozione di una seria curiosità sulle parole che ciascuno utilizza, sul proprio contesto linguistico familiare e generazionale, sulla natura e sull’evoluzione del linguaggio; la costruzione di un gruppo che si confronta a partire dalla coscienza attenta delle parole, proprie e altrui; l’impagabile senso di comunità che nasce dalle risate fatte insieme e dall’autoironia, merce sempre più rara nella scuola efficientista.

Elementi di didattica dei proverbi della nonna

Nel corso degli anni, quella che era partita come attività legata in particolare all’esigenza di costruire una relazione umana – di empatia e simpatia – e un terreno di condivisione di emozioni, più che come lavoro culturale, si è sempre più strutturata. Ѐ diventata alla fine uno dei momenti di riflessione ricorrente e approfondita intorno a alcuni pilastri culturali del percorso didattico. Pone infatti con forza domande che segnano sul lungo periodo il processo di insegnamento/ apprendimento, e la costruzione di una comunità di classe sincera e feconda: come cambia il linguaggio che scriviamo e parliamo, come singoli individui e come gruppo sociale; quali forme e norme restano invariate, quali invece si modificano, per quali ragioni e attraverso quali dinamiche? Che cosa significa dire “io” in una comunicazione, letteraria e non letteraria? Quanti “io” ci sono intorno a me, e quanti nella storia e nelle storie che leggiamo? In che modo queste alterità possono fare parte della mia?

Simili domande riguardano prima di tutto la storicità del linguaggio. Proverbi, detti e parole del dialetto – la lingua “naturale” della nonna – parlano di un mondo che in gran parte non esiste e non esisterà mai più. Ascoltarli costituisce un’esperienza formativa ricchissima, in ogni momento del percorso liceale. Perché i giovani sono entrati in un segmento differente della loro vita, e prendono commiato dal loro passato per diventare “grandi”. Perché approfondiscono la consapevolezza della loro storia (piccola in senso metaforico) nella Grande Storia e di quest’ultima studiano, con crescente capacità di comprenderla, la complessità riflessa sempre nelle parole. Perché il viaggio fra la lingua del Piemonte del 1902 e quelle del Piemonte di oggi è un’occasione preziosa per ragionare sul cambiamento e sulla trasformazione della lingua, asse portante dello studio linguistico e letterario di tutto il percorso scolastico, ma soprattutto del segmento che introduce all’Università e al mondo del lavoro: una realtà in cui saper leggere, scrivere, cogliere sfumature e intenzioni, è sempre più importante, mentre esistono invece potenti spinte perché le persone capiscano il meno possibile e seguano le mode, anche espressive, del presente.

Il centro delle domande sull’io riguarda la costruzione della soggettività attraverso il racconto e la comunicazione, naturalmente non soltanto nella sua forma letteraria. In un contesto sociale e culturale in cui affermarsi come “io” è pratica corrente, apparentemente gratuita e priva di fatica e responsabilità, ricostruire attraverso la biografia linguistica radicalmente altra di una nonna un diverso percorso di soggettività può essere un’esperienza significativa. Inoltre, il percorso di formazione dell’identità, del proprio “io”, implica strettamente le domande sull’alterità, intrecciando nozioni e pratiche cruciali, scolastiche e esistenziali: il riconoscimento e il rispetto; la capacità di ascolto; l’attualizzazione. “Studiare” una mentalità articolata e sfaccettata come quella di un’esponente di un mondo altro e distinto rispetto a quello di cui la classe ha esperienza – per valori, atteggiamenti, aspirazioni, ideali – è una fra le tante occasioni che la scuola offre di conoscere sé stessi osservandosi attraverso la lente dei fatti storici, delle teorie e della ricerca intellettuale, delle espressioni artistiche e creative del pensiero.

Le parole e i confini

La ricostruzione della biografia linguistica della nonna è un’esperienza di esplorazione di confini e territori sconosciuti, e di riflessione sui luoghi incontrati, che non molti giovani sono abituati a compiere.

In un repertorio praticamente inesauribile, il viaggio ci porta per esempio a conoscere i termini della geografia immaginaria di Camilla, e in questo senso colpisce gli studenti che per lei cui ‘d giù da là, “quelli del profondo Sud” (“di giù di là”) annoverassero quasi tutti gli italiani, perché a partire dalla Liguria era tutto Meridione. Interessanti risultano gli orizzonti etnici e sociologici, allo scoprire che le offese più pesanti rivolte ai nipoti disordinati e poco curati fossero singher, “zingaro” (nell’espressione te smie ‘n singher, “sembri uno zingaro”, con la variante te smie ‘n lader, “sembri un ladro”) o caplunas, “giovinastro capellone e sporco”. Il codazzo di esercizi ironici sulla capigliatura del professore, in passato e nel presente, rivela quanto sia divertente scoprire, nello specchio delle parole della nonna, elementi della biografia del nipote poi insegnante: è quindi con sommo divertimento che si impara l’espressione con cui venivo apostrofato quando avanzavo qualcosa nel piatto, sguret ‘d merda (“principino di merda”) o il rimbrotto rivolto a noi nipoti quando dicevamo parolacce, vui auti l’eve sempe ‘l cul ‘n buca (“voi altri avete sempre il culo sulle labbra”).

Accanto ai segni linguistici, si esplora l’immaginario ricchissimo di una giovane piemontese istintivamente consapevole delle diverse discriminazioni di cui è fatta oggetto, in quanto donna, povera, lavoratrice non istruita, femminista, antifascista.

Le materie insegnano la vita

Non è difficile immaginare la fitta rete di relazioni che questo lavoro di ricostruzione linguistica e culturale intrattiene con i contenuti disciplinari in tutti gli anni di corso, e la forza che alcune di queste considerazioni acquistano in occasione di tappe fondamentali del lavoro letterario: Verga, gli scrittori piemontesi della Resistenza, il Neorealismo e il Pasolini del film “Comizi d’amore” su tutti.

Ma anche passando a quelle che si definiscono competenze “soft”, non mi sarebbe difficile compilare, sulla base di quanto detto, una rubrica che descriva finalità e caratteristiche di queste attività in termini di life skills. Potrei ad esempio partire, rispetto alla definizione standard dell’OMS, dal fatto che le domande che guidano l’esperienza attengono alle conoscenze (Area cognitiva: storicità del linguaggio, ricostruzione del contesto culturale, interpretazione testuale), alle abilità (Area emozionale: costruzione della soggettività) e alle scelte (Area relazionale: riconoscimento dell’alterità e relazione con essa). Su questa falsariga, classificare e misurare sarebbe non solo possibile, ma relativamente semplice, declinando alcuni indicatori standard come “consapevolezza”, “empatia”, “pensiero creativo”, “comunicazione efficace”. Tuttavia, una simile formulazione mi apparirebbe artificiosa e modaiola (per non dire apertamente furbastra), come mi appaiono la stragrande maggioranza delle proposte didattiche in tema di soft e life skills.

Preferisco, invece, riconoscerne la robusta dose di artigianato e di improvvisazione, accanto al puro e semplice gusto per l’umorismo, che non può mai essere assente se si desidera che un’esperienza culturale e umana generi frutti a lungo termine e si traduca in disposizione permanente a imparare e approfondire.

Non credo infatti che abbia molto senso cercare di dividere le competenze in “hard” e “soft”. Non si può insegnare senza “materia”, come ha scritto bene Giulio Ferroni in “La scuola impossibile”. E così come suona forzato e artificioso insegnare l’empatia o lo spirito critico al di fuori di un contesto culturale, allo stesso modo è impossibile insegnare una disciplina senza trasmettere emozioni e esempi di empatia e spirito critico (o del loro contrario, naturalmente). Ogni processo cognitivo è segnato da aspettative, delusioni e sentimenti. Anche se il mondo del “Tecnopolio”, secondo la felice definizione di Neil Postman, punta alla cancellazione della soggettività e dello scarto individuale, noi siamo e saremo sempre segnati dalla nostra soggettività, per quanto si possano inventare griglie e tabelle che, misurandola in base a principi arbitrari, cercano di intrappolarla e descriverla in modo “oggettivo”. O, in maniera complementare, di descrivere il contenuto emotivo e umano di un apprendimento come elemento separato dall’apprendimento stesso.

Sapere disciplinare e sapere emotivo procedono di pari passo. Ogni nostro gesto formativo è anche scelta educativa, all’interno di una vasta gamma di comportamenti che vedono agli estremi il tentativo di insegnare emozioni usando i contenuti come accidenti (impressionismo/ autoapprendimento), o al contrario di escludere le emozioni puntando tutto sui contenuti (nozionismo). Ma il risultato di simili approcci monchi (nel primo caso, di profondità culturale, nel secondo, di umanità) non sono un’istruzione e un sapere autentici, ma semplici “esperienza” e “conoscenze” fini a sé stesse.

In particolare, non credo sia casuale che in quest’epoca in cui ogni esperienza dev’essere unica e gratificante si diffondano teorie che danno dell’insegnamento/ apprendimento una visione giocosa, al limite virtuale, liberata dal peso della realtà e della fisicità. Né che a questa prospettiva si affianchino nozioni come “personalizzazione” e “individualizzazione”, tese a disegnare una scuola per ciascuno che non è più la scuola per tutti. Una scuola del singolo individuo, della specializzazione, della presunta utilità, della concretezza, della vicinanza al mondo (del lavoro, sia chiaro). Né è un caso che simili innovazioni si affianchino all’idea di sostituire alla centralità del docente (più una caricatura che una realtà) quella dello studente.

La pedagogia della nonna Camilla è invece uno degli innumerevoli esempi partoriti dalla fantasia di chi insegna per tenere insieme emozione e conoscenza, senza minimamente rinunciare alla centralità dei contenuti e del docente. Semplicemente, però, utilizzando questa centralità con naturalezza e arte per promuovere una riflessione su sé stessi, sulla grande e sulla piccola storia, sul mondo, sui rapporti di potere dentro e fuori da una classe.

C’è un gran guadagno in queste esperienze e in questi valori.

Ma, avrebbe detto Camilla, a le’è nen cul di padrun, “non è il guadagno dei padroni”.

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