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diretto da Romano Luperini

Le tracce sotto esame /1. Riflessioni sulla Prima prova dell’Esame di Stato

Di cosa parlano quando parlano di scuola (sui media)

L’attenzione mediatica che l’Esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione sta ricevendo negli ultimi anni è un fenomeno piuttosto recente e quasi sorprendente, ignoto – in queste dimensioni – all’epoca pre-social. E non deve dispiacerci che l’opinione pubblica accenda i riflettori sulla scuola e non la ignori, mostrando un interesse forse ancora derivante dall’onda lunga post-pandemica e dal ricordo del periodo cupo in cui tutti si resero conto che anche la scuola, presidio di democrazia, è essa stessa un po’ come l’aria. Non ci rallegra altrettanto però il campionario di imprecisioni e strafalcioni che alcune testate giornalistiche hanno lanciato in rete alla vigilia dell’esame, a cominciare dal roboante annuncio dell’abbandono della “tesina” nel colloquio sostituita dal “capolavoro”, senza che nessuno avesse cura di verificare che la prima è stata proposta per l’ultima volta nel 2018 e il secondo, novità dell’anno in corso richiesta per la compilazione del curriculum dello studente, non è però oggetto di discussione all’esame. È solo un esempio della modalità approssimativa con cui l’argomento scuola viene spesso trattato dai media non specializzati, a dimostrazione di come di scuola se ne sappia davvero poco, se non la si fa e non la si vive, ma anche di come ci sia poca voglia di documentarsi seriamente su questo argomento, di cercare qualche riferimento normativo o qualche documento ministeriale; è certamente più semplice dare spazio agli immancabili consigli su come copiare, o a liste di raccomandazioni e consigli tra l’ovvio e il melenso, con tutto il noto apparato sentimentaleggiante legato a questo evento, che rischia di mettere in ombra gli aspetti essenziali di ciò che queste e questi giovani al loro ultimo atto come studenti di scuola sono chiamati a fare, qualcosa che non è per niente facile né banale.

La prima prova alla prova dei fatti

19 giugno 2024 ore 8:30 circa. Sono commissaria esterna in un Liceo Artistico e mi trovo in un ufficio con la Presidente di Commissione, il personale della scuola incaricato della ricezione del plico telematico con la prima prova d’esame, quattro studenti estratti per testimoniare la correttezza delle operazioni. Per stemperare la tensione dell’attesa scambio qualche parola con le ragazze e i ragazzi chiedendo loro un pronostico dell’ultimo minuto (contestualmente butto lì il mio: D’Annunzio! E come sempre, sbaglio), mentre loro, senza particolare esitazione, nominano in prima battuta Ungaretti e poi anche Pirandello. Tra le più previste e prevedibili degli ultimi anni, dunque, le due tracce di analisi del testo, la tipologia A, che resta comunque, anche in questo anno marcato dal pronostico azzeccato, la tipologia meno selezionata dagli studenti. Dal mio punto di vista di commissaria esterna per alcuni anni consecutivi, ma la stessa considerazione vale anche per le mie esperienze come commissaria interna, questa prova non fa paura: la presenza di ben sette tracce tra cui scegliere, e loro sceglieranno in modo pragmatico e senza drammi, è già un buon motivo per non farsi prendere dal panico. È davvero la prova che incute minore preoccupazione e il cui brivido risiede soprattutto, e forse soltanto, nel suo aprire le danze, anzi nel suo aprire il “rituale”, le cerimonie, perché la definizione di rito di passaggio, tanto giornalisticamente abusata, è carica di insopportabile retorica, ma che un rito lo sia, non c’è dubbio.

Ma sono davvero sempre i soliti? Alcune considerazioni sulle tracce di tipologia A

Come ogni anno, mentre i candidati lavorano tranquilli e concentrati tra scalette, mappe, schemi, brutte copie e belle copie, dizionari di sinonimi e contrari, snack energetici e ventilatori accesi, là fuori, su social e quotidiani, si scatenano nel frattempo le più varie opinioni e riflessioni. Come già detto sopra, bene, è bello che interessi a tanti ciò che accade a scuola, ma come al solito c’è un ma, una serie di ma. Le opinioni che si registrano riguardano spesso proprio la tipologia A (Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano), la meno svolta, si diceva, ma la più amata per il gioco mediatico del toto-tema e quindi anche per i commenti post-uscita. Commenti che, in estrema sintesi potremmo riassumere così e collocare in due macrocategorie: se l’autore scelto si situa cronologicamente oltre la metà del Novecento (e non è il caso di quest’anno), ci si comincia a chiedere se gli studenti siano in grado di svolgere la traccia perché, si sa, “non ci si arriva”, “a scuola si arriva a malapena al periodo tra le due guerre”, “ha senso dare autori a cui non si arriva”? Se invece l’autore che “esce” si colloca comodamente entro la prima metà del Novecento o ancora prima, alla fine dell’Ottocento, assisteremo a una reazione di noia sui “soliti classici, i soliti Ungaretti, i soliti Verga, i soliti Pascoli che anche i nostri genitori e nonni hanno studiato”, “ma insomma, possibile dunque che a scuola non siate in grado di arrivare un po’ più in là?”. A guardare bene, l’obiezione è la stessa e riguarda l’arrivare. Prima di rispondere, cerchiamo di verificare se ci sia effettivamente una ragione di lamentare la trita riproposizione dei “sempre soliti” autori. Se andiamo a rivedere gli autori proposti per la tipologia A negli ultimi dieci anni (ma bisogna andare indietro fino al 2012 perché per due anni, 2020 e 2021, l’esame è stato senza scritti a causa della pandemia Covid), questa è la sequenza che si registra: nel 2012 abbiamo Montale, con un brano tratto da una raccolta di scritti in prosa del 1966; 2013: Claudio Magris, con un testo del 2005; 2014: una poesia di Quasimodo tratta dalla raccolta Ed è subito sera; 2015: Calvino, un brano da Il sentiero dei nidi di ragno (1947); 2016: Umberto Eco, scomparso in quell’anno, con un brano da uno dei saggi Sulla letteratura composti tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. 2017: Caproni, con una poesia pubblicata postuma nel 1991; 2018: Bassani, un brano da Il Giardino dei Finzi Contini (1962); 2019, primo anno in cui la traccia di tipologia A si sdoppia tra poesia e prosa: Ungaretti, anche allora un testo tratto da L’Allegria, e Sciascia, brano da Il giorno della civetta (1960); 2022: Verga (nel centenario della morte) e Pascoli; 2023: ancora Quasimodo (testo del 1958) e Moravia (Gli indifferenti, 1929), fino all’attuale accoppiata Ungaretti-Pirandello. Che cosa possiamo osservare? Prima di tutto che no, non è affatto vero che ci sono sempre i soliti, è invece innegabile nell’arco di questi ultimi anni un’alternanza tra classici con più sicura cittadinanza all’interno dei programmi svolti (dai singoli docenti, perché – lo ricordiamo – non esistono i “programmi ministeriali”), e proposte che “osano” un po’ di più dal punto di vista cronologico, in alcuni casi rimanendo però nell’alveo del romanzo e della lirica, in altri casi con incursioni anche in ambito saggistico e con un tocco più metaletterario. Alcune delle scelte più “antiscolastiche” sottintendono il sacrosanto principio per cui fare analisi del testo è soprattutto una competenza, che si acquisisce con la pratica applicata a testi di natura diversa, per poter padroneggiare un metodo che permetta di analizzare anche testi non noti o di autori che non sono inclusi nel programma. La tendenza a osare sembra essere venuta meno dopo la pausa per il Covid, con scelte comprensibilmente più rassicuranti, in un tempo di crisi e ansia dilagante. Ma l’osservazione sugli anni precedenti ci mostra una varietà che personalmente trovo molto sana e mi auguro che in futuro si confermerà e non finisca per appiattirsi sempre e solo sulla categoria dello “scolastico sicuro”. Ora che abbiamo chiarito effettivamente chi sono questi autori talvolta prevedibili, talvolta molto meno, torniamo alle obiezioni di cui sopra (“ma non ci si arriva!” vs “ma si arriva solo qui?”), che, pur partendo da punti di vista diversi ci mostrano in modo evidente una diffusa idea di ciò che si fa a scuola che non riesce a scardinarsi dal concetto di partire da un punto per arrivare a un altro punto, come se la programmazione annuale del docente fosse una corsa di cui si vede il blocco di partenza, ma non il traguardo. La scuola non è questo, non è più (e non è mai stata) solo questo, in molti siamo soliti costruire percorsi per rimodulare le forme più tradizionali e per permettere di ampliare lo spettro di temi e autori e di includere anche testi molto più vicini alla nostra epoca. È pur vero, in qualche caso, che la carrellata cronologica di autori e la corsa a finire i programmi possano essere ancora il modus operandi principale di alcuni docenti (pochi? Molti? Non so fare statistiche): uno schema cronologico che, se applicato rigidamente, considerando anche i tempi della scuola attuale, non permetterà nessuna evoluzione verso territori meno esplorati; se non si lavora invece per costruire una gerarchia di senso, che non significa fare una classifica sul valore degli autori, ma valutare il loro peso specifico in una didattica che parli alle ragazze ai ragazzi di questa generazione, continueremo ad avere studenti che escono dalle scuole superiori con la carducciana pargoletta mano ancora sinistramente posata sulle loro spalle, ma senza aver letto un verso di Montale, per non parlare di Caproni e Sereni, ma anche delle pagine di Calvino, Pavese, Fenoglio, Morante, Levi, Pasolini, per non andare oltre. Le situazioni sono tante, le classi sono variegate, programmare è difficile, ma uno sforzo per selezionare percorsi sensati anziché limitarsi a concludere che “sono arrivata/o qui perché sono dovuta/o partire da qui” è assolutamente urgente e necessario, laddove non viene fatto, ma posso dire che da molti docenti viene già fatto, con lucidità e criterio. Da sostenitrice di percorsi che permettano di avvicinarsi sempre più al contemporaneo nell’ultimo anno di studio, aggiungo però anche questa riflessione: smettiamo di pensare in termini di “prima e dopo” e guardiamo a contenuti letterari significativi che creino ponti tra il passato e la contemporaneità. Nel leggere alcuni commenti denigratori sulle tracce di quest’anno ho percepito qualcosa di profondamente storto nell’archiviare come i “soliti vecchi” Ungaretti e Pirandello: i loro testi proposti nella traccia, un po’ più che centenari, sono innegabilmente attuali. Pensiamo alla poesia di Ungaretti: la scarnificazione che la guerra opera non solo sui corpi e le menti, ma sul linguaggio, facendo anche di questo brandelli e frammenti, è qualcosa di attuale e tragicamente contemporaneo: sta all’occhio dello studente, se adeguatamente abituato a leggere la letteratura con questo sguardo, percepirne anche questo aspetto, oltre all’analisi stilistica e retorica e alla contestualizzazione. Sogno una scuola dove ci sia posto anche per autori degli ultimi decenni, senza per questo volersi disfare di Ungaretti o di Pirandello considerandoli pezzi di antiquariato spruzzati di polvere stantia.

Le tracce B e C e le insidie della comfort zone

I docenti amano discettare sulla traccia di analisi del testo, che però, si diceva, è la meno scelta dai candidati: anche questo sembra il segnale di una cesura tra la scuola immaginata e quella reale. Andando avanti con le tracce, oltre la tipologia A, si scendono infatti gradoni di realtà, dall’empireo della letteratura, alla più pragmatica competenza argomentativa delle tracce B, fino alla larga porta e spaziosa via del tema di ordine generale, che pure non è privo di insidie, ma risulta comunque nella percezione degli studenti la tipologia più accessibile e meno rischiosa. Anche questo punto merita una riflessione: i docenti impiegano la maggior parte delle loro energie nell’insegnare la letteratura, i testi, analizzarli, verificarli, mentre il lavoro sulla scrittura argomentativa, spesso curato negli anni precedenti, più spesso al biennio che al triennio, è spesso accantonato per mancanza di tempo nell’ultimo anno, eppure, viste le scelte, meriterebbe più cura, sempre. Che cosa propongono le tracce di tipologia B e C? Difficile definire le B propriamente “argomentative”, ma forse è anche giusto così, sono di fatto in molti casi testi espositivi su cui si chiede una sintesi e si pongono domande di comprensione, per poi produrre un testo a commento del brano, argomentando il proprio pensiero: nel caso di quest’anno tracce assolutamente accessibili e molto basilari, con l’eccezione della più raffinata riflessione sul silenzio di Nicoletta Polla-Mattiot. Le tracce C sono generalmente le più scelte e anche quest’anno non ha fatto eccezione; partono sempre dalla base di un testo, un discorso, una riflessione, e, malgrado ciò che si pensa, non sono comunque generiche o approssimative perché appunto implicano un testo, seppure di breve estensione, come punto di partenza. Piuttosto il grande rischio consiste nella banalizzazione alla quale alcuni argomenti molto mainstream sembrano invitare: pensiamo all’elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini, una bella traccia che comunica un concetto importante, che potrebbe però essere facilmente travisato: il passaggio sulla “totale dedizione” potrebbe infatti essere trascurato a favore di un appiattimento sull’antitesi perfetto-imperfetto con gli scenari particolarmente banalizzanti a cui potrebbe aprire. La traccia C2 sul mondo dei social ormai sembra quasi una “rubrica fissa”, e immancabilmente si va a scegliere una riflessione datata, invecchiata, come lo era la traccia di Belpoliti dello scorso anno sul tema dell’attesa nell’“era Whatsapp”; lo altrettanto è questa, tratta da uno scritto di Maurizio Caminito che risale al 2014, ben dieci anni fa, dal titolo Profili, selfie e blog: forse dovremo aspettare altri dieci anni per una riflessione su Tik-tok, reel e influencer (invero già in piena decadenza, anche loro) che molto presto sembrerà preistoria? E anche sul contenuto di questa traccia, con il suo assunto indimostrabile per cui la forma della scrittura diaristica sarebbe ormai scomparsa e annullata dalle scelte di condivisione digitale, saprà qualche coraggioso studente dirsi in disaccordo, smontando certe asserzioni disfattiste? In questi lunghi anni di correzione di tracce d’esame mi sono imbattuta in pochi, pochissimi studenti che si sono sottratti alla tendenza di adattarsi a ciò che i più immaginano di dover scrivere presumendo di compiacere così chi dovrà correggere: è un punto dolente non da poco, perché stiamo parlando di una capacità di giudizio critico che nel nostro lavoro quotidiano a scuola cerchiamo (almeno i più coscienziosi di noi) di valorizzare e sviluppare nei nostri studenti, una facoltà che in loro è tutt’altro che assente, ma che difficilmente ricorderanno di avere e di poter usare durante la prima prova d’esame.

Lo teniamo o lo buttiamo?

Molti vorrebbero abolire l’Esame di Stato per ragioni che vanno dal dispendio economico alla presunta inutilità didattica, ai dubbi sulla sensatezza di una prova di esame con oltre il 99% di promossi e altro ancora. Non intendo qui analizzare questa questione e portare argomenti a sostegno della mia posizione che è invece a favore del mantenimento dell’esame, tranne una considerazione, legata proprio alla prima prova: per quanto potrebbe essere infatti strutturata in modi migliori (anche se ritengo che i veri interventi migliorativi andrebbero fatti convergere sul disgraziato colloquio orale più che sugli scritti), osservo che c’è qualcosa di straniante e quasi innaturale, nel senso migliore di questi termini, nel vedere un gruppo di diciotto-diciannovenni con la penna in mano, i fogli per gli appunti, i fogli per la “bella”, ma soprattutto il pensiero attivato per il lunghissimo tempo di sei ore. Senza voler eccessivamente romanticizzare questo atto, penso che la sua conservazione e il suo miglioramento siano utili per preservare la competenza, veramente a rischio, alla quale questa prova “inchioda”, cioè quella di organizzare il proprio tempo, un tempo congruo, sufficientemente disteso, e usarlo per tradurre in parole il proprio pensiero.

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