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diretto da Romano Luperini

Scuola autentica e scuola inautentica

Questo pezzo nasce dalla perplessità che mi coglie quando incontro espressioni come “compito di realtà”, “compito autentico”, “valutazione autentica”. Non credo affatto che si tratti di espressioni prive di fondamento teorico; e sono consapevole che la perplessità nasce in una certa misura da fattori esterni, sociali e politici: il fatto che simili espressioni si collochino in un orizzonte culturale caratterizzato dall’asservimento dell’istruzione a fini che le sono estranei (quelli del mondo produttivo) e da un’idea di utilità e profitto sulla quale possiamo leggere le parole convincenti di Nuccio Ordine.

Tuttavia, quando leggo le considerazioni di Cristiano Corsini su “valutazione tradizionale” e “autentica” nel suo bel libro “La valutazione che educa”, qualcosa non mi convince. Definendone le caratteristiche, l’autore distingue la valutazione “tradizionale”, che esemplifica riferendosi al colloquio orale e al “tema”, da quella “autentica”, che si traduce nella “realizzazione individuale e di gruppo, di prodotti reali, attinenti alla dimensione scientifico/ professionale delle discipline. Progettazione e realizzazione di eventi, prodotti, ecc.” (le citazioni sono tratte dalla tabella a pag. 93). Individua i limiti della prima (la valutazione tradizionale) nella “scarsa affidabilità” (incidenza di distorsioni valutative) e nella “difficoltà di valutare competenze” (per l’”inautenticità della richiesta”). I limiti della seconda risiedono invece nella “difficoltà di approntamento dei contesti in cui realizzare i prodotti”.

Capisco la logica della distinzione, ma non credo che rappresenti fedelmente la realtà.

Non mi prefiggo quindi di dimostrare l’infondatezza di concetti e categorie utilizzati da chi critica una scuola che è spesso lontana dalla realtà, fondata su una finzione formativa e quindi poco “vera” e coinvolgente; tra l’altro, so bene che questa scuola esiste. Vorrei invece esplorare in estrema sintesi quel che, situandosi in questa prospettiva, di “autenticità”, ne rimane fuori: il vasto territorio di ciò che è definito “inautentico”, “non reale”, “non vero”, “finto”.

Il territorio del “non autentico”

Il discorso su ciò che è autentico e ciò che autentico non è si colloca, anche al di là delle intenzioni, in un contesto pubblico fortemente polarizzato. Il confine fra i due territori culturali e didattici è quindi tracciato e sorvegliato da antitesi irriducibili.

Ѐ autentica l’esperienza che parte da problemi aperti e complessi, che non prevedano una soluzione univoca, siano legati alla realtà del mondo esterno all’istituzione scolastica, in grado di mobilitare risorse cognitive non formali e di implicare il vissuto di chi vi partecipa; un’esperienza sociale di costruzione di un sapere pratico e spendibile, regolata autonomamente, che produca responsabilità e libertà di pensiero. La sua validità non si esaurisce nel momento della singola prestazione (verifica o produzione), ma creando anche attraverso la prestazione e il prodotto le condizioni perché il processo di apprendimento sfrutti tutte le risorse a sua disposizione e tenda a proseguire indefinitamente.

Una simile descrizione richiama implicitamente, per contrasto, le caratteristiche del territorio dell’inautentico.

Sarà dunque inautentica l’esperienza che propone situazioni e problemi a risposta chiusa o fintamente aperta (che cioè implicitamente richieda l’adesione a una teoria o un principio già validato, come potrebbe darsi in una lettura di testi che pervenga alla semplice conferma di un’opinione che si conosce autorevole); un’esperienza che non va oltre i confini dell’apprendimento istituzionale/ formale, generalmente a carattere individuale e non collettivo: tale quindi da non produrre vera responsabilità e libertà di pensiero, risolvendosi in una dimensione di pura prestazione occasionale, di solito rigorosamente disciplinare, priva di contatti solidi con il vissuto di chi la vive e con il suo percorso complessivo di crescita psicologica e culturale.

Oltre i confini

In questo genere di mappa dei percorsi formativi, dunque, precisi e invalicabili confini separano i territori dell’autentico e del non autentico. Tuttavia, confrontando la geografia mentale che ispira questi modelli “puri” con le storie e le esperienze condivise con tante e tanti docenti incontrati nel corso di più di trent’anni di vita nella comunità scolastica, mi vengono in mente due considerazioni critiche.

La prima è legata al senso che le parole “tradizione” e “tradizionale” assumono nelle riflessioni legate all’autenticità; per esempio, quella di Corsini citata in apertura: perché verifiche come il colloquio (la vecchia interrogazione) o la prima prova scritta dell’esame (il vecchio tema) vi si trovano sempre collocate al di là del muro che separa ciò che è “autentico” da ciò che non lo è?

Il giudizio mi sembra sbrigativo, fondato sostanzialmente sull’idea che questo genere di situazioni (attività, verifiche, valutazioni) non tocchino niente di veramente profondo, a livello di vissuto individuale, di relazioni fra docente e studente, di apprendimento formale e informale, trasversale e permanente. Che perpetuino anzi meccanismi di ripetizione e obbedienza: uno sciorinare nozioni più o meno utili, riproducendo processi logici ideati da altri e già validati, per pervenire a conclusioni che non appartengono alle persone (docente, studente, classe) coinvolte nell’esperienza. In termini di competenze, si tratterebbe di situazioni che mobilitano conoscenze (anche approfondite, ma su uno o pochi argomenti) e abilità (anche importanti, come la capacità di sintesi e di confronto), ma non scelte, atteggiamenti critici, soggettività; cioè, in altri termini, il nocciolo duro di una reale competenza, e quel che resta quando il tempo avrà cancellato le nozioni e parte delle procedure apprese.

Può essere così, naturalmente; ma l’impressione che ricaviamo di fronte a una didattica orientata al nozionismo o alla proceduralità fine a sé stessa non può essere generalizzata, escludendo dal nostro campo di analisi e osservazione le numerosissime esperienze in cui percorsi e prove etichettate come “tradizionali” mobilitano la coscienza e la sensibilità più profonda di chi le affronta, nella sua dimensione etica, estetica, culturale: una concreta realtà che chi insegna, se insegna bene, ha di fronte ogni giorno in cui mette piede in un consiglio di classe. E come è vero che una didattica nozionistica e procedurale agisce in un ambito individuale e eteroregolato, producendo dipendenza e conformismo culturale, così è vero che competenze sociali e emotive di alto profilo possono essere coltivate anche al di fuori di situazioni scolastiche che simulano le dinamiche e la socialità di un’eventuale professione futura. Le competenze dell’avvocata che riflette sulla linea difensiva da tenere in una causa delicata, del medico che ragiona sull’obiezione di coscienza o sceglie le parole da usare per comunicare una diagnosi nefasta, dell’ingegnera invitata a partecipare al progetto di costruzione di un’arma, si nutrono di strategie e comportamenti appresi in una scuola ben fatta: raccogliere testi e opinioni (conoscenze), confrontarli (abilità), utilizzarli per risolvere problemi nuovi (atteggiamenti e scelte). E una scuola ben fatta è ben fatta sia quando utilizza processi e dinamiche fortemente orientati alla socializzazione, come per esempio la tecnica del debate, sia quando si serve di strumenti e modalità cha partono dalla lettura solitaria o dalla stesura di una relazione individuale su un libro letto.

Di questi temi parliamo spesso su queste pagine, riflettendo sulle potenzialità della riflessione linguistica, della lettura e dello studio storico-letterario, e sulle differenti tipologie di verifiche e esperienze che ne possono derivare. A uno di questi interventi, sui testi della prima prova scritta dell’Esame di Stato, rimanderei per illustrare in modo argomentato perché la polarità fra “tradizionale” e “autentico” può diventare una trappola mentale, anziché una via verso una scuola attuale, autentica, reale, vera.

La seconda considerazione critica nasce proprio dall’osservazione di molte esperienze didattiche cui si conferisce automaticamente il sigillo di autenticità, in virtù dei loro agganci marcati a una dimensione sociale, pratica/ concreta, vicina all’attualità, del processo di insegnamento/ apprendimento. Se è facile denunciare il vuoto intellettuale, psicologico e etico di uno stereotipo di “scuola tradizionale”, non è difficile vedere in certe forme didattiche attuali l’esatto contrario della “verità” e dell’“autenticità”, in nome proprio della realizzazione di “prodotti” di varia natura. Cataloghi di mostre su qualsiasi tema possibile immaginabile; campagne pubblicitarie per diffondere testi e valori; organizzazione di convegni e concorsi su temi artistici e scientifici tratti liberamente dal curricolo; dialoghi letterari trasposti su Tik Tok o su un’immaginaria chat social; pillole disciplinari su Instagram; riscrittura di “Guerra e pace” o dei “Fratelli Karamazov” in 140 caratteri; onnipresenti video che documentano il “making of” di altri video che illustrano e ricodificano romanzi e ricerche: una straordinaria gara di finzioni e messe in scena, non di rado organizzate proprio in competizioni fra scuole e classi alle quali si chiede di dimostrare di essere “attuali” e vere. Queste e simili performance sono caratterizzate in genere da due tratti comuni: l’ambizione di svecchiare la scuola attraverso l’utilizzo di strumenti, codici e tecnologie contemporanei, da una parte; e dall’altra il rovesciamento di ruoli fra docente e studenti e il coinvolgimento attivo di questi ultimi in ogni fase dell’attività, spesso organizzate in forma seminariale e laboratoriale. Ma né l’una né l’altro garantiscono che quella che si sta vivendo in classe sia davvero un’esperienza autentica.

Naturalmente, l’obiezione non si risolve nell’opporre allo stereotipo del “tradizionalista” quello del “prof innovatore”, cresciuto a pane, compiti di realtà, visori e aule immersive (per quanto, su quest’idea che la scuola sia più “reale” e “autentica” servendosi di avanzatissimi software di simulazione ci sarebbe parecchio da obiettare). E tuttavia, anche nelle migliori espressioni di una scuola “autentica”, vicina alle persone, al loro mondo interiore e alla realtà sociale che le circonda, non c’è nulla che sia esclusivo, unico e irrealizzabile dalla fantasia didattica di qualsiasi docente, con metodi e approcci molto diversi fra loro.

In definitiva, mi sembra che il confine fra “autentico” e “non autentico” sia spesso tracciato in modo assolutamente arbitrario. Funziona bene solo a condizione di non misurare la sua descrizione teorica con quanto accade davvero. In classe, infatti, si può nascondere la verità – delle persone, del sapere, delle relazioni – in tanti modi. E in altrettanti la si può cercare.

Una nuova prospettiva sulla scuola dell’autenticità

Il problema, quindi, potrebbe non essere ontologico.

Potrebbe essere che non ci siano alcune esperienze, prove, apprendimenti “autentici” e “reali”, chiaramente riconoscibili per i tempi e i metodi che utilizzano, le loro caratteristiche e gli esiti che ottengono. Potrebbe essere che tutte e ciascuna esperienza didattica e culturale siano suscettibili di diventare autentiche e di incidere realmente sulla cultura e sul vissuto delle persone che le vivono, studenti e insegnanti.

Ne deriverebbe allora un significativo spostamento culturale: perché la domanda di autenticità non interrogherebbe prima di tutto l’apparato metodologico, strumentale e ambientale dell’apprendimento/ insegnamento, ma la qualità della relazione e il quadro etico nel quale l’esperienza stessa si colloca. In quell’ambito si definirebbe la misura della sua realtà, autenticità, verità.

Sarebbe, a mio giudizio, un cambiamento importante e fruttuoso, soprattutto se a discuterne fosse chiamata la comunità di chi insegna, in un processo democratico.

Autenticamente democratico.

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