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diretto da Romano Luperini

Modernismo e antimodernismo nella cultura di destra

Per Nottetempo è uscito Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 di Mimmo Cangiano, un’indagine tra storia della letteratura, storia delle idee, storia politica e degli intellettuali, sulla cultura europea di destra a cavallo tra Otto e Novecento. Pubblichiamo le prime pagine del terzo capitolo del volume, ringraziando l’autore e l’editore per la disponibilità.

III. L’operaio, la città e la tecnica

1. Modernismo fascista

Quando la borghesia celebra il culto della nazione, sacrifica segretamente al suo vero idolo, il dio Mammona.

Ernst Niekisch

L’intreccio di temi modernisti e antimodernisti è uno dei tratti più tipici della cultura di destra fra le due guerre. Non solo il campo di indagine si divide in due opposti orientamenti, in cui si posizionano da un lato i difensori della funzione nazionale dell’industria e/o della tecnica, i sostenitori dell’emersione (come in Malaparte) di nuovi attori storici che vengono a introdurre diversi valori e concezioni, e dall’altro i propugnatori di un ritorno a passate conformazioni associative, a moduli di pensiero finalizzati a riattivare le prospettive Kultur e comunitarie nel quadro di una resistenza alla modernità avanzante e ai suoi portati; ma spesso, anche, i due vettori si sovrappongono nello stesso autore (è per esempio il caso di Drieu La Rochelle che ora vedremo). Non è possibile, da un punto di vista empirico, segnalare un singolo modello d’intersezione fra suggestioni moderniste e antimoderniste, ma è possibile sostenere che il tratto più tipico di tali contaminazioni è quello di avvenire in moduli di pensiero nei quali la dialettica risulta annullata. Se, infatti, la destra antimodernista tende direttamente a invalidare gli effetti dello sviluppo storico-materiale, contrapponendovi l’immagine di un passato intatto, un passato storico e culturale a cui tornare, cioè l’immagine di una totalità di significato che la modernità avrebbe posto in crisi imponendo una direzione sbagliata all’esistenza (i “tradizionalisti” sono l’esempio estremo di questo modo di pensare), la destra modernista da parte sua individua sì la progressione storica quale alveo di sviluppo di nuove concezioni tendenzialmente rivoluzionarie, ma riempie poi tale progressione (è proprio il caso del Malaparte fra proletariato e Controriforma) di valori non-dialettici, finalizzati ad assegnare a uno dei tratti della modernità (può essere la massa come la tecnica) il quadro valoriale di una perduta (e antica) significazione, capace di redimere il reale e la modernità stessa.

Tale sviluppo bifronte ha a che fare tanto con la ristrutturazione (e progressiva universalizzazione) capitalista di un quadro produttivo che sempre più costringe gli individui nei processi quantitativi di tempo (regolazione del lavoro ecc.) e spazio (abbandono delle comunità agrarie, inurbamento ecc.), quanto con l’azione teorica e pragmatica dei diversi governi e partiti fascisti, tutti in qualche modo proiettati – nel tentativo di diventare (sono parole di Mussolini) “forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio” – a rielaborare in nuove sintesi i propri presupposti ideologici per adattarli (e qui nasce la prospettiva bifronte del fascismo stesso) al quadro dello sviluppo industriale della società di massa:

È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile della “filosofia non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione”; è curioso e istruttivo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo. Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, brutale […] e gli si contrappone la tradizione, ecc.[1].

L’intuizione di Gramsci ci introduce proprio alle caratteristiche di un pensiero fascista che, se da un lato si vuole tradizionalista, dall’altro condivide proprio con l’industrialismo il valore pragmatico di uno sviluppo che si ritiene a-ideologico, e che quindi, in tal senso, riprende involontariamente (cioè ideologicamente) le modalità concettuali alla base dei nuovi meccanismi di produzione. La risposta fascista non sarà naturalmente quella meramente produttivista che i liberali schermano dietro altre immagini ideologiche (la convivenza pacifica, il principio di autodeterminazione dei popoli, la supremazia della sfera culturale-umanistica su quella tecnica ecc.), ma sarà quella tesa a spiritualizzare in senso reazionario la modernità avanzante e i suoi portati. Tale spiritualizzazione, che lascia certo (quasi) del tutto intatte le relazioni sociali alla base del funzionamento economico[2], non ha però una sola direzione di marcia, ma si sviluppa in numerosi rivoli ideologici, come per esempio la “spiritualizzazione” in senso nazionalistico o razzistico del processo produttivo (base dell’affermazione nazionale-etnica), il governo della politica sull’economia, la centralizzazione statuale delle relazioni di classe, la rappresentanza degli ordini sociali (corporativismo), la trasformazione antropologica del cittadino (il mito dell’uomo nuovo) e anche, culturalmente parlando, l’attacco ai principi democratici (inquadrati come decadenza) rappresentativi di un’economia sviluppantesi al di fuori di ogni controllo politico-culturale che possa imprimerle un significato. È in tale dinamica che si sviluppa il bi-frontismo fascista (rivoluzionario e contro-rivoluzionario, modernista e antimodernista ecc.), veicolando un tipo di modernità che, alternativa a quella liberale, vuole mantenerne intatti i criteri di efficienza economica[3], inquadrandoli però in funzioni ideologiche e amministrative differenti, perché tendenti ad accogliere in sé tanto i tratti della modernità (sono per esempio i miti della maggior efficienza produttiva dei sistemi fascisti) quanto quelli dell’antimodernità (sono le idee di sistemi politico-economici alieni dagli effetti atomizzanti e disgreganti del capitalismo e legati ad antiche e identitarie strutture di produzione e rappresentanza – per esempio, le corporazioni medievali). In tale alveo ideologico quella forma borghese del mondo veicolata dall’Ottocento entra in crisi (certo col tramite della guerra[4]), richiedendo di conseguenza nuove sperimentazioni (ideologiche e amministrative) che vogliono far salva l’organizzazione scientifico-industriale quale motore del benessere (e dell’armonia) sociale, ma vogliono anche presentare il cammino a ritroso (verso la nazione, la comunità, il popolo ecc.) come movimento in avanti oltre lo stadio raggiunto dalla borghesia liberale.

Il fascismo italiano, col suo duplice sviluppo cittadino e agrario e con la sua base di consenso piccolo-borghese, è certo all’avanguardia in questo processo, perché offre l’immagine di una società di massa in grado di avallare “lo sviluppo economico senza mettere a rischio i confini sociali e le tradizioni nazionali”[5], vale a dire dando ai luoghi deputati della modernità (l’industria, la metropoli ecc.) un carattere di tradizione che li separa dallo sviluppo incontrollato del capitalismo liberale, per connetterli invece alla concreta struttura di un popolo che si esprime mediante i suoi valori archetipici (e, viceversa, la romanità sarà una strada diretta verso il futuro). La spiritualizzazione del moderno (la spiritualizzazione della Zivilisation) non passa solo dai fenomeni connessi alla spettacolarizzazione e alla sacralizzazione del politico, ma inquadra nell’operato dello Stato un’azione pragmatica atta a dirigere le forze di sviluppo per dare agli individui la sensazione di un nuovo livello di autonomia, finalizzata a permettere di cambiare il sistema economico che li sta cambiando[6]. Tale dinamica consente al Regime di mantenere costantemente in piedi due posizionamenti ideologici apparentemente alternativi (è, mutatis mutandis, lo scontro tra il fascismo autoritario e quello totalitario), che vanno continuamente a controbilanciarsi non solo mediante le manifestazioni culturali del fascismo strapaesano, ma anche ai vertici della politica medesima, dove i processi effettivi di modernizzazione (mercato sempre più globalizzato, immissione di prodotti dall’estero, immissione di differenti stili di vita così come presentati dal cinema ecc.) possono essere arginati in molteplici modi, e con riferimenti tanto al passato (per esempio, gli appelli ai valori rurali della società italiana) quanto al futuro (per esempio, il mito della rivoluzione antropologica che sta creando l’uomo fascista o il mito palingenetico della gioventù[7]): critica dell’individualismo, difesa di principi socio-religiosi di tipo gerarchico, esaltazione dell’industrializzazione come mezzo per esportare i principi archetipici nazionali e, soprattutto, critica non della modernità tout court ma di una modernità degenerata, in quanto non in grado di modificare la società nell’ordine di quel primato della politica che è garante dell’unità della compagine nazionale (altro elemento ereditato dalla Kriegsideologie) nel quadro di una resistenza agli effetti disgregatori del sistema economico internazionale.

Si tratta di un processo (naturalmente anti-materialista) di spiritualizzazione del moderno che, in Italia, si interseca con la definitiva formazione di una coscienza nazionale, la cui costruzione viene ora raddoppiata nel mito della rivoluzione antropologica, la cui prassi però si rivela, con buona pace di Bottai[8], assolutamente materialista, diretta cioè alla militarizzazione esteriore delle dinamiche sociali nelle quali il cittadino si forma.

Ciò dà luogo a quel cortocircuito, sistematicamente evidenziato proprio da riviste quali Il Selvaggio e L’Italiano, fra un fascismo macchina mitopoietica ad altissimo livello di produzione ideologica e un fascismo macchina propagandistica (soprattutto per ciò che concerne la cultura di massa) tesa a premiare le vecchie attitudini conformiste nobilitandole, appunto, col marchio della trasformazione antropologica.

Il fatto però che la politica sia in grado di giocare su entrambi i fronti, battendo di volta in volta su elementi modernisti o antimodernisti, non significa che la cultura non viva tale contrapposizione come assolutamente reale, ascrivendo anzi proprio a un presunto prevalere dell’opposta ideologia le mancanze della “rivoluzione” in corso, e finendo dunque sempre (fino al ’42- 43) per inquadrare il Regime e la sua ideologia come recuperabili ai propri ideali.


[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007, Q1 § 92, p. 91.

[2] Diciamo “quasi” perché il padronato è, nei governi fascisti, effettivamente costretto a scendere spesso a patti con quel fattore autonomo che è la classe dirigente fascista, la quale può contare su una base personale di potere, spesso di carattere piccolo-borghese.

[3] Cfr. Ramiro Ledesma Ramos, “Discurso a las juventudes de España”, in Luciano Casali, Società di massa, giovani, rivoluzione, cit., p. 185: “[…] trasferire allo Stato la responsabilità e la funzione storica di essere esso stesso che, sostituendo il capitale privato o valendosene come aiuto obbligatorio al suo servizio, sviluppi direttamente l’industrializzazione”.

[4] Cfr. Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1919-1945, Il Mulino, Bologna 2007, p. 184.

[5] Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, trad. it. di M.L. Bassi, Il Mulino, Bologna 2000, p. 11.

[6] Roger Griffin (The Nature of Fascism, Palgrave Macmillan, London 1991) parla infatti di una “modernità alternativa”.

[7] Cfr. Luisa Passerini, “Youth as a Metaphor for Social Change: Fascist Italy and America in the 1950s”, in Giovanni Levi e Jean-Claude Schmitt (a cura di), A History of Young People in the West, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1997, vol. II, pp. 283-303. Sullo sviluppo del mito della gioventù in Germania si veda almeno Ruf der Junger (1920) di Max Hildebert Boehm.

[8] Cfr. Giuseppe Bottai, Il Fascismo e l’Italia Nuova, Berlutti, Roma 1923.

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