La faglia delle identità – su La morte di Murat Idrissi di Tommy Wieringa
Tommy Wieringa, scrittore olandese tra i più significativi dell’estremo contemporaneo avvia il suo romanzo La morte di Murat Idrissi (2018) dal tempo remoto in cui il “graffio sulla crosta terrestre” apertosi tra Europa e Asia viene riempito dalle acque dell’Oceano Atlantico, a formare il Mare Mediterraneo:
E poi, alla fine di quell’era silenziosa, immobile, non c’è nessuno a contemplare il miracolo della frattura tettonica nella massa terrestre, il varco tra l’Oceano Atlantico e quello che diventerà il Mar Mediterraneo. Schiudendo e ribollendo l’acqua erompe nel varco e si getta nel deserto di sale sottostante, il livello aumenta di diversi metri al giorno.
Prima si riempie il bacino da Gibilterra alla Sicilia, poi è la volta della parte orientale, fino alle coste della Turchia e del Levante. Mare Nostrum. Yam Gadol. (T. Wieringa, La morte di Murat Idrissi, Milano, Iperborea, 2018, p. 9)
Il momento geologico che disegna i nuovi contorni tra terre emerse e mare e che rende definitiva la faglia apertasi tra i due continenti sancisce anche la separazione di vite, destini, possibilità tra gli uomini di questi luoghi: “Qui è qui e là è là”, scrive il narratore che, in un centinaio di pagine, affronta il tema della difficile identità di chi è sospeso tra due mondi, due civiltà, due culture.
Il titolo sembra suggerire che il protagonista della vicenda sia Murat Idrissi. Invece, al centro della storia ci sono due giovani olandesi, immigrate marocchine di seconda generazione, Ilham e Thouraya, che decidono di trascorrere una vacanza nel paese dei genitori: dunque Murat sarà “solo” il catalizzatore delle loro contraddizioni esistenziali, particolarmente vive in Ilham.
Nata e cresciuta nei Paesi Bassi, la ragazza aspira a un’integrazione “perfetta” ma sperimenta anche quanto essa sia fragile:
Le discussioni sulla piazza della scuola, un tempo, in aula magna – quando aveva rivendicato il suo posto. Ilham Assouline, olandese al pari di chiunque altro. Quando aveva sparato addosso a tutti le sue generalità: io, Ilham Assoluine, nata all’Ospedale della Croce Rossa di Beverwijk, studentessa del Kennemer College che d’estate fa il bagno nello stesso mare grigio in cui lo fate voi, se non sono un’olandese adesso, allora quando? (Ivi, p.24.)
Ilham conduce la sua vita cercando di liberarsi da un’origine di cui si vergogna. Infatti la povertà dei genitori, l’attaccamento a riti e superstizioni primitivi, la pretesa familiare di progettare il destino delle figlie femmine sono abiti insopportabili nell’Europa del XXI secolo:
Tutti quei divieti. L’infinità di paure che sua madre mette a tacere con gli scongiuri. Le cose che non puoi dire, non puoi pensare, non puoi fare. Sua madre è una contadina, è andata all’aeroporto a dorso di mulo, come dice Thouraya; padroneggia in parte la lingua, in una certa misura è indipendente, ma è inutile combattere contro la sua mentalità primitiva – risponderà sempre che sua figlia è una sfacciata e che le ragazze sfacciate finiscono male. (p. 80)
Scappata di casa per sfuggire a un matrimonio forzato, Ilham è quella in cui la faglia identitaria tra mondo delle origini e mondo occidentale non si cicatrizza; nonostante l’emancipazione raggiunta – vive e lavora a Rotterdam come consulente di bellezza – il rapporto con le sue radici resta un nodo irrisolto e doloroso che riaffiora in molti punti del romanzo.
Dunque la scelta del Marocco come luogo dove trascorrere una vacanza fa detonare le opposte istanze che la coppia di amiche si portano dentro:
Erano figli di due regni, avevano il passaporto verde del Royaume du Maroc e quello color minio del regno dei Paesi Bassi, ma in entrambi gli stati erano prima di tutto e soprattutto stranieri. (p. 24)
Infatti Ilham e Thouraya giungono nel paese in veste di turiste occidentali, ma sono ospitate da lontani parenti; spigliate e disinvolte, perfettamente autonome in Olanda, qui accettano di farsi accompagnare da giovani connazionali di origine magrebina: non è facile, per le donne, muoversi da sole in un paese africano. Sono disposte a girare per i quartieri e i suk, ma il caldo, la povertà e la sporcizia producono un senso di ripugnanza e di compassione, unito al sospetto che “fosse colpa dei poveri se erano costretti a vivere così”. I non luoghi del tempo libero globalizzato sono le oasi in cui riprendere contatto con l’occidente: “A volte si rifugiavano nei McDonald’s, al fresco. Il mondo che conoscevano, il wi-fi gratis.”
La pietra d’inciampo che pone definitivamente le ragazze di fronte alla loro identità incerta è costituita dall’incontro con Murat: o almeno così è per Ilham, dal momento che Thouraya lo vive con un disincanto misto a cinismo. A pochi giorni dal rientro in patria è il connazionale Saleh – giovane dalla reputazione dubbia – a portare le ragazze a visitare “il vero Marocco”, come lui stesso dichiara. Inoltratosi in una baraccopoli, le accompagna a casa di Murat dove la madre stessa le implora di portare il figlio con loro al di là dello stretto di Gibilterra:
La donna anziana si alzò dal divano e cadde in ginocchio ai suoi piedi. Le piccole croci, i punti e le linee tatuati sul suo viso dovevano essere lì da un’eternità, l’inchiostro era sbavato e scolorito in un blu pallido. La donna le abbracciò le gambe e la supplicò. […] [Ilham] Capiva quello che rappresentava per lei – un barlume di speranza, una via di fuga, il futuro – e si vergognò. (p. 39)
Infatti se la ragazza comprende bene l’arditezza di un progetto che la farebbe complice di un ingresso clandestino (“Usiamo la vostra auto. Murat nel bagagliaio, la roba sopra, tutto qui. Un sacco di marocchini se ne va così. Succede di continuo” p. 38), dall’altra le si fa strada la consapevolezza che la sua stessa vita sarebbe potuta essere ben diversa se i genitori non avessero corso il rischio di attraversare il braccio di mare che separa Africa e Europa:
Se i suoi genitori non avessero osato affrontare la traversata, forse sarebbe stata nelle stesse condizioni di quella donna in ginocchio, di quella famiglia disperata che odorava di povertà. Un amaro senso di colpa le montò dentro – lei, ingrata, che dalla vita aveva avuto tutte le possibilità e ora le negava a un altro. (Ivi, pp. 39-40)
Sarà proprio il prevalere del senso di colpa a far sì che Murat Idrissi venga fatto salire nel bagagliaio dell’Audi noleggiata per il viaggio.
Il pregio del romanzo non sta tanto nella “trama” – la morte di Murat è annunciata fin dal titolo – ma nei frequenti accostamenti dei piani temporali: a un passato che può essere molto lontano (i ricordi legati all’emigrazione delle famiglie) si affianca quello recente della vacanza, percepita a poche ore di distanza dalla sua conclusione come remota al pari di un’era geologica, visto il tragico esito.
Allo stesso modo il romanzo alterna continue domande sulle “possibilità”: che cosa differenzia il destino di Ilham e di Thouraya da quello di Murat, se non il fatto di essere nati in due continenti che la storia geologica ha separato? E perché Murat non ha diritto a giocare d’azzardo con il suo futuro in un paese che promette fortuna e ricchezza? Chi sono loro, per non offrirgli una chance? E, al contempo, come rendersi complici di un’immigrazione clandestina?
E, infine, che fare con il corpo senza vita che si ritrovano nel bagagliaio dopo che Murat muore di asfissia? Che cosa diventa, per loro, quell’ammasso di carne che emana il suo fetido odore di morte nell’abitacolo?
In La morte di Murat Idrissi Tommy Wieringa sembra riprendere due delle tre parole chiave fondamentali in Questi sono i nomi (2014) – libro che gli è valso il Premio Strega europeo 2015 per l’intreccio tra i temi dell’identità ebraica e della migrazione – ossia speranza e disperazione: l’oscillazione tra questi poli è determinata proprio dalle possibilità che i personaggi chiave di questo libro hanno avuto o sfiorato o mancato. Tuttavia manca la terza parola che innervava il precedente romanzo: “redenzione”. La morte di Murat Idrissi, infatti, è un libro che non rassicura e non dà risposte edificanti: le identità sospese dei ragazzi di seconda generazione, desiderosi di un’assimilazione che li porta a rinnegare le origini, interrogano l’Occidente sul prezzo da pagare per raggiungerla; ma interroga l’Occidente anche il corpo di Murat, “nient’altro che un ceppo annerito o un telo di plastica disperso dal vento della distesa sconfinata” (p.124).
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