«Riscrivere» il massacro di Alatri. Daniele Vicari, Emanuele nella battaglia
La Ciociaria e l’Alta Sabina. La Riserva dei Monti Cervia e Navegna. Il monte Filone. È la parte più interna dell’Italia mediana, il territorio impervio degli Appennini, dove le stradine interpoderali scavano ancora percorsi con una logica loro. A sud Frosinone e la sua provincia. Ferentino, Alatri. Tecchiena, frazione di Alatri. Borghi antichi, viottoli e piazzette. Luoghi in cui la storia si è fatta, anche quella recente. Tecchiena era sulla linea del fronte, durante la seconda guerra mondiale. A Tecchiena stava il campo di internamento delle Fraschette, costruito dai fascisti. Tecchiena è anche il punto più arretrato, interiormente e intimamente arretrato, della vicenda di cronaca che il regista Daniele Vicari racconta nel libro Emanuele nella battaglia.
La cronaca
È la notte tra il 24 e il 25 marzo del 2017 quando Emanuele Morganti, ventunenne di Tecchiena, decide di trascorrere la serata al music club Miro di Alatri, insieme ad alcuni amici e alla fidanzata. Il locale è pieno zeppo, così come la piccola piazza antistante, che trabocca di persone e di auto. Il Miro attira clienti da ogni angolo del comprensorio, e ci si ritrovano tutti. Bravi ragazzi come Emanuele e tipi discutibili. Chi ha semplicemente voglia di divertirsi e chi, ubriaco e strafatto, cerca solo un pretesto per menare le mani. E ancora: piccoli boss e spacciatori. In questo intrico di intenzioni, mentre si trova al bancone del locale, Emanuele, senza alcuna motivazione, viene ripetutamente spintonato e successivamente aggredito. È il prologo della follia che si scatena di lì a poco fuori dal locale, quando Emanuele viene “abbandonato” dai buttafuori nella piazza e di fatto consegnato ai suoi aggressori. Qui diventa il solo e unico bersaglio di un branco di picchiatori feroci fuori controllo che lo insegue, sotto lo sguardo di decine di persone. C’è un momento in cui potrebbe scappare e mettersi in salvo, quando riesce a sfilarsi dall’imbuto in cui era finito al termine di via dei Vineri, una delle viette che immettono sulla piazza del Miro. Eppure non lo fa. Torna indietro verso il locale, paradossalmente nella direzione da cui proviene un’altra parte dei suoi aggressori, perché vuole ritrovare la sua ragazza. Ci riesce, ma tempo qualche istante e si ritrova di nuovo invischiato nella rete, di nuovo brutalmente colpito, finché non cade battendo il cranio contro il sottoporta di un’auto in sosta, ironia della sorte quella del suo primo aggressore. Emanuele Morganti, come racconta Vicari in apertura del libro, morirà il 26 marzo in ospedale. Questa, spicciola, la cronaca dei fatti come riferiti nel libro. Tuttavia Emanuele nella battaglia non è un reportage su un fatto di cronaca.
Sono due le istanze che sostengono la scrittura e che determinano anche la struttura del testo e le sue caratteristiche linguistiche. La prima è un’istanza narrativa, che si misura con la quasi impossibilità di raccontare in modo logico e consequenziale la dinamica di un evento cui hanno assistito decine di persone, include la cronaca ma non si esaurisce in essa, poiché l’autore tenta di ricostruire attraverso il racconto soprattutto l’universo simbolico entro il quale è stato possibile l’omicidio. La seconda istanza è speculativa, si sostanzia in conclusioni enunciate in modo esplicito nella parte centrale del testo e riguarda il rapporto tra la realtà e le attuali forme della sua rappresentazione artistica, segnatamente letteraria e cinematografica.
Melissa nella battaglia
L’istanza narrativa è sviluppata principalmente, ma non solo, attraverso il punto di vista della sorella di Emanuele, Melissa Morganti, che nel libro (e nella realtà) conduce un’inchiesta parallela alla magistratura. Se è vero infatti che alcuni dei principali responsabili della morte di Emanuele vengono arrestati quasi subito a Roma, proprio questo arresto complica le indagini, poiché solleva il tappo su una rete di illeciti del territorio. Per convenienza, paura di ritorsioni, indifferenza, superficialità, nessuno sembra voler parlare. Da questo concentrato di silenzi, omissioni, voci omertose, o comunque sfuggenti, detonano però i racconti dei media e dei social, nella forma di vere e proprie narrazioni pirotecniche. Di volta in volta una situazione, un personaggio, un punto di vista esplode attraverso le spettacolarizzazioni massmediatiche e rilascia un pulviscolo di dettagli che non si incastrano. È il caso ad esempio di quando sui media si fa strada l’ipotesi che Emanuele sia stato ucciso per uno scambio di persona e che gli aggressori volessero colpire il suo migliore amico Gianmarco (l’unico intervenuto fisicamente in sua difesa durante il pestaggio). Solo una delle innumerevoli bombe mediatiche che inevitabilmente condizionano le persone coinvolte. In questo caso il rischio è che i rapporti tra Gianmarco e la famiglia di Emanuele si incrinino, come le poche certezze dei Morganti. Così Vicari segue passo passo l’inchiesta di Melissa, i suoi incontri con le persone coinvolte, nel tentativo di districare contraddizioni e incongruenze.
L’inchiesta dell’autore
Ma quella di Melissa non è la sola inchiesta del libro. Alla sua si sovrappone l’inchiesta dell’autore, e questo rappresenta anche il tentativo di mediazione tra l’istanza narrativa e quella più spiccatamente speculativa. Daniele Vicari conosceva personalmente Emanuele Morganti. La madre di Vicari gestisce un bar a Collegiove — paesino in provincia di Rieti — che è una sorta di inevitabile approdo per i cacciatori del comprensorio. Emanuele era un cacciatore e passava spesso di lì con il padre. L’ultima volta due settimane prima di morire, quando aveva appunto incontrato Vicari. Da uno choc personale si genera quindi in primo luogo l’esigenza del regista di raccontare questa storia e di farlo evitando consapevolmente il medium che per lui sarebbe più naturale: la telecamera. È come volersi sottrarre alla tentazione di utilizzare un mezzo più accessibile ma che appare in qualche modo contaminato, nella misura in cui, come detto sopra, è capace esso stesso di condizionare la realtà. Così Vicari decide di seguire un’altra strada, quella della scrittura. La sua inchiesta però ha una portata più vasta di quella di Melissa e dalla piazza di Alatri, dove è avvenuto il pestaggio, si allarga a un intero territorio. Se Melissa scansiona centimetro dopo centimetro quella piazza e passa al setaccio ogni frammento connesso, Vicari scandaglia il territorio, il sistema delle sue relazioni sociali e la relazione che le persone instaurano con i luoghi stessi. La geografia è uno degli elementi più presenti nel testo, una geografia densa, moderna, profondamente umana. Ogni personaggio, per quanto a tratti troppo schematico e schiacciato su un singolo aspetto, è comunque portatore di un punto di vista relazionale con i luoghi e attraverso l’emersione di questi punti di vista (la madre e il padre di Emanuele, Gianmarco, suo zio Andrea, le persone al bar di Collegiove, e così via) il territorio non solo prende forma ma fatti e comportamenti assumono una loro significazione più autentica. È la provincia profonda dell’Italia interna, un territorio in vertiginosa perdita di identità, sulla cui base contadina e patriarcale — come dice esplicitamente Vicari — «la modernità ha aggiunto solo caos», a Tecchiena ad esempio. O Alatri, dove il caos è fatto di «piccoli traffici» e «piccole meschinità» in cui lo spaccio di stupefacenti è una solida realtà. Lo è a Frosinone, dove scandisce la vita di interi quartieri, come quello del Casermone. L’operazione che consapevolmente compie Vicari quindi è quella di cercare di tenere insieme i pezzi di questo universo complesso in cui si muovono tutti i protagonisti della vicenda e riannodare le connessioni profonde tra luoghi, fatti e sistemi simbolici che la narrazione massmediatica recide. Nel quadro generale ricostruito da Vicari la morte di Emanuele Morganti cessa quindi di essere un fatto brutale quasi casuale e diventa spiegabile.
Come in un gangster movie
Qualche anno prima dell’omicidio uno dei principali imputati per la morte di Emanuele nel processo di primo grado aveva partecipato alla realizzazione di un film amatoriale dal titolo Uomini di Rispetto, le cui prime scene sono ambientate proprio nella piazza di Alatri dove Emanuele è stato ucciso. Il film racconta la storia dell’ascesa della banda criminale di tale Brigante, che da Alatri intende estendere il suo controllo sull’intera Ciociaria. Il film ricalca personaggi e situazioni di Romanzo Criminale, la serie tratta dal libro di De Cataldo. Da un’osservazione di Melissa nel testo — «A me, Danie’, non mi so’ mai piaciute le serie tipo Romanzo Criminale e Gomorra» — Vicari riflette sulla portata di questi meccanismi di identificazione, che hanno ormai portato alcuni personaggi a far parte dell’immaginario collettivo. Un immaginario in cui assassini e spacciatori finiscono per diventare quasi simpatici, nella misura in cui combattono contro un male — uno stato corrotto — peggiore di quello da loro «generato», in qualche modo presentati come «vittime del sistema».
Vicari critica apertamente la «falsa coscienza» che si origina dai gangster movie sul modello di Gomorra e Romanzo Criminale, ma anche Godfather, Scarface o Goodfellas, e riferisce che alcuni aggressori di Emanuele, secondo alcune testimonianze, poco prima del pestaggio avrebbero recitato dentro al Miro alcuni dialoghi della serie Gomorra, a dimostrare proprio quanto siano ormai pervasivi certi modelli. E comunque, anche al netto di questi riferimenti che pure incredibilmente esistono, nella tesi dell’autore Emanuele è stato ucciso perché, in modo del tutto inconsapevole, ha sfidato chi nel contesto di Alatri era portatore di un sistema di valori fatto di illegalità, onnipotenza, intoccabilità, sopraffazione. Emanuele era di Tecchiena, non sapeva in chi si era imbattuto, a chi aveva osato opporre la sua resistenza prima al bancone del Miro e poi fuori, perché non conosceva i suoi aggressori, per questo torna indietro per riprendere la fidanzata, quasi sfidando la sorte.
Ma i suoi aggressori non erano «persone comuni».
Un tentativo in bilico
Dunque, nel rimettere al centro del suo racconto la vittima, Vicari cerca di affrontare il nodo cruciale del rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione. Tuttavia, in questo tentativo, il libro rimane in certa misura irrisolto, dal momento che pur inquadrando con grande lucidità i termini dei problemi connessi al ruolo della stampa e alle stesse rappresentazioni cinematografiche o letterarie, resta come in bilico tra la forma del romanzo-saggio e quella del romanzo realistico di stampo tradizionale, con conseguenze importanti soprattutto sull’equilibrio tra le diverse parti narrative. L’autore riflette consapevolmente sul suo ingresso nella storia e sulle motivazioni stesse che lo portano a iniziare la sua inchiesta, si confronta con il lascito morale di Cesare Zavattini, che ad Alatri ha studiato, e del Neorealismo in generale, eppure resta come schiacciato dalla voce dei personaggi, da un lato, e dal peso delle parti documentarie dall’altro. Nel complesso la voce dell’io narrante, che dovrebbe sovrintendere all’intero racconto, risulta alquanto debole, per cui si ricava l’impressione generale di una certa dissonanza tra le parti in prima e quelle in terza persona, nelle quali il punto di vista si sposta sui personaggi. Questa impressione generale è in certa misura accentuata anche dai numerosi inserti in corsivo, nei quali l’autore lascia parlare i personaggi in prima persona, riferendo commenti e considerazioni da loro formulate nel momento in cui hanno interloquito con lui. Si tratta di inserti che non sempre hanno la stessa necessità sul piano narrativo. Tuttavia — e prova ne è anche il lavoro minuzioso e accurato che l’autore compie sulla lingua, che include molteplici registri e varietà — Emanuele nella battaglia è un libro importante, perché tenta consapevolmente di percorrere la via di una letteratura che responsabilmente si interroghi sul presente, senza deflettere da un atteggiamento di profonda eticità.
L’articolo tiene conto dei soli contenuti del libro Emanuele nella battaglia. Non entra nel merito dell’accertamento della verità processuale, per la quale, dopo la sentenza di primo grado, si attende l’avvio del secondo grado di giudizio.
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