Como, due preti, i poveri e una città
Como, 15 settembre 2020 ore 7.00: Don Roberto Malgesini viene trovato morto in piazza San Rocco. L’assassinio si è costituito subito: si tratta di Ridha Moumudi, un uomo tunisino di 53 anni, in Italia da 27, irregolare dal 2006. Quella stessa mattina avvicina il parroco mentre distribuisce le colazioni ai senzatetto, gli chiede aiuto per poi pugnalarlo alle spalle: all’origine del gesto il timore di essere rimpatriato.
Como 20 gennaio 1999 ore 15.30, Don Renzo Beretta viene soccorso dal suo vicario, morirà mezz’ora dopo all’Ospedale S. Anna di Como. L’assassino, dopo aver fatto perdere le sue tracce, verrà catturato in serata: si tratta di Abdel Lakhoitri, un uomo marocchino di 31 anni, senza permesso di soggiorno. All’origine del gesto il rifiuto da parte del parroco di consegnare 60000 lire per un biglietto del treno.
20 gennaio 1999 – 15 settembre 2020
Gli sciacalli si nutrono di morte, la celebrano e la trattano come fosse proprietà loro, fanno a pezzi i cadaveri e se ne servono gettandoli un po’ qua e un po’ là per i loro comodi.
In un attimo sono ripiombata in quel giorno di gennaio in cui la nonna picchiava la testa sul tavolo e strozzava il dolore in gola (al nord non si urla la morte -sta male-, la si fa esplodere dentro): “Al po mia vess, al po vess mia” (Non può essere, non può essere). Fuori suonavano le campane a morto, sul pianerottolo della casa parrocchiale stava una pozza di sangue. La Svizzera era a poche centinaia di metri; Como, la bella città sul lago, qualche chilometro più a sud, lontana: vivevo lì sulla frontiera.
Ventuno anni dopo, don Roberto esce dalla sua Chiesa di San Rocco, centro città, non il centro dei turisti affacciato sul lago, ma quello periferico, dei quartieri multietnici. È una mattina dell’anno disgraziato 2020, nella sua Panda ci sono le colazioni da distribuire ai senza tetto. Poco dopo le 7.00 suonano le campane a morto: don Roberto è a terra in una pozza di sangue.
Entrambi i sacerdoti conoscevano e avevano aiutato i loro assassini: due stranieri irregolari, con decreto di espulsione, due barboni, due violenti, due disperati, due sbandati, due poveri, due menti fragili. Due uomini.
Gli sciacalli arrivano in branco e banchettano con queste due morti, celebrano come martiri quelli che in vita hanno sempre osteggiato e la storia che accomuna i due assassini, stranieri, irregolari, senza fissa dimora, è un piatto ghiotto per le loro narrazioni di paura e violenza.
Del funerale di don Renzo ricordo le telecamere accese a spiare gli abbracci e le lacrime, gli sguardi smarriti di chi lo aveva conosciuto, gli strepiti di chi ha sempre la soluzione in tasca e le facce di quelle stesse istituzioni che lo avevano lasciato solo quando, qualche anno prima, aveva deciso di aprire il centro di prima accoglienza.
E allora i social non esistevano ancora.
Ho ricevuto tutto, tutto appartiene a chi è nel bisogno (dal testamento spirituale di don Renzo Beretta)
Martire vuol dire testimone, lo sanno anche i muri. La parola è legata a doppio filo alla morte, come se la testimonianza si rafforzasse attraverso il dolore. Io penso che don Renzo e don Roberto siano uomini di vita, la morte non li ha resi più grandi, non ha aggiunto nulla alla loro persona: è solo un fatto drammatico successo. La loro testimonianza è la vita.
Non conoscevo personalmente don Roberto, valtellinese schivo e dalla voce sottile, che ha dedicato la sua vita ai poveri e se ne prendeva cura insieme ai volontari, ma sono cresciuta nella parrocchia di don Renzo Beretta e ho scelto di insegnare anche grazie ai libri che ci mise in mano, alle discussioni che ci costrinse a fare, a quella tessera della biblioteca che ci impose, a quegli agosti afosi in cui affidava a noi quattordicenni il compito di insegnare ai più piccoli.
Come per don Roberto, anche per don Renzo allora si cercò uno slogan: prete degli ultimi, dei disperati, degli stranieri, degli emarginati. A noi piacciono le etichette: classificano, semplificano, restano in mente e stanno bene in prima pagina. La realtà è che entrambi avevano nel Vangelo il loro imperativo categorico, erano pastori di uomini e donne, persone felici di fare quello che avevano scelto di fare: “il regalo più grande che Dio ci ha dato è il libero arbitrio, la possibilità di scegliere di rinnegarlo. Solo se ami con coraggio qualcuno lo lasci così libero”, mi diceva sempre don Renzo.
Non ho mai amato la retorica del missionario, dell’eroe solitario e controcorrente, tutto dedito alla sofferenza e al sacrificio, che sfida il perbenismo e la cattiveria del mondo, don Renzo amava quello che faceva, per lui non c’era altro modo che l’accoglienza e la porta aperta: per noi ragazzini che volevamo vedere i Goonies la domenica pomeriggio (e lui aveva il videoregistratore!), per gli operai lasciati a casa dall’industria tessile, per i tossicodipendenti che dimoravano sulle panchine della chiesa, per i migranti che arrivavano dal Maghreb e dai Balcani in fiamme. “Quando uno bussa alla mia porta io non chiedo la carta d’identità. Io non sono un politico, non devo pensare a come risolvere i problemi, io devo affrontarli e per farlo devo accogliere”, mi diceva spesso. Né don Renzo né don Roberto erano soli, con loro c’erano comunità intere in cui sono stati pungolo, esempio, occasione di scontro e guida verso una strada diversa. Lo sanno bene i volontari che hanno lavorato fianco a fianco con loro, la loro scelta radicale e le loro personalità scomode.
La complessità del mondo
C’è una poesia di Danilo Dolci che termina con questi versi:
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Don Renzo ci ha sempre messo davanti alla complessità del mondo, alla necessità di interrogarsi, scavare, capire; non importava quanti anni avessimo, non ha mai edulcorato nulla, se eri bambino ti parlava semplice, ma ti diceva la verità. Nell’irruenza dei miei 12 anni un giorno mi scagliai contro Giuda, il traditore, don Renzo sorrise e iniziò, come sempre faceva, a mostrarci la questione da un’altra prospettiva, ci raccontò quello che il Vangelo non diceva: la realtà di Israele, le fazioni, gli Zeloti, il significato dell’attesa messianica per ciascun gruppo politico. Poi si fermò, ci guardò e ci disse: voi cosa avreste fatto?
In lui tutto era realtà e complessità.
Né don Renzo né don Roberto erano irresponsabili e sognatori: entrambi stavano nel reale, conoscevano i loro poveri ed erano ben consapevoli delle difficoltà di chi vive per strada. I poveri non sono né buoni né cattivi: sono sporchi, puzzano, si arrabbiano, non sono docili, ci dà fastidio vederli, ci provocano pensieri brutti, ci mettono in discussione. Per don Renzo aiutare un povero era, anzitutto, donargli umanità e speranza. Era una persona estremamente pragmatica: “Non sono un romantico: siamo persone, siamo cristiani, conosciamo il detto del Signore: ‘Quanto hai fatto a uno di questi, l’hai fatto a Me’. Io, prete, qui, devo essere, almeno, la Sua Ombra… Non posso barare. E chi, e quale legge ci può impedire di ‘aiutare’ questa gente allo sbando?”
Al nipote che lo pregava di stare attento, che gli chiedeva se non fosse pericoloso, rispondeva che sapeva bene quello che faceva e…”Pericoloso pericoloso, pochi giorni fa sono corso, ho sentito urlare e qui sul sagrato c’era un’immigrata che stava partorendo”. Chi dedica la sua vita agli altri non può che essere uomo o donna di vita.
La mia città e i poveri sotto al tappeto
Como è una città di 85000 abitanti, ci sono Clooney, il lago, il centro medievale, le ville specchiate sull’acqua, la città dei Balocchi a dicembre, i ristoranti e gli eventi che devono chiudere alle 23 per non disturbare anche d’estate. E ci sono anche i poveri, i senza fissa dimora: molti sono stranieri, la vicinanza con la Svizzera è un sicuro richiamo per i migranti che sperano di andare in nord Europa, ma la confederazione elvetica da sempre seleziona quali stranieri far entrare e molti vengono ricacciati subito in Italia. Le istituzioni della mia città non hanno una spiccata vocazione sociale, lo dicono bene i volontari di Como Senza Frontiere nel comunicato per la morte di don Malgesini, in cui accusano le istituzioni, che dovrebbero esistere per evitare queste tragedie e per contrastare odio e violenza, di aver lasciato solo il parroco e di non essersi preoccupate e occupate dei bisogni di tutte e tutti gli abitanti della città, lasciando al volontariato di farsi carico di problemi che sono il Comune potrebbe risolvere.
Le divisioni all’interno della città appaiono chiare nella posizione della rete di cittadini Como ai comaschi, che, al contrario, imputa alla giunta di non aver fatto alcunché per risolvere il problema o soddisfare le richieste di sicurezza. E proseguono: Certo, partecipiamo fortemente al cordoglio per commemorare Don Roberto Malgesini, aggiungendo però che quella mortale coltellata poteva capitare ad ognuno di noi e che purtroppo altre ce ne saranno, se non verranno attuate misure straordinarie per il mantenimento dell’ordine pubblico per la nostra sicurezza in quella zona ad altissimo rischio (sono 3 anni che lo diciamo!!!).Quindi, chiedevamo e chiediamo risposte concrete come la presenza massiccia di forze dell’ordine in tutto il quadrilatero!Il tempo delle giustificazioni (se un uomo bianco uccide un immigrato è razzista, se un immigrato uccide un uomo bianco ha problemi psichici) è finito!!!Torneremo presto in piazza San Rocco!
La mia è la città in cui
- 1999, don Renzo Beretta viene ucciso da un immigrato:
- 2006, per risolvere la questione dei writer viene creato il nucleo anti writer, finirà con un vigile che, per errore, sparerà alla testa di un ragazzino cingalese di 17 anni
- 2017, Faycal Hatot dà fuoco a sé e ai suoi quattro figli, temeva di perderli a causa della povertà
- gennaio 2019, 17 ragazzi capeggiati da tre minorenni vengono arrestati con 38 capi d’accusa tra furti, rapine, ricettazione, estorsione
- settembre 2020, don Roberto Malgesini viene ucciso da un immigrato.
Di fronte a un episodio di violenza esistono due tipi di responsabilità:quella personale, che ricade tutta su chi lo compie, e quella sociale, che riguarda il contesto in cui tali fatti si verificano. Possiamo dire di aver fatto di tutto per non creare i presupposti per fatti simili? L’amministrazione di questa città si è davvero impegnata per arginare la povertà, per una politica di emergenza e di prevenzione al disagio? Ha dialogato con le tante associazioni che da anni lavorano sul territorio e ha provato a creare una rete e una progettualità condivisa?
La scelta della giunta comasca di centrodestra è quella di affrontare la questione sociale mettendola sotto il tappeto o provando ad estirparla con tolleranza zero: multe ai clochard e a chi li nutriva, confisca dei cartoni, rimozione di panchine e bagni chimici, rifiuto dell’apertura di un dormitorio, filo spinato tirato e acqua potabile interrotta in un parcheggio semi deserto in cui avevano trovato rifugio i disperati. Una storia è paradigmatica e riguarda don Roberto: nell’inverno del 2017 il sindaco vietò la distribuzione di cibo ai senza tetto che dormivano sotto i portici del salotto buono della città, Don Roberto e i suoi volontari continuarono ogni mattina a portare le colazioni furono multati, anche se la sanzione venne archiviata.
Un certo pensiero strisciante recita che lavorare in un contesto di violenza implica questi rischi e che, come nella favola dello scorpione e della rana, i poveri per loro natura uccideranno chi li aiuta. Ma se provassimo a ribaltare la questione? Quanti episodi di questo tipo sono stati evitati proprio perché don Renzo e don Roberto si sono fatti carico e hanno provato a contenere e risolvere la situazione? Quanta disperazione è stata ridotta da un gesto umano? Creo più sicurezza col filo spinato o dando da mangiare a 100 persone che si sentiranno accolte e non trasformeranno la disperazione in violenza? Creo più sicurezza cacciando e respingendo, togliendo acqua e panchine, o provando a creare le condizioni perché nasca la speranza, molla eterna di cambiamento?
So bene che la questione è complessa, ma so anche che gli uomini non sono scorpioni.
E ora?
Nel 2017 don Roberto scrisse nella sua omelia di Natale: “Ho visto togliere panchine e sanitari in una piccola piazza della mia città dove giovani migranti trovavano un po’ di sollievo durante il giorno (…) Ho visto emettere una ordinanza per scacciare senza tetto che chiedevano un po’ di attenzioni ai turisti e alla gente ricca che festeggiava Natale e il nuovo anno. Ma ho visto anche dei fratelli continuare ad aiutare gli scacciati, passando silenziosi oltre le minacce delle autorità o della maggioranza del popolo, storie di relazioni, di scambi, di gioie e dolori condivisi che ci ricordano che non esistono separazioni e divisioni. Non esiste il benefattore e il bisognoso di aiuto. Esistono solo fraternità, cura e l’affetto reciproci». Il feretro di don Roberto è nella sua piazza, ci sono i suoi poveri che lo chiamano padre e fratello, ci sono i suoi parrocchiani, ci sono i suoi volontari. Al funerale di d Renzo c’era un uomo in fondo al Duomo che piangeva: aveva una tuta rossa, lercia e lisa, stava appoggiato al muro. Non l’avevo mai visto, non l’ho rivisto più. Piangeva a dirotto e non toglieva gli occhi dalla bara.
L’eredità di don Roberto e di don Renzo è questa: i legami, il seme che hanno gettato in noi, quella spinta all’amore gratuito, all’umanità. Ma anche la consapevolezza che tutto ci tocca, che non possiamo rifiutarci di stare nel mondo e che dobbiamo pretendere scelte politiche coraggiose e umane. Non sciacalli.
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