La traduzione: il come e i perché
Ascoltare i traduttori che parlano di traduzione, per chi esercita questa professione, è un’esperienza assai frequente. Accade alle presentazioni di libri, alle riunioni di lavoro, ai saloni dell’editoria; accade anche fuori dalle sedi ufficiali, agli incontri conviviali, alle cene, ogni volta sia presente un numero anche ridotto di professionisti del campo. Persino se i traduttori non sono più di due si parla di traduzione, talvolta anche in luoghi e situazioni impensabili. Del resto la traduzione al giorno d’oggi è un argomento molto studiato e di cui molto si scrive, e sempre più spesso – per fortuna, direi – sono proprio i traduttori a scriverne, mostrando una presa di coscienza e un senso di riappropriazione di spazi mentali nei quali vivono la loro quotidianità. Ma di cosa parlano davvero i traduttori quando parlano o scrivono di traduzione?
Quando ho accettato di concludere questa serie di interventi con qualche mia riflessione ero incuriosito all’idea di confrontarmi con altri punti di vista paralleli al mio, perché ogni traduttore ha il suo personale percorso, la sua singolare pratica di una quotidianità mai uguale, i suoi modi, le sue idee: due diversi traduttori di fronte allo stesso testo ne proporranno inevitabilmente due diverse interpretazioni, diverse perché due traduttori uguali non esistono. Due diversi traduttori hanno anche necessariamente modalità di lavoro diverse. Avendone incontrati molti, so che c’è chi teme di non riuscire a concludere in cinque mesi le 300 pagine previste e chi invece ne macina quasi il doppio in metà del tempo e la fa anche buone; chi è tormentato dalle revisioni e si rilegge sette volte consegnando alla fine solo con grande sofferenza e chi invece è “buona la prima” (o quasi), salvo un paio di riletture per aver la coscienza pulita; pare invece ormai estinta la categoria estrema di coloro che, decenni fa, pestando sui tasti della macchina da scrivere lavoravano praticamente in bella, perché ribattere una revisione era fatica fisica e quindi per correggere c’erano solo striscioline di carta incollate, o più tardi il bianchetto. C’è chi legge l’intero testo prima di cominciare e prende appunti sul lessico, e chi invece no, se non ha già letto, perché è tempo perso e non pagato. C’è chi addomestica molto, a fronte di chi invece non riesce a staccarsi dal testo di partenza cui fa voto di fedeltà. Tutte modalità di lavoro estremamente variabili, perché ovviamente dipende anche dal libro, dalle difficoltà, dal momento, dal contesto editoriale, perché ogni testo è una nuova sfida e richiede un metodo diverso.
Per non parlare poi di come modi e sistemi siano cambiati, perché la traduzione, con i suoi usi e costumi, ha una storia lunga come quella del mondo e talvolta, in una traduzione antica, è persino difficile riconoscere l’originale, che è stato adattato a seconda dell’epoca, della società, del rapporto tra la cultura di partenza e quella di arrivo. Oggi invece la pratica ha raggiunto livelli diversi e la «bella infedele» è un polveroso e inutile luogo comune, un concetto che non ha più ragione di esistere, sempre che abbia avuto, in fondo, una ragione di diffondersi, dato che si tratta di una locuzione forgiata centinaia di anni fa in Francia con un senso assai diverso da quello che oggi le si attribuisce…
È per questo che ascoltare – o leggere – cos’hanno da dire i traduttori è sempre istruttivo: spesso – se e quando scrivono – producono testi densi di esperienze diverse che vale la pena analizzare, e anche se di tanto in tanto – anche tra noi, anche qui – affiorano i cliché del «traduttore traditore» o della «vita agra», le aspettative non restano mai deluse.
Mi preme sottolineare un particolare aspetto che mi capita di notare spesso e che ho visto confermato qui. Per motivi che derivano forse dallo schiacciamento operato dal resto della filiera editoriale, che relega il traduttore ai margini, imponendo tempi e modi – per non parlare delle tariffe –, mai abbastanza sono i traduttori che sottolineano con convinzione il ruolo importante che questa figura riveste per la circolazione della letteratura internazionale. Non voglio trasformare i traduttori e gli scrittori reali in quelli del noto romanzo di Claude Bleton – dove il traduttore scrive l’opera ‘tradotta’, perché lui sa come si fa, e gli scrittori la traducono creando l’‘originale’ −, ma è certamente vero che – come molti scrittori di letterature (attualmente) periferiche sanno, e come Saramago pare abbia affermato una volta – «gli scrittori creano le letterature nazionali, mentre i traduttori scrivono la letteratura del mondo». Ovvero: certo che gli scrittori sono importanti, ma cosa sarebbe il mondo della letteratura senza i traduttori? Senza il ruolo sociale, culturale, linguistico che rivestono le loro scelte, senza la loro funzione di raccordo che cancella le differenze tra le lingue grazie alla capacità di mediare un’opera anche fuori dal testo (credo si chiami traduzione metatestuale). In poche parole, viene spesso sottovalutata l’importanza vitale che ha (e ha sempre avuto), per la circolazione della cultura anche in un mondo globalizzato, questa figura apparentemente così laterale. Tutti gli aspetti non testuali del mestiere sono di rado analizzati – dai traduttori, quando scrivono – come se – i traduttori stessi – si vergognassero di ciò che c’è fuori dal trasferimento linguistico del testo.
Il testo, appunto. È sempre positivo che il traduttore scriva del suo lavoro – positivo che sia anche lui a farlo e non deleghi sempre questo ruolo ad altri – ma spesso è in agguato, anche tra i colleghi, la trappola di limitarsi solo al testo, come se il lavoro non comprendesse molto altro. Sarebbe forse bello – forse anche no –, ma così non è. Tradurre bene è un merito ed è un aspetto importante del mestiere: l’ennesimo luogo comune – in questo caso però giustificato – è che chi non sa tradurre non può fare il traduttore. È un merito perché è essenziale avere le competenze lessicali del «fine conoscitore di navigazione, droga, cavalli e ippica» – come sottolinea argutamente Ilaria Piperno –, competenze che il mediatore deve formarsi di volta in volta e senza le quali non può lavorare. Assieme a mille altre competenze relative al testo: è importante entrarvi sapendone riprodurre lo stile, la musica, il ritmo, il senso, le idee. Questo è il mestiere concreto, noto ai più, mentre il resto – il ruolo sociale della mediazione, per semplificare – pare un intangibile apporto alla cultura di un paese. Ma è davvero intangibile? E se il traduttore non ne parla, chi lo dirà, quanto è importante questo aspetto? E poi, nei fatti, in cosa consiste «il resto» che risiede fuori dal testo?
Trattare i problemi del testo, e solo quelli, induce nel lettore la convinzione che il traduttore si riduca a quell’operatore seduto alla scrivania alle prese con le acrobatiche soluzioni linguistiche – «ma davvero usi il vocabolario, be’, ma allora son capaci tutti…» –, acrobazie che naturalmente tutti i bravi traduttori sono in grado di produrre. Ma che dire invece del lavoro che inizia dalla scelta e dalla consapevolezza delle scelte – e delle non scelte – proprie e altrui relative alla storia di quel testo, di quella letteratura? Che dire della capacità di produrre – scegliere, tradurre, introdurre, presentare – un testo affine alla cultura e all’epoca che lo riceve e pure di proporre – e magari imporre – un testo non affine che può persino cambiare quell’epoca e quella cultura? Un contesto editoriale può cambiare un originale, sicuramente influisce sulla sua ricezione e può destinare l’opera al successo o all’insuccesso.
Chi è in grado di leggere, valutare, tradurre, spesso accompagnare fino alla presentazione, un’opera straniera di qualsiasi letteratura? Trovo preoccupanti le affermazioni dell’editore che «pubblico solo ciò che leggo» e del lettore che «non leggo traduzioni, solo originali» (ne ho incontrati più d’uno di entrambe le categorie), perché costoro avranno orizzonti limitatissimi: senza traduttori o, come avviene in alcuni casi, avvalendosi di traduzioni in altre lingue (non sempre di buona qualità, e poi allora perché non quelle italiane?), chi non è un poliglotta – che sia editore o lettore – si priverà di molte buone letture, nella migliore delle ipotesi sarà vittima di un colonialismo letterario poco più che anglofono.
Che ruolo, dunque, di fondamentale importanza quello del traduttore! Nello splendido Avant-propos all’inizio del terzo volume – il primo pubblicato – della Histoire des traductions en langue française, Yves Chevrel e Jean-Yves Masson rilevano come concetti consolidati che «una lingua si costruisce anche per la sua capacità di accogliere i pensieri stranieri» e che «la traduzione è stata spesso un’occasione per testare i valori consacrati di una società, e soprattutto un potente fattore di ampliamento e arricchimento» per concludere che «gli attori in gran parte molto poco visibili di questa evoluzione sono i traduttori». Questo è il valore del buon traduttore, e non è un valore da poco. Dunque in una traduzione che – in ambito critico – è oramai affrancata dalla linguistica, sarebbe bello se dall’aspetto linguistico – fondamentale certo ma non unico – si affrancassero più spesso anche i traduttori.
Si potrebbe dire, parafrasando la regola delle cinque W del giornalismo, che nella vita quotidiana il traduttore non si occupa solo del come (sì, lo so che questa non è una W): come sanno molti, se non tutti, i miei colleghi, almeno per una parte della propria carriera il traduttore deve mettere in atto una serie di strategie che dipendono dalle W della traduzione. Il fatto è che queste W, quelle che vengono dopo il come, ovvero le questioni fuori dal testo, sono quelle che non compaiono sulla pagina, quelle che non emergono dal contratto e che dunque non vengono nemmeno retribuite. Non ufficialmente, almeno, perché nel curriculum di un mediatore esperto, oltre alla capacità di svolgere il proprio lavoro al meglio della sua professionalità (e ci mancherebbe altro) – ovvero ancora una volta il come –, dev’esserci anche la capacità di dirigere le scelte – il cosa – essendo spesso il mediatore − e in particolare quello che si occupa di letterature (attualmente) ‘periferiche’ − l’unica entità davvero competente nella filiera editoriale. Chi, se non il traduttore, che conosce la cultura e il testo di partenza, può dare un giudizio attendibile su cosa pubblicare oggi?
Ma un bravo mediatore saprà anche quando proporre cosa nel suo paese, perché stimerà che ci sia terreno fertile per pubblicare un’opera inedita o persino per ritradurne una già edita, conscio del fatto, per esempio, che le precedenti traduzioni sono ormai invecchiate, o che sia il momento giusto per fare uscire nel proprio paese un romanzo dieci anni fa improponibile. Di sicuro questo traduttore consapevole saprà anche a chi proporre una determinata opera – il dove, in senso ampio –, grazie alla sua vasta competenza editoriale, evitando così che un capolavoro di oggi o di ieri passi ingiustamente inosservato – perché finito nella collana sbagliata, dall’editore sbagliato –, o sia mal distribuito (aspetto spesso ignorato dal pubblico, ma che lede gli interessi del traduttore, dell’opera e anche dell’editore).
E infine, soprattutto, il mediatore esperto conoscerà il perché delle sue azioni – anzi, al plurale, i perché di tutte le W – e sarà in grado di fare le sue scelte, come afferma Alberto Cristofori, per il quale tradurre è un impegno sociale ed è importante «collocare ogni aspetto della mia attività all’interno di un quadro più generale, che ne garantisca il senso e il valore». Tradurre con un disegno, quale che sia: sociale, politico, culturale. Linguistico, anche, perché molte parole di uso comune in italiano oggi le hanno portate proprio i traduttori imponendo un lessico nuovo a coprire concetti inesistenti nella nostra lingua. E l’hanno fatto sapendo quando e come trasferirlo, quel lessico, arricchendo così ulteriormente una lingua già ricca.
Soprattutto il mediatore sarà in grado di argomentarli, i suoi perché. È proprio di queste argomentazioni che al giorno d’oggi si nutre – e non lo farà mai abbastanza – una parte del dibattito accademico sulla traduzione e sono proprio queste argomentazioni che, a mio parere, è bene siano sempre più trattate da chi traduce, e non, come spesso accade, da chi non conosce dall’interno questa attività ma le ha osservate e studiate dall’esterno. Andando, anche noi, oltre il come e raccontando tutti i perché che abbiamo dentro e che troppo spesso, anche in una situazione come quella attuale in cui il traduttore è tutt’altro che invisibile, rimangono non detti.
Non è un caso se nel Quadro di riferimento per la formazione dei traduttori letterari del network Petra-e compaiono – per il traduttore esperto – descrittori di competenza letteraria e culturale e di competenza professionale quali «contribuisce alla tradizione della traduzione letteraria nella cultura di arrivo» o «contribuisce in modo innovativo al dibattito disciplinare». Se questi sono descrittori destinati alla formazione (ma li usiamo poi davvero nella formazione?), si tratta anche di descrittori delle competenze richieste per svolgere un lavoro di alto livello. Sono competenze che la categoria possiede in larga misura – questa è la mia esperienza, anche leggendo i testi qui pubblicati – ma che spesso sono taciute dai traduttori stessi. Per vergogna? Perché il testo è comunque l’unico campo di battaglia nel quale siamo a nostro agio? Perché, nonostante siano competenze largamente usate, non sono retribuite, non godono del riconoscimento di un capitale né economico né simbolico?
È bene che il mediatore le esprima, queste competenze, lasciando più spazio alle W, anche a costo di sottrarne un po’, se necessario, al come: che la traduzione di letteratura in Italia abbia raggiunto un livello estremamente alto pare oramai un dato inequivocabile, ma spieghiamo un po’ al lettore perché (chi altro potrebbe spiegarlo davvero?), e sono sicuro che alla lunga ne guadagnerà di più – forse in ogni senso – anche il traduttore. Perché l’ultima W che ancora manca è quel chi che mi pare sia il momento si mostri nella propria interezza e nella propria acquisita consapevolezza.
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