Il prologo di un insegnante
È appena uscito per l’editore Aguaplano il volume Insegnanti. Il più e il meglio, scritto dal nostro redattore Roberto Contu anche grazie dall’esperienza del blog. Pubblichiamo il prologo del libro.
«A proposito – soggiunse il burattino –
per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa:
anzi mi manca il più e il meglio.»
(C. Collodi, Le avventure di Pinocchio)
Sono entrato in classe per la prima volta a ventisette anni non compiuti. Ricordo perfettamente il mio primo giorno di scuola da insegnante, come potrei dimenticare. Vengo convocato a inizio ottobre in un istituto superiore, per una supplenza di un mese in Italiano e Storia. Ho in mente il bacio di mia moglie prima di uscire di casa e il maglioncino blu di cotone morbido scelto come quello giusto. Poi i venti minuti di macchina, con la radio accesa ma senza sentire nulla, ebbro della constatazione che finalmente il momento sognato fin dai tempi del liceo fosse arrivato. Parcheggiata l’auto nel grande piazzale gremito di scooter, per un attimo mi scopro felice e mi beo tra me e me: «prof. Contu, suona bene».
Varcata la porta della scuola chiedo degli uffici a una signora in camice blu seduta in portineria. Vengo accompagnato alla segreteria del personale da dove mi spediscono immediatamente in presidenza: il dirigente mi sta aspettando. Non colgo l’anomalia che intendo invece come ineccepibile cortesia. Busso alla porta, il preside mi fa accomodare all’istante. Ricordo il doppiopetto, la cravatta, gli occhialetti da ragioniere. «Benvenuto professore», sento il sole che mi brilla dentro.
In cinque minuti vengo messo in guardia sulla «terribile II e» che ha già collezionato tre consigli straordinari in meno di un mese di scuola. Vengo congedato con un «le auguro buon lavoro professore, vedo che è molto giovane, se la saprà cavare». Non capisco il messaggio come avrei dovuto, saluto con un bel sorriso di gratitudine e mi avvio felice verso il mio battesimo scolastico.
Ricordo vagamente il percorso di avvicinamento alla classe, sono le undici di giovedì mattina, questo lo so per certo perché il dirigente mi ha appena detto che avrei dovuto tenere (aveva detto proprio «tenere») la II e durante le ultime due ore di lezione. Ricordo invece perfettamente l’istante successivo in cui ho aperto la porta dell’aula, come potrei dimenticare.
Mi rivedo impietrito all’epifania improvvisa di una sedia che vola, quasi con un fischio, quasi a toccare il soffitto, da una parte all’altra della classe, lanciata da uno studente contro un altro che per un pelo riesce a schivare il colpo. Così come l’ho detto. Un proiettile di ferro e legno scarabocchiato. Da un lato all’altro della classe. Un fracasso finale indicibile, un’esplosione di ferraglia e compensato.
Dell’immediatamente dopo riesco a ricordare solo che mi limito ad acchiappare d’istinto e in malo modo il lanciatore e che lo trascino in presidenza, con mezza classe urlante al seguito come un gruppo di tifosi prima di entrare nello stadio. Poi lo sguardo stralunato del preside: «professore, già qui, ma che succede?», le poche parole che tento di blaterare, la vicepreside che si palesa, capisce immediatamente e infine sale di corsa al piano. Assicurato il reo al tribunale scolastico dopo qualche minuto vengo invitato a tornare in aula senza troppe spiegazioni, come potrei dimenticare.
Seguono le due ore assolutamente più lunghe e interminabili della mia vita. A un certo punto mi viene pure la geniale idea di chiedere a quel ferino consesso del tutto fuori controllo se conoscessero «a grandi linee» (sic) la storia di Renzo e Lucia. Il caos. Puro e adamantino caos.
Io non lo so come, fatto sta che le due ore, lente come una glaciazione ordoviciana, alla fine terminano. Mi pare di sentire ancora la scarica di adrenalina al suono della seconda e ultima campanella, affogata nel fracasso della fuoriuscita furibonda dell’orda dalla classe. Poi il silenzio. Mi guardo intorno e ho come la percezione che i vetri stiano ancora tremando. Di fronte agli occhi la devastazione dei banchi, delle sedie e delle cartacce ovunque, come dopo un terremoto. Trovo la forza di uscire da quel luogo, come potrei dimenticare.
Scendo lentamente le scale, un collaboratore mi scambia per uno studente attardato e mi rimbrotta di filare via perché deve passare la ramazza. Non ho più nemmeno il fiato per rispondere, accelero il passo. Varco il portone della scuola, senza salutare nessuno, mi accorgo che il maglioncino blu di cotone morbido scelto come quello giusto è zuppo di sudore. Entro in macchina, metto nel lettore il cd di un noto pianista pop particolarmente in voga a quel tempo. Venti minuti di viaggio in silenzio costernato, condito dalla lagna degli arpeggi.
Varcata la soglia di casa mia moglie mi guarda stralunata e chiede immediatamente cosa sia successo. Io mi lascio cadere sul divano e dopo qualche minuto di mutismo le sussurro sottovoce che mi sono sbagliato, che il sogno che ho covato fin dai tempi del liceo non è quello giusto, che insomma forse non sono tagliato per fare l’insegnante, meglio la ricerca.
Anzi, nessun forse, non avrei mai fatto l’insegnante e assolutamente meglio la ricerca, assolutissimamente meglio la ricerca.
*
Diciassette anni dopo il mio primo giorno di scuola, all’inizio di un nuovo anno, mi ritrovo tra queste righe. Perché poi non mi sono dato alla ricerca, perché il giorno dopo sono tornato in classe, perché ho deciso di rimanere a scuola e a oggi, di tante scelte poi fatte, credo che questa sia una delle poche che ripeterei settanta volte sette.
Nel corso di questi anni, oltre a sorprendermi quotidianamente per quello che mi sono trovato a vivere, ho iniziato a condividere in rete qualche idea e qualche esperienza, la maggior parte sul blog Laletteraturaenoi, ma anche sul quotidiano online RomaSette.it. I pensieri si sono moltiplicati e alla fine ho deciso di raccogliere alcune di quelle riflessioni, per un motivo che dirò solo alla fine del libro. Si tratta di contributi nati in momenti e occasioni diverse ma accomunati da almeno tre aspetti che mi pare giusto premettere.
Il primo è che si tratta di esperienze personali, semplicemente dire il proprio per ragionare insieme, proporre un vissuto per suscitare riflessioni, raccontare un fatto per percepirne le implicazioni. Tutto il libro si configura dunque come una lunga chiacchierata, con lo scopo primario di mettere in moto il conflitto delle idee.
Il secondo aspetto, legato al primo, è determinato dalla convinzione che gli insegnanti possano e debbano comunicare il più possibile aspetti decisivi e misconosciuti del proprio lavoro. Parrebbe un paradosso, e in effetti lo è, la percezione di quanto, dai luoghi della vita di tutti giorni fino alle sedi mediatiche dei grandi dibattiti, sembri proprio che tutti abbiano da dire sulla scuola tranne chi a scuola in effetti ci lavora, con effetti finali e nel merito delle discussioni spesso surreali per chi vive ogni giorno la classe.
Infine, terzo aspetto e forse il più importante, si tratta di contributi che in modi diversi hanno a che fare, più che con la prassi, con l’identità di tutti gli insegnanti. Alcuni di essi tentano letture più generali, altri entrano direttamente in aula al fine di dare corpo e realtà a quanto affermato in intenzioni, altri partono dallo specifico delle discipline umanistiche, ma tutti nascono dall’esperienza diretta, reale, giorno dopo giorno dentro la scuola.
Mi piace pensare a ognuno di questi contributi come a movimenti di un perenne moto di approssimazione. Un movimento ben noto a ogni insegnante, a volte fallimentare, spesso felice, necessariamente continuo, al fine di rincorrere quel più e quel meglio che Pinocchio un giorno ha definitivamente preteso da chiunque avesse voluto essere ieri, oggi e domani nella scuola e della scuola.
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