Per Giovanni Verga. Saggi (1976-2018) di Romano Luperini
Oggi si tende a vivere la polemica letteraria come un’offesa personale. E’ probabilmente un segnale del degrado culturale dell’attuale civiltà letteraria del nostro paese. Citare un critico, confrontarsi seriamente con lui, significa solo inserirsi e inserirlo in una dialettica del dialogo. Intollerabile, invece – è infatti più frequente -, è la pratica della damnatio memoriae. Altra cosa ancora, non meno fastidiosa, è la citazione d’obbligo, il salamelecco accademico, la captatio benevolentiae. Al momento di licenziare questo volume debbo confessare dunque anche un’altra speranza: che esso possa giovare, seppure in minima parte, al ripristino di una consuetudine di schietto confronto all’interno della comunità degli studiosi.
Questo volume, uscito per Carocci nel giugno 2019, raccoglie tutti i saggi dedicati da Luperini all’opera e alla figura di Verga dalla fine degli anni Settanta a oggi. Ma non è soltanto una raccolta: è piuttosto una guida sicura fra gli itinerari verghiani, di cui è lo stesso Luperini, nell’introduzione al volume, a tracciare la mappa. Tre sono i percorsi suggeriti: li seguiremo anche noi per orientarci nella materia densa di questi studi che – muovendo da temi e motivi verghiani – disegnano limpidamente un orizzonte ancora più ampio di riflessione, che abbraccia le finalità e il valore civile della discussione critica.
Verga e la modernità
Il mondo moderno, abbandonato dagli dei, impone all’eroe del romanzo borghese la “ricerca di un significato e di un destino” “in uno spazio totale e altro” nel quale i valori tradizionali dell’onore, della patria, della famiglia trasformano o perdono tout court la loro dimensione identitaria, il loro potere aggregante. Sulla scorta della lettura acuta di Lukàcs, Bachtin, Benjamin, Luperini ricostruisce le fasi attraverso le quali si definisce la nuova identità dell’eroe verghiano e le nuove, onerose responsabilità del narratore che ne racconta le gesta senza gloria. Venuta meno l’investitura a vate del narratore epico, ma anche lo sguardo autorevole con cui lo scrittore ottocentesco controlla ugualmente – nei suoi romanzi – narratore e personaggi, venuta meno – cioè – quella organizzazione sociale che autorizzava al suo interno la funzione dell’intellettuale come elemento vitale, il narratore (e l’autore) deve andare in cerca (proprio come l’eroe) di una nuova funzione, di una nuova destinazione, riconquistando la “legittimità di raccontare”. Per lo scrittore-Verga è una doppia sfida: alla sfida che lo accomuna agli scrittori della sua generazione, si aggiunge la sfida alla percezione della propria “inadeguatezza di provinciale” e al senso di colpa che gli provoca la partenza dalla Sicilia, “vissuta come un peccato o una violazione”. Si determina così quell’ “autobiografismo en travesti” che ha nel narratore-testimone di Eva o di Tigre reale il primo tentativo forte di “nascondere l’implicita reale identificazione con il protagonista”: un precedente importantissimo per comprendere il percorso difficile e necessario del “distacco critico dal protagonista”; un “procedimento di straniamento” segnato dolorosamente da una “programmatica distanza fra punto di vista taciuto dell’autore, che segretamente s’identifica nei suoi eroi, e punto di vista esplicito del narratore, che invece li accusa o li guarda da grande distanza”. Si inizia ad osservarlo in Nedda, e poi nei capolavori della prima fase verista: Rosso Malpelo e I Malavoglia. Non si tratta soltanto di segnalare come la soluzione tecnica del narratore-testimone venga adottata da Verga in modi via via più problematici (si pensi al ricorso al punto di vista, spesso malevolo, della gente): Verga opera un rovesciamento vertiginoso, che fa della voce narrante “la voce stessa del mondo incaricata di annientare l’umanità degli eroi”. Lo spessore ideale dell’eroe romantico si infrange contro il cinismo della ricerca del successo economico e sociale e il narratore si trova costretto da un lato a testimoniare il fallimento dell’eroe, dall’altro a ventilare “l’idea che il senso della vita – la sua essenza, di cui l’eroe va alla ricerca nella tradizione moderna del romanzo – non sta davanti, in qualcosa da raggiungere percorrendo la strada del ‘progresso’, ma dietro, nel mondo del passato e in una civiltà ormai periferica”. E’ la contraddizione non solo dell’eroe o del narratore, ma della modernità: essa si configura come una “necessità oggettiva e imprescindibile”, che si paga tuttavia al prezzo del cinismo o (uguale e contrario) di una insanabile nostalgia. I motivi esistenziali e i simboli dell’immaginario collettivo (la famiglia come la roba, il luogo natale come la città tentacolare, etc) si incontrano e si confondono con le istanze politiche e sociali, in quel “groviglio complesso” che è la cifra stessa della modernità.
Simbolo e costruzione allegorica in Verga
La forte componente simbolica presente nelle opere verghiane è dunque solo apparentemente in contraddizione con l’etichetta di “scrittura verista”: già a partire dal 1877 (anno in cui Verga, tornato a Milano, partecipa, dopo l’uscita dell’Assomoir, ai dibattiti sul romanzo, con alcuni scrittori “d’avanguardia” come Capuana, Cameroni, Stecchetti), al centro della riflessione verghiana c’è la ricerca di “una forma inerente il soggetto” (come ripeterà molte volte, anche nella Prefazione a I Malavoglia). E’ qui – sostiene Luperini – che va rintracciato “l’embrione di quella originalissima teoria della necessaria omologia fra livelli sociologici e livelli formali, che doveva indurre non solo all’eclisse dell’autore, ma all’invenzione di una voce narrante ogni volta diversa perché sprofondata nell’ambiente sociale corrispondente”. La “scomparsa della mediazione ideologica e letteraria dell’autore” investe necessariamente la forma di una carica simbolica senza precedenti: se l’opera deve sembrare essersi fatta da sé, i luoghi, i personaggi, gli stati d’animo – appannaggio esclusivo, nel romanzo preverista, del narratore che li descrive – devono emergere dalla narrazione con l’evidenza di un simbolo. Quei luoghi, quei personaggi, pur severamente inquadrati entro le coordinate ideologiche, sociali, culturali dell’ambiente che li contiene o li genera, non lo sono nel senso di una pedissequa corrispondenza documentaria, ma in quello assai più complesso di una equivalenza, di una illusione completa della realtà (come Verga scrive a Capuana), di quella che Luperini chiama “modellizzazione”. Questo trasfigura ma non cancella il “tempo storico” che, nei Malavoglia come altrove, entra nel racconto con date e fatti scanditi da una cronologia lineare, intrecciandosi a una cronologia “circolare, etnologica, astorica”, cui fa da corrispettivo “uno spazio sostanzialmente mitico, eppure circostanziato”. La spezzatura di quel tempo, l’infrazione di quello spazio segneranno l’ingresso nel non-senso della modernità, di cui è tragica rappresentazione la morte di Gesualdo: “a differenza dei Malavoglia, ove la morte si colloca nello spazio di affetti della famiglia e nel ciclo del tempo etnologico e dunque in una dimensione in cui la vita continua, essa si presenta nel Mastro come un annullamento totale o una ‘fine sostanziale’, priva di qualsiasi eco in una solidarietà collettiva. E’ una morte individualizzata, e la perdita di senso della carriera individuale la travolge nella stessa crisi: ormai la scomparsa dell’io coincide col nulla. Se ogni romanzo contiene un’allegoria fondamentale, l’allegoria del moderno che esce dalle pagine del Mastro è la morte”.
Il terzo spazio dei vinti
La rinuncia allo spazio mitico eppure circostanziato, che aveva caratterizzato la narrativa verghiana sino a I Malavoglia, rappresenta “una mossa strategica di grande rilievo” ed è sicuramente ‘Ntoni Malavoglia ad incarnarne il senso più profondo: “Verga non ha puntato su Alessi che pure riscatta la casa del nespolo e potrebbe dare un nuovo inizio al ciclo della saga malavogliesca. Ha scelto invece ‘Ntoni, che si distacca dal mondo arcaico-rurale della tradizione e si inoltra in quello – senza pace e senza valori – della modernità”. Proprio questa mossa trasforma la saga familiare in romanzo moderno, dove l’eroe è “in crisi, scisso, problematico, alla ricerca del senso della vita” e “permanentemente sulla soglia”, in bilico fra due mondi troppo diversi: “ancora un passo, e sarà l’inetto, il personaggio inquieto, contraddittorio e velleitario di Pirandello, Svevo, Tozzi”. E’ – questa soglia, questo angusto e abissale corridoio fra due mondi – quello che Luperini, rifacendosi a Homi Bhaba, chiama “il terzo spazio dei vinti”. Dopo ‘Ntoni, infatti,
tutti i personaggi si muovono (…) in uno spazio diverso rispetto a quello consueto sancito dall’appartenenza a una classe o a un gruppo sociale, e al linguaggio e alla ideologia che li caratterizza. Sono degli sradicati in cerca di realizzazione, sanno parlare varie lingue. (…) Ambirebbero a un destino diverso. Sono o diventano dei reietti. Per questo sono pericolosi. (…) Ci parlano di tutti gli esclusi e gli esuli che dalle periferie del mondo giungono nel nostro o che dal nostro si spingono altrove (e sono già, questi ultimi, nostri figli). Alludono a nuova cultura da costruire e a un rapporto sociale da reinventare a partire a partire dall’azzeramento di ogni valore e dalle macerie della moderna civiltà occidentale e di quella arcaico-rurale del mondo contadino e patriarcale (…). Un’utopia, si dirà. Ma forse qui sta l’attualità più vera, e nascosta, di Verga: nel prendere atto duramente di una distruzione e nel far intuire la possibilità di un nuovo fragile spazio fra le macerie in cui i vinti e gli esclusi potranno trovare una voce ed esprimere i loro orizzonti di senso. Non c’è sventura, sosteneva Benjamin, che non abbia implicita una chance.
Il percorso di Luperini nell’universo verghiano si conclude (senza arrestarsi) in questa lezione lucida e stringente: ci insegna l’interpretazione, passando per l’analisi e il commento senza concessioni al personalismo delle ricostruzioni arbitrarie; ci insegna l’attualizzazione senza la retorica dell’attualità e la prosa della cronaca; ci insegna “il confronto all’interno della comunità degli studiosi”: a chiudere il volume – infatti – è la Introduzione agli Atti del convegno Verga e noi (Siena, 2016) nella quale Luperini non si limita a passare in rassegna gli studi degli intervenuti, ma li pone in dialogo serrato fra loro, imprimendo alla riflessione comune un “carattere sostanzialmente antiaccademico”, teso a “collocare lo scrittore siciliano nei giorni nostri e nel dibattito attuale”. Che è quanto – in verità – chiederemmo a ogni convegno del genere, per recuperare, nell’esercizio degli strumenti critici, l’esercizio di strumenti irrinunciabili di ricognizione e di intervento sulla realtà.
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