Vagabondare tra i libri
Pubblichiamo un pezzo collettivo in cui alcuni redattori del blog – in ordine rigorosamente alfabetico – danno conto delle loro letture estive più significative: come risulterà evidente dall’excursus, siamo persone diversamente curiose e per questo scegliamo autori, temi, generi che vanno in moltissime, differenti direzioni. Grazie anche a questa sfaccettata difformità speriamo di raggiungere l’interesse e la curiosità di molti di voi.
Alberto
In estate si diventa, o almeno io credo che così accada a chi nel corso dell’anno è inseguito da (ed insegue) mille improrogabili scadenze, flaneur nella grande città della letteratura. Lo sguardo ozioso e l’andatura indolente sono dei mascheramenti che consentono in realtà di prendere tempo al tempo, finalmente, senza alcun risparmio richiesto dall’imperativo economico. Dunque non darò conto di un percorso ragionato quanto del mio bighellonare sulle strade della narrazione.
Lo stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2019). Un pensionato “novecentesco”, attraverso l’osservazione spietata del quartiere in cui si trascina, recupera un tempo anteriore fatto di speranze e di sconfitte. Le trasformazioni dello spazio fisico sono legate alle trasformazioni economiche: i “fornaciai” degli impianti Hoffmann per la fabbricazione dei mattoni, di cui era fatta l’antica città, sono stati trasformati in piccolo borghesi frequentatori di centri commerciali. La “Sacca” nella “Città di Dio” è Valle Aurelia a Roma, nella volontà – straniante, in un romanzo costruito sulla assillante accumulazione di ripetizioni che devono rendere chiaro e definitivo ciò che si dice – di non pronunciare il nome della cosa e di offrire invece un giudizio che dovrebbe esserne l’essenza. Il “fiume di fango” è sicuramente il Tevere, ma certamente è il lutulento presente. Almeno nel giudizio di chi guarda e racconta. Il “ristagno” è la condizione in cui si compatta nel “corpo sociale” il “Grande Ripieno”, stretto tra il sottile strato di “ricchi e potenti” (in alto) e quello dei “poveri e emarginati” (in basso), mentre “come le venature di grasso in una buona bistecca” “la rete criminale” innerva l’intero tessuto. A scanso di equivoci, la stratigrafia verbale viene ribadita dall’apposito disegno. Nel romanzo sono presenti disegni e riproduzioni di opere d’arte a rendere multimediale il discorso fatto di parole che vanno dal tecnicismo specialistico al romanesco borgataro, passando attraverso l’italiano medio e il neologismo inventivo. Romanzo sicuramente interessante, che impone al lettore una faticosa salita attraverso i sentieri dell’utopia del passato e una umiliante discesa nella distopia del presente. Nella trama non riproducibile di un lungo monologo, interrotto dalle voci di fuori – inserite in corsivo nel testo –, l’elemento unificante risultano essere i “solitari rancori verso non si sa che cosa” che motivano l’atteggiamento spesso bilioso dell’io nei confronti della realtà. Pure si tratta di “disprezzo amoroso” di questo nostro tempo e di questa nostra Città di Dio, a patto, come spiega l’Epilogo, anch’esso rabbioso, di non fare trionfare il falso che distrugge la memoria del passato.
Il tema del falso, presente fin dalle prime pagine del romanzo di Pecoraro, mi ha suggerito la lettura di L’impostore di Cercas, di cui si parla altrove, e di un libro non particolarmente fortunato che la morte del suo autore mi ha rimesso in mano.
Inseguendo un’ombra di Andrea Camilleri (Sellerio, 2014). Le tre identità (Samuel ben Nissim Abul Farag, Guglielmo Raimondo Moncada, Flavio Mitridate) assunte da un uomo realmente vissuto nel XV secolo e l’improvvisa sparizione di tracce dell’ultima parte della sua esistenza, inducono Camilleri a ragionare sull’invenzione e sul ruolo del romanziere. Il discorso metaletterario stabilisce una sorprendente simmetria tra il personaggio che vive tre vite e Camilleri che entra in dialogo con Sciascia e con Calvino per discutere ciò che è vero nella letteratura, e non solo in questo che “in fin dei conti forse non potrà essere definito nemmeno romanzo”. Tre nomi per un uomo nella storia, tre scrittori per cercare il senso di raccontare una storia…
Il ”mistero non svelato” mi ha fatto rileggere “un libro non finito”: Morte dell’inquisitore di Sciascia. Ma già imboccavo un’altra strada attirato dal mistero.
La lotteria di Shirley Jackson (Adelphi, 2007). Il libretto raccoglie quattro racconti: La lotteria, Lo sposo, Colloquio, Il fantoccio. Per quanto io non sia un cultore del genere, ho trovato perfetti questi racconti nella strutturazione lucida di una situazione straniante che risolve la più abituale normalità nell’orrore. Più che farmi pensare a Stephen King, mi hanno fatto risentire l’eco della capacità stilistica di Kafka, seppure in queste pagine l’implacabile occhio sadico del narratore realizzi un capovolgimento rispetto al masochistico senso di colpa della vittima kafkiana.
Per non smarrirmi, ho ripreso la via maestra ripercorrendo a brani e stralci Walter Benjamin, Il narratore – Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, Note e commento di Alessandro Baricco (Einaudi, 2011). Ormai attirato dalle motivazioni metaletterarie, ho guardato con maggior interesse rispetto a un tempo la qualità delle “intrusioni” di Baricco, come lui stesso le definisce. La possibilità di mettere a confronto la forza di alcune espressioni di Benjamin, che procede a balzi per illuminazioni che si incastrano tra loro, con l’esposizione distesa, a volte chiarificatrice di nodi espositivi, di Baricco è un esercizio che credo utile a chiunque intenda, come me, insegnare qualcosa a qualcuno senza pavoneggiarsi troppo.
Nel merito del mio lavoro nel mondo contemporaneo ho cercato di trovare le indicazioni utili a comprendere gli attuali stereotipi da cui ognuno deve difendersi leggendo Funzionare o esistere? di Miguel Benasayag (Vita e pensiero, 2019). La descrizione dei meccanismi psicologici che stritolano la nostra vita nella morsa dell’ansia e dell’insoddisfazione in virtù di una tecnologia che ormai ci ha “ibridato”, pretendendo di darci l’immortalità e cancellando la morte e il tragico, risulta di una chiarezza disarmante. Nell’ambito Nbic (nanotecnologie, biotecnologie, informatica, scienze cognitive), in cui professionalmente Benasayag si muove, vengono reperite le chiavi interpretative utili a capire il senso delle cose. Il discorso dipana con garbo la matassa dei nostri conflitti e delle nostre incongruenze offrendo l’esperienza biografica come esempio della possibilità di opporsi a qualunque tirannia a patto che sia chiara, sicura e sincera, la volontà di opporsi. Vale per la dittatura militare argentina e vale per la pervasività digitale. Avere abdicato alla imperfezione della vita, credere inaccettabile la disfunzionalità e la fragilità, in nome dell’efficentismo capitalistico, ha consentito alla tecnologia di rubarci l’anima. L’ipermodernità è il mondo della tecnica, in cui “tutto è possibile” e in cui risultano inaccettabili o insignificanti i limiti imposti dall’esistenza. L’ultima parte (dai toni un po’ utopici, in realtà) di questo breve saggio è un richiamo forte alla riacquisizione del valore dell’esperienza: solo così l’intoppo del funzionamento, la fragilità, la mancanza performativa, il perdere tempo potranno risultare ’utili’ a darci la complicità dell’amore, il piacere della vita, il controllo della nostra esistenza. “Che questo piccolo volume sia un sorriso per le donne e gli uomini ‘presi’ dalla dura realtà del mondo, […] con la certezza che la vita continua, che non è vero che dobbiamo rinunciare alla vita per accettare il funzionamento […]. Se, alla fine, dobbiamo tutti passare alla cassa, meglio pagare il conto per una vita vera.”
Come sa il lettore flaneur, “il cammino si fa andando” (Antonio Machado).
Linda
La mia è stata un’estate di ricerca e di vagabondaggi tra librerie e consigli: mi sono messa in testa di esplorare il più possibile la narrativa per ragazzi e di trovare qualche titolo che valesse la pena inserire nella biblioteca di classe. Ho trovato pane per i miei denti nella letteratura del nord.
Il mio amico Knud di Jesper-Wung Sung (Piemme edizioni) arriva dritto dalla Danimarca, con tutta la luce e il buio di quelle latitudini. Un libro per ragazzi che viene dal nord non è mai il libro per ragazzi che ti aspetti, è qualcosa di diverso, che scompagina le tue certezze di lettore. Questa è una storia raccontata senza retorica e senza una parola di troppo, che gioca a farti fare quello che vuole: così ti ritrovi a ridere quando dovresti piangere a dirotto. Knud è uno di quegli amici di cui vorresti fare a meno, cialtrone, indisponente, despota, uno che ti succhia la vita, William se lo trova accanto e progetta di ucciderlo, di ammazzarlo in mille modi diversi. Ma Knud è anche l’unico essere che riesce a capirlo e lo tratta come un ragazzo, mentre tutti gli altri gli usano mille premure e lo fanno sentire ben più malato di quello che è. Eppure, se vuole vivere, William deve trovare il modo di liberarsi di Knud.
Jutta Richter è una delle più importanti scrittrici tedesche per l’infanzia e per me è stata una scoperta, un’epifania. Alla fine ho letto tutto quello che ho trovato e non c’è libro che non mi abbia colpito. Anche quelli apparentemente per bambini (il gatto venerdì, ad esempio) contengono veri e propri pugni nello stomaco e significati nascosti. Sono tra l’altro libri molto brevi che ben si prestano alla lettura ad alta voce e sono solo apparentemente per bambini.
Quando imparai ad addomesticare i ragni (Salani): Reiner è un bambino diverso, uno di quelli che viene da famiglie ingarbugliate e non sa mai comportarsi nel modo giusto, ma è anche l’unico che sa scacciar via la paura del gatto delle cantine. La protagonista lo sa e ce lo racconta: Reiner è il suo amico speciale. E proprio quando ci aspetteremmo un libro intinto nella melassa, che la Richter inverte la marcia e ci mostra con crudele realismo di cosa sono capaci i bambini e gli adulti. Per questo amo i nordici: scrivono senza paura e non fanno sconti, mostrano la vita nelle sue mille crude sfaccettature
Il gatto venerdì (Beisler editore) racconta l’incontro tra un gatto e una bambina impertinente. Surreale e misterioso è un libro che sfugge da tutte le parti, sembra un incantesimo, una formula magica. Christine e il gatto venerdì si incontrano tutte le mattine, il gatto le insegna come soffiare, imparare il linguaggio delle mucche, fare l’equilibrista sui tetti, ma è anche un gatto cattivo che la fa arrivare in ritardo a scuola, la spinge a prendere in giro il compagno Muffolo e non conosce pietà. Eppure pare l’unico a conoscere il segreto dell’eternità. Si può resistere a un amico così?
Tutti i sogni portano al mare (Beisler editore) è un’altra storia agrodolce, un’avventura epica. Nove e Kosmos, vivono da soli, per strada; Nove è amico di Kosmos e Kosmos è amico di Novos, ma intendono l’amicizia in modo diverso. Entrambi sognano di arrivare al mare ed aprire un chiosco di bibite, hanno però bisogno di soldi ed è qui che incontrano la regina di Caracas, bellissima e voluttuosa prostituta che offre loro del denaro in cambio di ciò che Nove ha di più prezioso. Questo è decisamente un libro che mi ha schiantato. Va letto, il resto è superfluo.
Il cane dal cuore giallo (Beisler editore) è una storia metafisica, che spiega la creazione del mondo e racconta l’amicizia tra Dio e Lobkovitc, che con Lui creò l’uomo, con Lui litigò e da Lui fu scacciato dal paradiso. Ma a raccontarla ai due bambini Lotta e Prinz è un cane che parla la lingua degli umani e arriva da un luogo remoto. E racconta, racconta bene, purchè abbia in cambio pelle di galletto.
L’ultimo libro del nord viene dall’Olanda ed è Hotel Grande A di Sjoerd Kuyper (la nuova frontiera Junior) e descrive le avventure tragicomiche della famiglia di Kos che gestisce l’Hotel grande A, un hotel in cui vale la pena di andare, squinternato, cinico e sbilenco come gli hotel del mare del Nord. Kos racconta quell’estate folle registrando sul vecchio registratore i fatti: l’infarto del padre, il tentativo suo e delle sorelle di mandare avanti l’hotel, il concorso di bellezza, la partita di calcio, il suo amore per Isabel e gli innamoramenti delle sorelle (matte da legare!). E a fare da sottofondo l’acuto dolore per la morte della madre, che resta lì, come un tarlo, senza permettere a noi lettori di crogiolarci nell’emotività. Succedono così tante cose in questo libro che pare di essere sull’ottovolante. Un libro, un’avventura, uno stile e una scrittura in cui sprofondare e perdersi e ridere e piangere insieme. Un libro decisamente per giovani adulti.
Concludo con un libro che non vuole essere per ragazzi ma racconta storie di letture e di libri Fuori di noi di Giovanna Zoboli (nuova editrice Berti): mentre lo leggevo mi domandavo: e allora? a che serve? Che vuole dirmi? Poi proprio il fatto che non rispondesse a queste domande me lo ha fatto piacere di più.
Mi sono ritrovata lì con l’autrice davanti ai Quindici, primi maestri della mia infanzia, alla scoperta di Piccole donne e all’amore incondizionato per Joe. Ho sonnecchiato quando si parlava di piante e libri e di giardini perché avevo ancora negli occhi le fate disegnate da Adrienne Segur, che avevo dimenticato.
Anche io ho pensato a tutte le volte che ho incontrato un uccello che pareva mi guardasse e non sarebbe dovuto essere lì. Casualmente percorrevo l’Appia antica mentre, nel libro, si parlava di Appia antica.
Insomma un libro che mi ha fatto l’effetto del cassetto dei segreti di nonna: il primo cassetto del comò della camera, su cui stavano in bella mostra le foto di famiglia. Lo aprivi e trovavi un caos apparentemente senza senso: bottoni, foto, cartoline, scontrini, bamboline, fazzoletti, collane, cianfrusaglie, “ciapapulvar”. Eppure quanti pomeriggi in penombra d’estate ho giocato lì, cercando e trovando tesori.
Luisa
Bellezza riposante dell’estate! Dove aspettano pazienti anche per anni i libri accumulati negli inverni – nuovissimi e vecchissimi, corteggiati o respinti, iniziati e mai finiti. Ma l’estate da sola non basta: dev’essere anche stanziale e resettare il rapporto più difficile fra tutti, che è quello col tempo, e lasciarlo scorrere senza che gli orari gli impongano di rimodularsi in contingenti. Questa mia estate – per circa un mese – è andata così. E nonostante gli inverni abbiano stratificato sul mio tavolo libri quanti è difficile smaltirne anche in dieci estati simili, tuttavia vado incontro all’autunno come un atleta saggio alla vigilia di una maratona: senza smargiasseria, ma nella serena consapevolezza di un allenamento sano. Se mi guardo indietro, riesco anche a rintracciare la logica con la quale ho condotto le letture estive (e includo nel novero anche le prevacanziere): ho iniziato con Conversazione in Sicilia di Vittorini e Racconti italiani scelti da Jhumpa Lahiri, accompagnavo agli esami di stato una quinta classe e mi piaceva l’idea di suggerire ai miei allievi di «guardarsi da un punto di vista alieno». A scrutini conclusi, assolti i miei doveri di insegnante, ho sentito forte il richiamo dei doveri verso di me e ho iniziato il recupero di alcuni libri comprati, spiluccati e mai gustati: L’impostore di Cercas, Patria di Aramburu, La città interiore di Covacich, Leggenda privata di Mari. Il tempo iniziava a distendersi e l’idea stessa di “dovere” (forse anche sotto la spinta vittoriniana) mutava segno o addirittura fisionomia; mi sono data pertanto alla lettura di romanzi recentissimi, tre dei cinque selezionati per il Campiello: La vita dispari di Colagrande (malinconico ed esilarante), Carnaio di Cavalli, Madrigale senza suono di Tarabbia. Negli intermezzi tra un nuovissimo e un altro, piccoli antidoti alla nostalgia: quasi alla cieca, ho pescato fra i ventiquattro volumetti che fanno la raccolta di Racconti che La Repubblica pubblicò, a cura di Paolo Mauri, nel 1997, che rileggo quasi ogni estate (con predilezione senza rivali per Il fantasma di Canterville di Wilde, seguito – però a bella distanza – da Il giorno del ringraziamento di Capote). Finché, finalmente rintracciata la misura del mio tempo, mi sono lasciata andare nell’abbraccio familiare delle mie care amiche, Elisabeth Strout (Mi chiamo Lucy Barton), Annie Ernaux (La vergogna) e soprattutto Virginia Woolf (La signora Dalloway): quest’ultimo (con Gita al faro) letto una infinità di volte, ma quest’anno mi era più necessario di altre.
Io non sono mai stata brava nel gioco “della torre” (chi butteresti giù?) perché non apprezzo le efferatezze, nemmeno metaforiche; vado un poco meglio con quello “dell’isola” (chi ti porteresti?), ma poi so che mi dispiace per quelli che ho lasciato a casa (o – ancora peggio, cfr. “efferatezze”- che ho lasciato annegare). Perciò, non potendo parlare di tutti, mettiamola così: fra questi libri, alcuni sono indispensabili per me, per la mia anima (in testa La signora Dalloway), altri mi hanno parlato in modo quasi intimo, confidenziale (in particolare La vergogna, ma anche Leggenda privata): questo piccolo gruppo lo metto da parte, per non fare uso improprio del blog. I romanzi “dei Premi” (quelli selezionati o quelli che i premi li hanno già vinti – il che vale per Patria, per La città interiore, per lo stesso Leggenda privata) hanno dalla loro un riconoscimento recente e “mediatico” rispetto al quale il mio – in questo momento – forse risuonerebbe come un’eco. Quindi, nel selezionarne solo alcuni per LN, sento di volermi appellare non a un giudizio “di valore”, ma a un criterio “di utilità”: indicherò quelli che mi sembra possano sollecitare una riflessione civile e (come si diceva una volta) aprire un dibattito. Accanto a Patria, di cui s’è già parlato in queste pagine (un romanzo potente, con una struttura robusta e mai sovraccarica), sceglierò pertanto L’impostore, Carnaio e – a orientare decisamente il gruppo, e non solo per motivi di cronologia editoriale – Conversazione in Sicilia.
Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (1941 Bompiani). Pubblicato prima a puntate su “Letteratura” fra il 1938 e il 1939, nel clima asfissiante dalla censura fascista, il libro è una intensa riflessione non solo sulla dimensione etica dell’individuo sotto il regime, ma più in generale sulle responsabilità dei singoli verso il proverbiale «mondo offeso». La riflessione è condotta con uno stile straniante: l’impianto realistico delle descrizioni incontra infatti una narrazione di tipo fortemente simbolico. Notissima la trama: Silvestro ha lasciato la Sicilia da quindici anni e vive a Milano, dove fa il tipografo. Il padre, un ex impiegato delle ferrovie, gli comunica con una lettera di aver lasciato la moglie per un’altra donna e in qualche modo affida al figlio la madre, rimasta ormai sola al sud. Senza preavvisarla, Silvestro decide dunque di andare a trovarla nella vecchia casa siciliana. Il viaggio in treno verso l’isola, il ricongiungimento alla madre, il breve soggiorno al paese, la visita al cimitero, prima del rientro al nord, si risolvono in una serie di incontri emblematici che tracciano la parabola esistenziale del protagonista, quella che dovrebbe condurlo dagli «astratti furori», di cui è preda al principio della vicenda, al riconoscimento dei «nuovi doveri», predicati in treno dal Gran Lombardo: «Credo che l’uomo sia maturo per altro», disse. «(…), per nuovi, per altri doveri. E’ questo che si sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose da compiere… Cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo (…) Non proviamo più soddisfazione a compiere il nostro dovere, i nostri doveri. Compierli ci è indifferente. Restiamo male lo stesso. E io credo che sia (…) Perché sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza…».
L’impostore di Javier Cercas (Guanda, 2014; traduzione di Bruno Arpaia). Uno scrittore affermato e depresso (lo stesso Cercas) si imbatte in un “caso” che ha destato scalpore: nel 2005 uno storico spagnolo “di nicchia” smaschera Eric Marco, nato in orfanotrofio da una donna inferma di mente, disordinatamente allevato dal padre e dai parenti, cresciuto fra mille espedienti, che per anni si era fatto passare per un ex deportato nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg e per un militante antifranchista, fino a diventare presidente della più importante associazione spagnola di sopravvissuti ai lager e parenti delle vittime, nonché segretario della CNT, il sindacato anarchico spagnolo. Respinto e al tempo stesso attirato dal personaggio (narcisista, logorroico, grafomane, ma anche indiscutibilmente affascinante) Cercas – anche dietro la spinta del figlio diciottenne, Raul – incontra più volte lui, la moglie, le figlie, i conoscenti più stretti, si reca a Flossenbürg e nei luoghi della sua giovinezza, prima di decidersi a scriverne la vicenda, peraltro già ampiamente raccontata dai giornali e da un documentario. Inizialmente indignato e sconcertato dalla enormità della menzogna, a poco a poco lo scrittore sposta la sua attenzione sui perché dell’impostura e soprattutto sulla arrendevolezza ad essa di quanti, anche negli ambienti più colti e avveduti, la subirono senza interrogarsi, come i lettori di un romanzo accettano senza condizioni la finzione del romanziere. Qui si innesta il secondo livello del libro, quello che si interroga sulla grande impostura della letteratura e che conduce a un terzo livello, quello che probabilmente, in una successione più sincera, dovrebbe essere il primo: l’impostura rappresentata dalla vita di ognuno di noi, la scollatura fra quel che siamo e quel che vorremmo essere, lo sforzo disperato per tentare di adeguare, l’una all’altra, le due immagini – ugualmente vere – di noi. In una riflessione civile, è sul secondo livello che mi soffermerei: perché è così doloroso ammettere che la mia generazione, nutrita non più (per ragioni anagrafiche, non per insensibilità) dei ricordi e delle memorie delle guerre e delle dittature, ma del racconto di esse e delle Giornate del Ricordo e della Memoria, abbia potuto trovare in Eric Marco l’eroe che cercava? Che abbia ceduto a quello che Cercas chiama kitsch storico, «una menzogna narcisistica che nasconde la verità dell’orrore e della morte»?
Carnaio di Giulio Cavalli (2018, Fandango). DF è un paese sulla costa, che vive di pesca, piccoli ristoranti, qualche turista, pettegolezzi e poco altro. Un pescatore, di rientro da una notte di lavoro alquanto infruttuosa, rinviene il cadavere di un giovane scuro di pelle e forte di corporatura e, pur consapevole che questo gli costerà anche i pochi guadagni al mercato e il malcontento della moglie, denuncia il ritrovamento alla polizia, che accoglie la notizia con fastidio e impazienza, più che con autentica preoccupazione. La faccenda inizia a destare scalpore quando un secondo cadavere – identico per età, fattezze, provenienza apparente – viene ritrovato riverso sulla spiaggia dalla pluridivorziata e chiacchieratissima vamp del luogo: il caso rimbalza alla TV locale, dove un abbronzato azzimato sedicente giornalista lo rilancia, avido di uno scoop. Ma i riflettori si accendono davvero solo quando, durante una camminata, il medico condotto, abituato da sempre alle vicende ordinarie di nascite e morti di DF, scopre che una intera insenatura è stata ricoperta da cadaveri: a strati, si sono ammassati i corpi senza vita di giovani uomini incredibilmente tutti simili fra loro. Nonostante le insistenti richieste d’aiuto da parte del sindaco e dei maggiorenti locali, parroco incluso, in una replica grottesca di dinamiche politiche cui la cronaca ci ha drammaticamente abituato, nessun provvedimento “dall’alto” interviene a fronteggiare il problema – innanzi tutto cinicamente pratico – dello smaltimento dei cadaveri, mentre la burocrazia impone in modo intransigente la conservazione di essi. Il diapason della esasperazione, che è anche il punto di rottura (o lo sconcertante punto di svolta) della storia, si raggiunge quando, dopo ulteriori ritrovamenti, DF viene interamente sommerso (strade, giardini, usci delle case) da un’ondata di cadaveri. Di fronte alla indifferenza del Governo, e al ripetersi cronico delle ondate, DF decide allora di autodeterminarsi e, sganciandosi anche istituzionalmente dal potere centrale, trasforma quella che è una calamità in una risorsa, il dramma in profitto, diventando, in brevissimo tempo, una piccola potenza economica: una ricchezza mai vista che finirà per distruggerla. Estremo, provocatorio, sconcertante, questo romanzo si impone all’attenzione di chi – coraggiosamente e dolorosamente affrontando le imposture grandi e piccole dei nostri giorni e di sempre – si interroghi con urgenza sui nuovi doveri e sul significato di essi per la coscienza, così come voleva il Gran Lombardo (di Sicilia).
Morena
L’estate è la stagione che, per antonomasia, mi riporta al piacere anarchico della lettura: sospesi “i doveri” rispetto a quei testi con i quali lavoro posso finalmente afferrare dagli scaffali ciò che desidero leggere. Ho un mio modo, molto istintivo, di inseguire le letture: arraffo quasi bulicamente ciò che in quel momento, chissà perché, mi chiama a sé. Poi, come in una sorta di boomerang, l’incontro con libri “speciali” mi fa tornare alla riflessione critica, a una scrittura che permetta di condividere con altri eventuali lettori le ragioni del piacere estetico, cognitivo, emotivo provato. Ecco, in sintesi, alcune di queste letture recenti.
Salvare le ossa di Jesmyn Ward (NNE Editore) – Traduzione di Monica Pareschi: l’immagine di copertina e il titolo evocano una storia di dolore e sopravvivenza ambientata nel profondo sud degli Stati Uniti. Al centro di questa vicenda, accompagnata dalla costante percezione dell’incombere di una tragedia ineluttabile – frequenti i richiami dell’io narrante alla vicenda di Medea e Giasone – sta il tema della maternità. Madre sarà infatti Esch, una ragazzina di colore appena affacciatasi all’adolescenza e già incinta; madre è China, l’esemplare di pitbull che ha appena dato alla luce dei cuccioli assai preziosi per il fratello Skeetah. Sullo sfondo – lungo tutto il romanzo – resta la maternità drammaticamente recisa dal parto della madre di Esch, la cui perdita ha lasciato un vuoto incolmabile in ciascun componente della famiglia. L’incombere di Katrina sulla Fossa, luogo solitario e degradato presso Bois Sauvage (Mississipi) dove Esch vive con i tre fratelli e il padre, mette alla prova i legami solo in apparenza “sgangherati” di questa famiglia che miracolosamente saprà “salvare le ossa” come promette l’explicit.
Acqua di mare di Charles Simmons (BigSur) – Traduzione di Tommaso Pincio: Un romanzo breve che immette nelle estati lente, sonnacchiose e “alcoliche” dell’America degli anni Sessanta. L’incipit – “Nell’estate del 1963 io mi innamorai e mio padre morì annegato” – segnala perentoriamente i fondamentali della narrazione: un Bildungsroman in prima persona nel quale la relazione tra il protagonista adolescente e il padre passa per la giovane Zina, catalizzatrice dei desideri erotici di entrambi. Attorno al triangolo amoroso ruota una serie ben tratteggiata di personaggi minori e un’ambientazione assai evocativa legata all’isola di Bone Point, sulla costa atlantica degli USA.
La vita dispari di Paolo Colagrande (Einaudi): Buttarelli è il protagonista di questo romanzo digressivo e tragicomico. Raccontato in prima persona da un narratore di secondo grado che si affida a una testimone inattendibile («Gualtieri […] raccontava le cose per intermittenze e ricadute, per così dire, con un andamento centrifugo che disperdeva il discorso in tanti temi satellite, magari interessanti ma di poca economia d’insieme») è la storia di un’esistenza grigia che si dipana senza scosse nella provincia emiliana. La vita di Buttarelli è “dispari” non solo per l’anomalia che fin da bambino gli consente di saper leggere solo il lato sinistro dei libri, ma anche perché il Caso domina sovrano sulla sua esistenza piatta, remissiva e in qualche modo “storta”. È un libro che è bene raccontarsi a mezza voce, come restando seduti al bar, nella piazza di un paese della provincia emiliana immaginando che un amico dalla pronuncia regionale ben marcata te lo narri, mentre mantiene «una percezione delle cose molto diversa da quella comune, ciò che si vede bene dalle astruse perifrasi che utilizza per spiegare concetti banali» (L. Matt).
La versione della cameriera di D. Woodrell (NNE Editore): Si torna di nuovo in America, nel Missouri. Il narratore intradiegetico, il dodicenne Alex, narra la ricostruzione da parte della vecchia zia Alma – la “versione della cameriera”, come recita il titolo – della tragica esplosione di una sala da ballo in cui nel ’29 morirono 42 persone e di cui sono rimasti sconosciuti i colpevoli. Ricalcati i moduli narrativi del noir (un “country noir”, come l’autore stesso ama chiamarlo), il romanzo dipana via via il quadro di una società perbenista e ipocrita, di un piccolo paese dove gelosie e rancori alimentano tensioni più o meno note ma indicibili: le vicende degli individui morti nell’incidente prendono la forma di una sorta di Spoon River in prosa. Alma è l’unica e l’ultima depositaria della verità ed è la sola che possa rendere giustizia alle vittime, tra le quali la controversa ma amata sorella Ruby.
Niente caffè per Spinoza di Alice Cappigli (Einaudi): Un tardivo ma felice esordio narrativo che mette al centro l’incontro – affettivo e culturale – tra un vecchio professore di filosofia bisognoso di accudimento – infatti la cecità gli impedisce l’accesso alla sua ricchissima biblioteca – e una giovane donna disoccupata e in procinto di separarsi. Ambientato in una Livorno ben riconoscibile non solo negli scorci cittadini e costieri ma anche nella verve dei caratteri e della lingua, l’autrice rappresenta con pari levità e consapevolezza tanto il tema della senescenza del Professore quanto quello del coraggioso mutamento di vita di Maria Vittoria. Nelle ore spese insieme l’improvvisata governante e l’anziano professore si scambiano un’umanità che li arricchisce reciprocamente, tra un passato di zucchine e una citazione di Aristotele, di Pascal, di Epitteto.
Resta con me di Ayobami Adebayo (La nave di Teseo) – Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini: L’autrice nigeriana, al suo esordio narrativo, racconta una storia d’amore struggente e lacerante. La serena vita di coppia di Yejide e Akin, inusualmente all’insegna della reciproca esclusività in una società in cui ancora vige la poligamia, si infrange suo malgrado sulla mancanza di figli. A quattro anni dalle nozze, la famiglia di lui impone infatti una nuova moglie alla coppia: «Chissà, forse il re del cielo risponderà alle tue preghiere grazie a questa moglie. Quando resterà incinta e avrà un figlio, siamo sicuri che ne avrai uno anche tu» (p. 19)
Il dolore, la gelosia, il tradimento, il desiderio, l’umiliazione – tutti “movimenti emotivi” dei due protagonisti cui è affidata, a voci alterne, la narrazione della loro vicenda privata tra presente e passato – si stagliano sullo sfondo di una Nigeria politicamente instabile, sospesa tra tradizione e modernità.
Buoni vagabondaggi letterari a voi tutti!
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